Chiedimi se sono felice. Le persone trans e le loro famiglie si raccontano
Dialogo di Katya Parente con Natascia Maesi
Se solitamente è difficile fare coming out, dire: “Mamma/papà, sono lesbica/gay”, pensate a qualcuno che debba far capire ai propri genitori di essere nati nel corpo sbagliato. Per alcuni può essere una tragedia, per altri (e speriamo che ce ne siano sempre di più) può essere invece l’inizio di un percorso fatto insieme – il percorso che porta ad essere se stessi.
Perché questa strada sia sempre più facile da percorrere, Arcigay ha ideato la campagna “Chiedimi se sono felice”. Ce ne parla proprio la presidente Arcigay, Natascia Maesi.
Perché una campagna del genere?
La campagna “Chiedimi se sono felice” nasce dal desiderio di dare voce alle uniche persone che nella gogna mediatica che si è scatenata intorno al “caso Careggi”, l’ispezione del Ministero a seguito dell’interrogazione di Gasparri che poi si è rivelata un buco nell’acqua come era prevedibile, non sono state ascoltate. Abbiamo pensato che le persone più titolate a parlare di percorsi di affermazione di genere in età evolutiva fossero proprio i minori presi in carico all’Ospedale di fiorentino e le loro famiglie.
Sono anni che sosteniamo: “niente su di noi, senza di noi” e lo abbiamo voluto ribadire con questo progetto. In più, volevamo arrivare ad un pubblico ampio, uscire dalla nostra bolla e parlare a chi si fa un’idea su questo tema, senza aver avuto mai la possibilità di incontrare persone trans e non binarie, basandosi sui discorsi d’odio pronunciati da politici e odiatori da tastiera (uso il maschile sovra-esteso non a caso, visto che molte donne, tra cui il Presidente Meloni, hanno dato prova di maschilismo patriarcale).
Con quale criterio avete scelto i “testimonial”?
Attraverso la nostra Rete Trans Nazionale che collabora da tempo con Affetti Oltre il Genere, un’associazione di famiglie che affrontano questi percorsi quotidianamente, abbiamo incontrato i genitori di Zoe, Viola, Emma, Greta e Romeo. Abbiamo trovato fin da subito una calorosa accoglienza, un grande entusiasmo, la voglia di esserci e metterci la faccia.
Il bel clima che si è creato, ha facilitato anche il lavoro dell’agenzia Pavlov che ha realizzato per noi la campagna. Poi quando abbiamo conosciuto anche loro, 3 ragazz3, ci siamo subito resi conti non si trattava di bambin3 e adolescenti sprovvedut3, confus3, influenzabili ma di persone consapevoli, con le idee chiare e molto determinate a raggiungere i propri obiettivi, erano tutt3 alla ricerca dell’equilibrio, del benessere e della felicità che deriva dal sentirsi completamente a proprio agio con il proprio corpo e la propria identità.
Tra le persone protagoniste della campagna c’è anche chi assume triptorelina e ha potuto spiegare cosa è cambiato nella sua vita con la sospensione della pubertà.
Quello che abbiamo riscontrato è che non ci è stato riportato alcun danno permanente, alcun effetto collaterale particolare legato a questo farmaco. Al contrario, è emersa con inconfutabile chiarezza, la serenità che hanno ritrovato queste persone quando hanno capito che potevano vivere la propria identità liberamente, senza che fosse più un problema per nessunƏ.
Quanto è importante, nel processo di transizione, l’appoggio dei genitori?
Fondamentale, direi. Il comune denominatore di tutte queste storie è il lieto fine. Dopo il terremoto iniziale che il coming out di unə figliə si porta dietro, per fortuna arriva (quasi) sempre il sereno, anzi l’arcobaleno. Volevamo raccontare storie positive, parlare di felicità, perché la felicità è un diritto che non dovrebbe essere negato a nessunə. Volevamo contrapporci alla narrazione tossica, dai contorni inquietanti, che appartiene alla destra transfobica.
