“Le solitudini” di un cristiano LGBT+ (Gv 20, 11-17; Gv 20, 2-14)
Lectio di Luigi Testa* tenuta all’incontro su “le 7 parole” su “Le solitudini” (Gv 20, 11-17; Gv 20, 2-14) del gruppo Kairos, cristiani LGBT+ di Firenze il 12 novembre 2024
‘Solitudini’ va declinato al plurale. Esiste anche una solitudine ricercata, forse desiderata, come spazio di deserto custodito, in cui porci al riparo dalla «balìa del quotidiano»1, in cui fuggire dai “popolosi deserti”2 che in cui viviamo. Uno spazio di fuga in cui anche tornare a sentire la Sua voce3.
Ma non è questa la solitudine che questa sera vogliamo portarti, Signore. Questa sera vogliamo portarti quella solitudine che morde – quella in cui sentiamo graffiarci una mancanza – quella in cui la vera presenza che ingombra è un’assenza, un vuoto.
E poiché anche la nostra realtà interiore aborrisce il vuoto, quell’assenza rischia di essere ‘valangata’ da mostri, fiere, fantasmi. Arriva lui, il Nemico – Satana – «questo approfittatore di solitudini»4, e ciascuno di noi sa che in che modo se ne approfitta: tentazioni depressive, scoraggiamenti, infedeltà…
Ti portiamo questa sera, Signore, questa solitudine, con le lotte, le fatiche, i naufragi che la abitano. Tutto perché sentiamo un vuoto che brucia.
Il primo testo evangelico da Giovanni comincia con una collocazione temporale: Nel giorno dopo il sabato [Gv 20,1]. Ho pensato subito di partire, in questa lectio, dai Vangeli della Resurrezione – i Vangeli del “giorno dopo il sabato” – perché si forma in me sempre più la convinzione che dobbiamo stare fissi in quel “giorno dopo il sabato”, con i piedi fissi lì 5. In quelle pieghe si nascondono i tesori di cui abbiamo bisogno.
Forse sono suggestionato in questo anche da una mia esperienza personale. Ho vissuto i mesi del lockdown da solo, a Milano; tutto sommato meglio di altri, ma comunque con una solitudine che mordeva, peraltro da single. In quelle settimane mi ha tenuto molta compagnia il Vangelo dell’apparizione alla Maddalena – vi ho passeggiato, camminato, pasciuto molto – tanto da finire per impararne a memoria il testo. E quella è stata la Sua Presenza nella solitudine di quei mesi.
Maria [Maddalena] stava all’esterno vicino al sepolcro e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro [11].
Si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca [Gv 21, 2-3].
«Di che è mancanza questa mancanza, / cuore, / che a un tratto ne sei pieno? di che? Rotta la diga/ t’inonda e ti sommerge / la piena della tua indigenza…»6. Di che è mancanza questa mancanza, Maria, che ad un tratto ne sei piena, «malata d’amore» [Ct 1,5], e nel giorno dopo il sabato non riesci a far altro che correre disperata alla tomba – a cercare che? a cercare chi? Di che è mancanza questa mancanza, Pietro, Tommaso, Giacomo, Giovanni…, tanto che la piena di questa indigenza vi travolge e per non soccombere dovete alzarvi e andare: «Vado a pescare – Veniamo anche noi»?
A Maria Maddalena e ai sette brucia una solitudine – fa male una mancanza che non avevano messo in conto, e che ha il sapore, così avvelenato, di una promessa non mantenuta. Aveva detto «Non vi lascerò orfani; tornerò da voi» [Gv 14,18] – e dov’è? «Ritornerò e vi prenderò con me» [Gv 14,3] – un’altra promessa non mantenuta. Signore, se dovessimo amarti per le promesse che mantieni, forse avremmo già smesso. E quante volte anche la nostra solitudine ha le crepe di promesse non mantenute.
Maria e i discepoli abitano in modo diverso questa solitudine.
Maddalena torna al sepolcro: anzi, si china sul sepolcro, si ripiega sull’assenza che la riempie. Maddalena siamo noi quando lasciamo che il cuore strisci verso le briciole che son rimaste di una presenza che non c’è più, quasi per succhiarne disperatamente ancora le ultime stille di dolcezza. Ci chiniamo sul sepolcro; ci ripieghiamo su un passato che non c’è più; così curvi su noi stessi, che, quando arriva una novità che riporta vita, noi non la riconosciamo. Si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù – pensando che fosse il custode del giardino [Gv 20, 14–15].
