Giannino Piana: “Le persone omosessuali. Riflessioni antropologico-etiche”
Relazione di Giannino Piana tenuta all’incontro “In ascolto delle diversità: le persone omosessuali” (Verbania Pallanza – 16 febbraio 2002)
Non esiste l’omosessualità, ma esistono le persone omosessuali che vivono ogni giorno il loro orientamento e la propria fede in modo differente. Giannino Piana punta in questo scritto proprio a proporre una nuova lettura della sessualità partendo da alcune aperture presenti in documenti del Magistero della chiesa cattolica.
Non esiste l’omosessualità, ma esistono soggetti che vivono l’orientamento sessuale nella direzione omosessuale e lo vivono in modo diverso l’uno dall’altro. Si tratta per l’appunto di “persone omosessuali”. Anche partendo da alcune aperture presenti in documenti del Magistero sarà proposto il superamento di una lettura “naturalistica” (fissista, definita una volta per sempre) della sessualità.
Secondo la concezione tradizionale la natura dell’uomo è eterosessuale, che la vera relazione è quella eterosessuale e che ciò che va in altra direzione va considerato come innaturale, non naturale. Così l’omosessualità va condannata come intrinsecamente cattiva in quanto peccato contro natura. Alcuni recenti documenti del Magistero sembrano smantellare questa concezione.
Nel Documento del 1975 (Dichiarazione circa alcune questioni di etica sessuale della Sacra Congregazione per la dottrina della fede) si afferma per la prima volta l’esistenza di due tipologie di omosessualità, una contingente, transitoria e una strutturale, permanente, e quindi immodificabile in qualche misura. Il “contro natura” del passato sembra qui superato con l’affermazione dell’esistenza anche di una natura omosessuale che riguarda un certo numero di persone. Un po’ contradditoriamente però si ritorna poi alla distinzione tra tendenza, non colpevole perché non è frutto di una libera scelta, e atti, comportamenti colpevoli perché intrinsecamente cattivi.
Propongo ora un itinerario che vada oltre questa posizione tradizionale.
1. L’unità è più grande delle differenze
L’unità dell’umano sta prima della differenza sessuale, sta prima della differenza tra l’essere uomo e l’essere donna. È più grande ciò che unisce l’essere uomo e l’essere donna, di ciò che li divide. Sul terreno della genetica si è messo in evidenza più la continuità, che non la differenza tra l’essere uomo e l’essere donna. In fondo, ciò che li distingue è solo una Y all’interno del patrimonio genetico. Esiste certamente il dimorfismo sessuale, ma all’interno dell’unità dell’umano.
Sul piano delle scienze psicologiche e culturali si è affermata la convinzione che molte delle differenze di ruoli, di attitudini sono il prodotto di un processo culturale. Simone de Beauvoir, un po’ estremizzando, affermava che “uomini e donne non si nasce, uomini e donne si diventa”. Ad esempio, non è forse vero che la condizione di dipendenza della donna ha fatto sì che coltivasse certe attitudini, mentre l’uomo ne sviluppasse altre?
Sul piano della riflessione filosofico-antropologica sempre più l’essere uomo e l’essere donna sono concepiti come il frutto della combinazione della mascolinità e della femminilità che sono in ciascun essere umano. Sia l’uomo che la donna hanno sia una dimensione maschile che una dimensione femminile. La differenza sta nella diversa combinazione. Uomo e donna hanno due identità anche profondamente diverse, ma partire da un terreno comune. (Si pensi alla distinzione di Jung tra animus e anima).
La priorità dell’unità rispetto alla differenza è anche riscontrabile nel dato biblico. L’Adàm biblico, prima ancora di essere Adamo e Eva, è l’Adàm collettivo. (Qualcuno vede nei racconti della creazione il mito dell’androgino). Anche nel racconto biblico l’umano è un’unità che si realizza in una differenza.