Una narrazione che ci consegna in pasto al pubblico, spettacolarizzando e ridicolizzando le nostre vite, patologizzando i nostri percorsi e creando il mostro, il nemico. Ad un allarme sociale ingiustificato abbiamo voluto contrapporre la quotidianità rassicurante delle vite di chi fa questi percorsi e mostrare che il problema non sono loro ma chi ce l’ha con loro.
Volevamo che fosse chiaro che il vero problema di cui dovremmo preoccuparci non sono le persone trans ma la transfobia sociale che continua a fare tante vittime. Nel 2022 l’Italia ha vinto gli “Europei della transfobia”, perché abbiamo il numero più altro di transicidi (omicidi e suicidi trans) tra i Paesi dell’Unione.
È un’idea piuttosto comune che le persone T siano una sorta di “fanalino di coda”, diversi tra i diversi, della comunità LGBTQ. È vero? Se sì, perché e cosa si può fare per cambiare le cose?
Che all’interno della nostra comunità ci siano soggettività più invisibilizzate di altre è un’evidenza con cui dobbiamo fare i conti e che deve interrogarci. Quello che accade oggi alla comunità trans e non binaria, è accaduto a noi lesbiche negli anni ’70/’80. E non sono messe meglio le persone bisessuali e bi+, intersex e asessuali.
Noi lesbiche per esempio, non eravamo previste e non era previsto che sopravvivessimo (come diceva Audre Lorde). Abbiamo dovuto (im)porci come soggetto collettivo per far sentire la nostra voce e uscire dal confino politico a cui ci avevano destinate e credo che lo stesso percorso stia facendo il movimento trans italiano. Questi processi non sono mai facili e spesso sono discontinui, bisogna saper stare nella contraddizione e anche nel conflitto se si vuole crescere insieme.
Io sono ottimista, però, perché sento che non solo nel movimento lgbtqia+* ma anche fuori, tra la gente, è aumentata la sensibilità sulle rivendicazioni trans e non binarie.
C’è una maggiore prossimità a queste esperienze che vengono accolte con meno pregiudizi e con voglia di saperne di più e questo accade grazie al coraggio delle persone trans che accettano di esporsi e di farsi bersaglio. A loro, come a Sylvia, Marsha e le altre veterane di Stonewall, dobbiamo la grande rivoluzione che stiamo vivendo oggi.
Cosa consigliate ad un adolescente che soffre per la propria disforia di genere?
Lə rassicurerei, dicendogli che le cose cambiano e stanno già cambiano, che non è solə e che a lottare per un mondo che ci preveda tutt3, siamo in tant3. Mi piacerebbe che sapesse che può rivolgersi ai tanti Centri Antidiscriminazioni e Comitati territoriali di Arcigay del territorio. Che c’è una comunità che lə aspetta. Credo fermamente che cambiamento non dipenda solo da noi ma parta anche da noi. Serve un cambio di prospettiva importante che ci aiuta a stare meglio con la nostra identità.
Qualche volta, consapevolizzare che la fonte della nostra sofferenza non è dentro di noi ma fuori, può salvarci la vita. Il problema non è l’identità di genere che percepiamo ma il modo in cui essa viene processata ed accolta dalla società. È sul mondo là fuori che dobbiamo intervenire con educazione e formazione, politiche inclusive di tutela e di affermazione. Nessunə ha il diritto di farci sentire sbagliat3. Ma, nemmeno noi, possiamo fare questo a noi stess3.
Speriamo che tutti riescano a percepire questo concetto così importante. Intanto ringraziamo Natascia per la chiacchierata. Chi volesse saperne di più sulla campagna, può cliccare su chiedimelo.arcigay.it, ricordando ai lettori anche il sito ufficiale di Arcigay nazionale, su cui potranno trovare una miniera di informazioni sul mondo LGBTQ+ e anche la sede del movimento a loro più vicina.