Pietro e gli altri, invece, “si distraggono”; si gettano altrove; fuggono dal centro di loro stessi: «Andiamo a pescare – Usciamo». È un altro modo di sfuggire alla elaborazione del lutto. La Maddalena è curva su se stessa; gli apostoli tentano di uscire fuori da se stessi. E così anche noi. Spesso, ad esempio, rimpiazziamo l’oggetto perduto con un nuovo oggetto – appaltiamo ad un esterno il compito di riempire l’assenza che abbiamo dentro –, ma è un inganno: «Per incontrare una nuova presenza bisogna prima fare in modo che l’assenza sia una vera assenza»7. E infatti, in quella notte non presero nulla [Gv 21,3].
Detto questo, Maria si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi [Gv 20, 14]. Quando già era l’alba Gesù si presentò sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù [Gv 21,4].
«Gesù stava lì» – «si presentò». Nell’originale in greco, l’evangelista usa il medesimo verbo, ἵστημι, di non facilissima traduzione – anche per la difficile resa in italiano dei tempi verbali impiegati: il primo un participio perfetto, il secondo un aoristo.
Sul piano spirituale ci può aiutare la scelta della Vulgata: Maria Maddalena «vidit Jesum stantem», vide Gesù che stava là; e poi, quando era già l’alba, «stetit Jesus», Gesù stette sulla riva.
Non è che Gesù appaia; no: Gesù sta. È lì. Quello che cambia non è che prima non ci fosse e che ora c’è; quello che cambia è che ora la Maddalena e gli apostoli se ne accorgono – pur con una certa gradualità: nessuno lo riconosce all’inizio.
Le apparizioni del Risorto non hanno a che fare con una presenza intermittente di Gesù: sono piuttosto lo spazio di grazia in cui, per venire incontro all’imperfezione della loro fede, ai discepoli è sollevato il velo sulla realtà definitiva8. Nel guado di quella piena della loro indigenza, ad un certo punto, Maria e i discepoli realizzano che Gesù sta lì. Realizzano che la loro solitudine è abitata da una Presenza. Anzi: che se avvertivano quella solitudine che mordeva era perché essa era gravida di una Presenza – della Sua Presenza – che chiedeva di essere riconosciuta.
Questo è vero anche per noi, e chiediamo alla Maddalena e ai discepoli di aiutarci a realizzare anche noi che Egli sta lì. Il peso della solitudine documenta che siamo fatti per una compagnia – per la compagnia di una Presenza, della Sua Presenza. Essa è in qualche modo quella spina nella carne [2Cor 12–7] che ci conduce, pur gradualmente, a realizzare che, intorno alle nostre tombe vuote o sulla spiaggia all’alba di una notte senza pescare nulla, Gesù sta lì.
Egli abita la nostra solitudine ancor più nel momento in cui l’avvertiamo forte, come vita che pulsa e chiede di venire alla luce. Quando arriva a mordere la solitudine, è essa che mi apre gli occhi sulla Tua Presenza che chiede di essere riconosciuta.
E qui forse potremmo fare anche un’altra considerazione, che accenniamo solamente, perché rischierebbe di portarci troppo lontano. La verità per cui siamo fatti per la compagnia della Sua Presenza ci aiuta a comprendere come mai possiamo sentir mordere la solitudine anche tra le nostre compagnie. In fondo, Maddalena avrebbe potuto avere la compagnia delle altre donne, e sicuramente anche la compagnia della Madre di Gesù. E gli apostoli sono in compagnia; anzi, noi sappiamo dal Vangelo che Pietro aveva addirittura una compagna.
Eppure, ogni nostra compagnia porta scritto «Non basta». E non perché siamo programmati per una moltiplicazione quantitativa delle nostre compagnie: più compagni, più compagne, più storie, più relazioni. No, il discorso è qualitativo. È perché siamo fatti per una compagnia qualitativamente superiore, e infinitamente superiore: la Sua.
