Le due vite di Daalib. In fuga dall’omofobia africana per essere me stesso
Testimonianza di Daalib, un ragazzo gay di Mogadiscio (Somalia), raccolta da Alessandra Maria Starace*, seconda parte
Il mio viaggio per arrivare in Italia è durato circa un anno. Col passaporto somalo ho attraversato Paesi in cui la vita di un omosessuale non vale più della polvere su cui cammina; ogni mattina scommettevo con me stesso se sarei arrivato o no alla sera, poi la sera al giorno dopo e, per fortuna, ho vinto tutte le volte.
Per “vinto tutte le volte” non intendo che l’esperienza di questo viaggio sia stata una specie di vacanza: il soggiorno in Libia lo definirei un incubo, per esempio.
Ora, io immagino che voi abbiate sentito parlare spesso dell’argomento “immigrazione”, dal momento che la marea di persone che scappano dall’Africa per rifugiarsi in Italia o nel resto d’Europa è un discorso che vi riguarda da vicino. Avere punti di vista diversi ed esprimerli è lecito: so che sono stati fatti anche film e documentari che spiegano bene tutti i motivi e le dinamiche di questa massacrante avventura che molti di noi decidono d’intraprendere per scappare dalla guerra, dalla siccità, dalla miseria. Nel mio caso da morte sicura.
E la morte l’ho vista da vicino il giorno in cui ho dovuto scegliere, con una pistola puntata contro lo stomaco, se permettere all’uomo che la impugnava di abusare di me o rifiutarmi e andare all’altro mondo. Non sono stato né il primo né l’ultimo; le violenze che ho subito mi avvicinano a tanti altri ragazzi e, soprattutto, tante altre donne che pagano in silenzio questo prezzo solo per tentare una vita migliore, per avere una – dico almeno una – possibilità. Se fossi morto mi sarei negato quell’unica possibilità; così, come si dice, ho scelto il male minore. E poi sono andato avanti.
Nel febbraio del 2016 arrivai in Italia, a Lampedusa, dopo un viaggio in cui i nostri corpi erano schiacciati uno sull’altro e durante il quale temevo, nel caso la barca cominciasse a imbarcare acqua, di essere lanciato fuoribordo come una inutile zavorra. A tutto ciò si aggiungeva il pensiero fisso di quello che avrei dovuto o non dovuto rivelare di me in Italia, il vero motivo della mia fuga dall’Africa.
Quando dico che vivo nella una paura costante per la mia vita, tanto da mantenere ancora l’anonimato in situazioni come questa testimonianza, non esagero; ne è una prova il fatto che, sbarcato a Lampedusa, messo davanti alla Commissione che chiedeva quale fosse il motivo per cui mi ero imbarcato fuggendo dalla Somalia, io risposi: «Scappo dalla guerra».
Non rivelai di essere omosessuale, e non perché mi vergognassi; non lo dissi perché nei campi in cui avrei dovuto trascorrere un tempo imprecisato era pieno di ragazzi che venivano dalla Somalia, dall’Etiopia, da tutti quei Paesi in cui l’omofobia è sempre stato un atteggiamento normale e giustificato; quindi pensai che sarebbe stato davvero stupido da parte mia farmi ammazzare di botte dai miei connazionali dopo tutto quello che avevo fatto per arrivare in Italia. Non so se feci la scelta giusta, se avrei ricevuto fin da subito più aiuto qualora avessi rivelato la vera ragione che mi aveva indotto a scappare da uno dei Paesi musulmani più intransigenti verso le persone omosessuali.
Fatto sta che non lo dissi, per cui mio iter burocratico e il mio percorso furono simili a quelli di tutti gli altri immigrati.
Quando arrivai, mi sentii subito carico per il tempo e le possibilità che ora avevo davanti e pensai che, forse, avrei potuto ricominciare a lavorare a qualcuno dei miei progetti.
L’idea della cura di me stesso e degli altri non mi ha mai abbandonato; ho preso il diploma di Operatore Socio Sanitario e ho cominciato a lavorare prima come badante e poi negli ospedali; attualmente ricopro l’incarico del trasporto dei malati d’urgenza al pronto soccorso, in Abruzzo. Questo lavoro mi piace molto, e ancora di più mi piacerebbe continuare a studiare per aiutare e curare il prossimo, specie se sofferente.
Nonostante la mia vita non sia stata sempre serena, non posso negare che, qui in Italia, molte persone hanno contribuito al mio benessere e io sono grato a chi mi ha offerto una nuova possibilità e una vita più serena; per esempio, ho conosciuto un dottore che cura i miei denti, quelli che ho rovinato da piccolo mettendo il dito in bocca per la troppa fame. Ho trovato un’associazione che tutela, promuove e accompagna le persone LGBTQIA+, AGEDO: ho molti amici cattolici che frequentano l’associazione La Tenda di Gionata, sono diventato mediatore interculturale per gli immigrati somali; ho tantissimi altri progetti che tengo in serbo ma che confido di realizzare insieme alle persone che ho trovato e che rendono la mia vita degna d’essere vissuta.
Tuttavia, come vi dicevo, io non sono un cittadino italiano, e questo implica cose di cui mi resi conto quando andai a trovare mia madre in Etiopia, qualche tempo fa.
Dovete sapere che l’Etiopia non è un Paese di religione prevalentemente musulmana, ma l’intolleranza per le persone omosessuali che c’è lì non è seconda a nessun altro Paese del mondo. Ben sapendo questo, e senza la cittadinanza che mi avrebbe in qualche modo tutelato (perché una cosa è far del male a un tizio che ha il permesso di soggiorno, un’altra è farla a un cittadino italiano), mi tagliai i capelli, mi vestii degli abiti e degli atteggiamenti più maschili che mi fosse possibile: in pratica, cercai di non sembrare gay. Mi muovevo e parlavo in modo innaturale, sembravo la caricatura di me stesso. A ripensarci un po’ mi viene da ridere, un po’ da piangere.
Tornato da quell’esperienza – in cui mi sentii controllato costantemente e con la sensazione di una ghigliottina sul collo che mi avrebbe decapitato al primo passo falso – , capii che per un gay somalo l’unica possibilità di vivere la propria vita è quella di non essere un cittadino somalo. Nel mio Paese non sono più tornato. È un Paese strano, a pensarci bene; la gente ti sorride e ti aiuta se caschi per terra, ma ti disprezza se ti innamori della persona che ritiene sbagliata per te.
Oggi, io sono un ospite nel Paese in cui vivo; studio e lavoro da otto anni e fin quando sarà così continuerò a temere per la mia vita.
Sono Daalib, un ragazzo somalo omosessuale e questa è la mia testimonianza. Sono riuscito, e non avrei immaginato di farlo, a raccontarvi la mia storia, il mio percorso, le mie paure, le mie conquiste; a dirvi tutto.
Tutto, tranne il mio vero nome.
* DUE VITE è un progetto di Alessandra Maria Starace e dei volontari del Progetto Gionata per raccontare le vite dei migranti LGBT+ spesso in fuga da Stati dove la guerra, l’intolleranza e l’omotransfobia uccide. Vorremmo raccogliere e raccontare le loro storie dimenticate per mostrare le difficoltà ma anche gli incontri che gli hanno cambiato la vita, perché ricordiamo che ognuno di noi può sempre fare la differenza nell’accogliere l’altro, perché “chi salva una vita salva un mondo”. Vuoi aiutarci, vuoi raccontarci la tua storia o di una persona a te vicina? Scrivici a gionatanews@gmail.com