Se le compagnie umane – anche quelle buone, belle, valide – non ci bastano mai, lasciandoci sempre una quota irriducibile di solitudine che di tanto in tanto arriva a mordere, è perché siamo fatti per stare con Lui. Gioia piena solo nella tua presenza, dolcezza senza fine solo alla tua destra [Sal 15,11].
E fin quando non avremo la Sua Presenza – e staremo alla Sua destra – in maniera definitiva, tutto il resto porterà scritto «Non basta». Restiamo affamati. Ha ragione David Maria Turoldo quando osa chiamare Cristo così: Tu «sei il nostro affamatore»9.
Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?» [Gv 20,15].
Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No» [Gv 21,5].
Quando finalmente Lui arriva, fa le domande giuste: «Chi cerchi?» – «Non avete nulla da mangiare?».
Chi cerco per sopravvivere alla mia mancanza? per riempire la mia solitudine? Quest’estate, dopo tanto pensarci, ho fatto un tatuaggio; mi sono tatuato addosso una frase del Cantico dei Cantici: «Voglio cercare l’amato del mio cuore» [Ct 3,2]. È stata una maledizione.
Quando arriva l’approfittatore delle nostre solitudini, e riempio la mia solitudine con incontri che in realtà non saziano – «Perché spendete denaro per ciò che non è pane?» [Is 55,2] – mi capita – magari mentre mi rivesto – di leggere quella scritta sul polpaccio: «Voglio cercare l’amato del mio cuore». E capisco che ho perso tempo, perché io voglio cercare l’amato del mio cuore. «Chi cerchi?» – «L’amato del mio cuore».
Aggiungerei forse, per capirci meglio: «dove cerchi?». Del resto, gli angeli, al mattino del giorno dopo il sabato, rimproverano le donne così: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo?» [Lc 24,5]. Questa domanda mi è tornata in mente qualche settimana fa, quando un amico mi raccontava della sua decisione di interrompere, almeno per un po’, l’uso di un’app di dating, che, a suo dire, non lo aiutava a fare nessun incontro di qualità.
Senza alcun giudizio, il punto è: chi cerchi? e perché cerchi tra i morti colui che è vivo? Che può significare anche: perché continui a cercare la vita tra le solite cose, nei vecchi posti che non ti danno nulla, tra gli scheletri e i cadaveri in putrefazione del passato? Il nostro problema è che, a volte, cerchiamo nei posti sbagliati.
E poi la seconda domanda: «Avete qualcosa da mangiare?». Ho qualcosa – di buono – che mi nutre?10. Mi nutrono delle amicizie coltivate? Mi nutre una vita di preghiera, una vita interiore custodita, una fede approfondita? Mi piace leggere questa domanda anche in un altro modo: come arredo la mia solitudine? Come la rendo uno spazio mio, in cui stare bene, in cui stare comodo? Ho pensato ad arredare il mio spazio di solitudine? Ho qualcosa che mi nutre? Gli risposero: «No». E noi?
Ma vi propongo anche un’altra lettura di queste domande di Gesù, forse meno tradizionale: la lascio alla vostra valutazione.
La domanda alla Maddalena è forse quella di un’incomprensione perplessa di Gesù: «Ma si può sapere chi cerchi? Perché cerchi – perché hai bisogno di qualcuno di esterno cui aggrapparti?». Non è un caso che Gesù freni lo slancio di Maria che vorrebbe stringerlo, abbracciarlo, baciarlo: «Non mi toccare».
Forse Gesù vuole educare Maria a non porre in un altro il centro di se stessa. È anche, talvolta, una nostra immaturità, questa: cerchiamo qualcuno per appaltare ad un soggetto esterno il compito di prendersi cura della nostra parte più fragile – qualcuno che calmi il pianto disperato di quella parte bambina di noi che noi non riusciamo ad accudire da soli.
Ai discepoli, invece, Gesù dice una parola che va nel senso diametralmente opposto. Ai discepoli Gesù chiede di entrare in relazione. Non dice
«Non mi toccate»; chiede di mangiare insieme, che significa instaurare una intimità profondissima. Mangiano lo stesso pesce alla brace, se lo passano tra di loro, condividono la portata: qui c’è molto toccare. Per vincere forse un’altra immaturità: se quella della Maddalena è l’immaturità della dipendenza relazionale, nei discepoli è quella dell’autosufficienza. Sono andati a pescare: si sono lanciati su un’attività produttiva – ma inutilmente, e con grande senso di frustrazione. Chiusi in loro stessi, non pescano nulla. Per questo Gesù chiede loro un’apertura alla relazione: «Mangiamo insieme».
La tua Parola, Signore, sia lampada ai miei passi anche nelle mie solitudini; sia luce al mio cammino anche tra le mie mancanze [Sal 118,105]. Anche noi, Signore, siamo a volte tentati di chinarci sul sepolcro, di stare curvi sul nostro vuoto, mentre «non è qui, è risorto» [Mt 28,5].
Vieni a risollevarci, e a spingerci fuori. Tre anni fa son stato la prima volta a Gerusalemme, e da allora è divenuta una dipendenza: ci son tornato ogni anno – la terza volta a fine giugno scorso – e già sto pensando quando tornarci ancora. L’ultima volta – con pochissimi pellegrini, a motivo della guerra – son riuscito a fermarmi in maniera più prolungata nel Santo Sepolcro, proprio nell’abitacolo della tomba vuota. Ero lì in ginocchio, in quello spazio angusto, davanti a quella lastra di pietra impregnata di Nardo e Mirra di secoli. E pensavo: «Bene, tu hai fatto tutta questa fatica – hai speso tutti questi soldi – hai anche rischiato, con una guerra in corso – per che cosa? Per una tomba vuota. Non è qui, è risorto, esci». E queste parole mi hanno – prima interiormente, poi fisicamente – portato fuori dalla tomba, nello spazio che la tradizione identifica come il luogo in cui c’è stato l’incontro tra la Maddalena e il Signore Risorto. Se restiamo chiusi a piangere nel nostro sepolcro, ci perdiamo la Vita.
Quando questa solitudine morde, Signore, donaci la grazia di realizzare che Tu stai lì, come nel giardino della resurrezione, come sulla spiaggia del lago. Certo, serve una nostra disposizione del cuore, un nostro certo sforzo anche ascetico, ma il dono di vederti – Presenza che abita la nostra solitudine – è tutta grazia Tua: se non sei Tu a farlo, noi non vediamo, noi non capiamo.
Dacci allora la grazia di vederti, così bello – il petto tutto d’avorio [Ct 5,14], le gambe colonne di alabastro [Ct 5,15], la tempia come spicchio di melagrana [Ct 4,3], il capo d’oro puro, i riccioli come grappoli di palma, neri come il corvo [Ct 5,11], le tue labbra come nastro di porpora, la tua bocca piena di fascino, il tuo collo come torre di Davide [Ct 4,3].
Dacci la grazia di riconoscerti, così buono – ci sussurri all’orecchio «Coraggio, figlio. Coraggio figlia» [Mt 9,2;22], fissi lo sguardo su di noi e ci ami [Mc 10,21], hai compassione della nostra stanchezza [Mt 9,36], ti offri come ristoro nella nostra oppressione [Mt 11,28], lasci che poggiamo la testa sul tuo Cuore e ci addormentiamo nel tuo abbraccio [Gv 13,25].
Dacci la grazia di realizzare la Tua Presenza. Non è sentimentalismo, non è devozionismo: è la Realtà inaugurata dalla Tua resurrezione. Nel cuore della nostra solitudine, aiutaci a vederti che ci chiedi di mangiare, in intimità, con Te. Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane [Gv 21,9], e mi fa sorridere che Sant’Ignazio, nel libretto sugli Esercizi Spirituali, aggiunga, come guida alla contemplazione: «Diede loro a mangiare parte di un pesce arrostito e un favo di miele»11.
Tu, Signore, non ti accontenti di darci lo stretto necessario: ci aggiungi un favo di miele – aggiungi un tocco di dolcezza, quasi per viziarci. Nella nostra personale contemplazione potremmo fare qui un’applicazione dei sensi alla ignaziana maniera: sentire il gusto di quel pane bruciacchiato, abbrustolito; il sapore del pesce fresco arrostito, forse ancora troppo caldo; e poi la dolcezza del miele. Mi sovvengono alcune parole del Papa, dalla sua ultima enciclica sul Sacro Cuore: «Il Signore sa quella bella scienza delle carezze. La tenerezza di Dio: non ci ama a parole, si avvicina e nel suo starci vicino ci dà il suo amore con tutta la tenerezza possibile»12.
Con la scienza delle tue carezze, Signore, facci le domande giuste: chi cerchi? perché cerchi tra i morti? hai qualcosa da mangiare? cosa ti nutre? E guariscici da ciò che forse ci rende ancora immaturi per una relazione vera – guariscici dalle nostre dipendenze affettive, che ci fanno andare in giro, malati, a cercare un chi da cui mendicare un accudimento; guariscici dalle autosufficienze in cui ci siamo forse chiusi, che ci convincono che non abbiamo bisogno di nessuno, che sappiamo come si fa – «faccio io – vado a pescare» – e non è vero: lo sappiamo così bene, come si fa, che alla fine le nostre reti son sempre vuote…
E questa Tua dolcezza, Signore, queste carezze, cancelleranno per sempre le nostre solitudini? Calmeranno le nostre mancanze? Ci salveranno dalla piena della nostra indigenza? No; forse un attimo, un istante di grazia, una goccia di miele, ma non più di un attimo. La nostra umanità, con la sua fatica – e dunque anche la fatica della solitudine – è assunta da te, Signore, il che significa che non la distruggi. Se tu la distruggessi, non potresti assumerla.
Liberaci, Signore, dalla tentazione – davvero pericolosa – di credere che arrivare a realizzare che la nostra solitudine è abitata dalla Tua compagnia significhi liberarci per sempre dalla sua fatica, dalle sue ombre, dal suo sudore.
Aiutaci, Signore, a farci bastare l’unica parola che Tu pronunci e riempie tutto, e che ci assicura del Tuo Amore. Aiutaci ad abitare la nostra solitudine e la sua fatica – solo questo Ti chiediamo – con la sicurezza che Tu ci ami, anche se le cose sembrano restare uguali.
In Conversazioni notturne a Gerusalemme c’è quella che è secondo me è la vetta spirituale del Cardinal Martini. Chi lo intervista gli chiede «Quale domanda rivolgerebbe a Gesù?». E lui: «Gli domanderei se mi ama, nonostante io sia così debole e abbia commesso tanti errori; io so che mi ama, eppure mi piacerebbe sentirlo ancora una volta da lui».
Ecco, Signore, noi sappiamo che ci ami, ma, quando la solitudine morde, Tu torna a dircelo ancora una volta. Amen.
*Luigi Testa è autore di testi a carattere giuridico e scrive su alcuni quotidiani nazionali. “Via crucis di un ragazzo gay” (Castelvecchi, 2024) è il suo primo libro di natura spirituale, altre sue riflessioni sono pubblicate anche su Gionata.org
—
1 C. Kavafis, Per quanto sta in te: «E se non puoi la vita che desideri / cerca almeno questo / per quanto sta in te: non sciuparla / nel troppo commercio con la gente / con troppe parole in un viavai frenetico. / Non sciuparla portandola in giro / in balía del quotidiano / gioco balordo degli incontri e degli inviti, / fino a farne una stucchevole estranea».
2 «…questo popoloso deserto che appellano Parigi», canta Violetta in Traviata.
3 Os 2, 16: «Perciò, ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore».
4 D. M. Turoldo, Il diavolo sul pinnacolo.
5 «I nostri piedi stanno fissi alle tue porte, Gerusalemme» [Sal 120,2].
6 Mario Luzi, Sotto specie umana.
7 M. Recalcati, Mantieni il bacio, che prosegue: «Bisogna prima seppellire psichicamente chi non c’è più per poter essere disponibili in un nuovo incontro».
8 D. Barsotti, Le apparizioni del risorto.
9 D. M. Turoldo, O sensi miei…
10 La chiave di lettura è offerta da C. M. Martini, Testimoni del Risorto, Lectio su Gv 21,13, Esercizi spirituali serali in Duomo dal 15 al 19 ottobre 1984; l’audio originale è online, sul sito web della FONDAZIONE CARLO MARIA MARTINI.
11 Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, 306.4.
12 Francesco, Dilexit nos, 36.