Originaria è l’unità, la differenza (Adamo e Eva) è successiva. La stessa immagine divina non va ricercata anzitutto nella differenza sessuale, ma nell’umano unitariamente inteso: “Dio creò l’uomo a sua immagine. A immagine di Dio lo creò. Maschio e femmina li creò.” (Gn 1,27)
2. La relazione viene prima delle forme in cui si esprime
La relazione nell’umano è più importante delle forme in cui si esprime. Il primato va alla relazione. L’importanza fondamentale delle relazioni, a partire da quelle parentali, nello sviluppo dell’identità soggettiva è stata messa in rilievo dalle scienze psicologiche e sociali. Io mi personalizzo, mi individualizzo, socializzando. Mi comprendo in quello che sono solo nella misura in cui istituisco una serie di rapporti e mi confronto con l’alterità.
La stessa filosofia antropologica ha messo in luce la centralità della relazione. Tutta la cultura occidentale è stata influenzata dalla concezione classica che riteneva la relazione un accidens (vedi albero di Porfirio), e quindi concepiva la realtà umana in termini di soggetti individuali, totalmente definibili in se stessi. La relazione è qualcosa di accidentale, di ulteriore, non appartiene alla definizione del soggetto. L’interpretazione individualistica del soggetto rischia di influenzare l’attuale ritorno del soggetto.
Sia la fenomenologia, che l’esistenzialismo, il personalismo, la filosofia ebraica convergono nel dire che il soggetto umano è per definizione relazionale, che la persona è individualità e relazionalità al suo interno. La differenza tra l’essere uomo e l’essere donna non si identifica più con il solo dato biologico, e neppure con il solo dato culturale. La differenza oggi viene fondata sul terreno della relazione. L’umano viene sempre più visto, proprio nella sua differenza dell’essere uomo e dell’essere donna, come frutto di una relazionalità che gli è costitutiva.
Questa relazionalità è anzitutto eterosessuale, e la relazionalità eterosessuale ha un valore paradigmatico, ma non esclusivo. Ogni relazione è il luogo della realizzazione umana e, da un punto di vista religioso, è il luogo in cui si è chiamati a vivere l’immagine di Dio.
L’uomo si realizza in quanto si rapporta. In questo senso la relazione sta prima delle modalità in cui si esercita. Se la relazione è centrale, non è neppure indifferente la differenza sessuale. Ha un valore archetipale.
Come l’uomo impara dalla maternità della donna la propria paternità (Mulieris Dignitatem) , allo stesso modo, all’interno della pari dignità di ogni rapporto, si può parlare di un valore archetipale della relazione eterosessuale rispetto ad ogni altra relazione.
3. Orientamenti per un nuovo modello etico
L’affermazione del Documento del 1975, prima citato, dell’esistenza di una omosessualità strutturale sembra criticare, in base al principio di non contraddizione, la tradizionale concezione della chiesa secondo cui l’omosessualità è contro natura.
Se è strutturale vuol dire che appartiene alla natura di alcune persone. Purtroppo nel documento permane la distinzione tra tendenza non colpevole e atti colpevoli, intrinsecamente cattivi (perché evidentemente contro natura), anche se si invita a giudicarli con cautela. Poiché gli atti sono intrinsecamente cattivi, l’unica via proposta è quella della castità. Ma se la castità è un carisma, un dono, è possibile proporlo o imporlo a chi non ha questo carisma?
È necessario imboccare una strada nuova, diversa, alternativa, fuoriuscendo da un modello naturalistico, per assumere il modello relazionale, dove il criterio di valutazione tanto del comportamento eterosessuale, quanto di quello omosessuale, sta nella capacità di dare senso alla relazione, di viverla come una relazione autenticamente umana in grado di integrare tutte le dimensione (spirituali, psicologiche e fisiche).
Sono da giudicarsi sul piano etico in modo negativo tutte quelle relazioni (omo o etero) che sono banali, vuote di significato e di autenticità. In questo quadro che privilegia la relazione occorre tenere conto della paradigmaticità della relazione eterosessuale, sia perché esistono profonde diversità anche di identità sessuale, sia perché c’è la possibilità di una fecondità biologica.
Ma il suo essere paradigmatico e archetipale deve lasciare spazio ad altre forme di relazione, che hanno altre caratteristiche, che sono ugualmente dignitose. C’è la possibilità di autentiche relazioni sia etero che omo. È necessario poi in qualunque relazione essere attenti ai limiti espressivi. Tutte le relazioni sono soggette a processi limitativi.
Anzitutto le relazioni si costruiscono attraverso processi graduali non sempre lineari, di maggiore e di minore intensità. La relazione va giudicata complessivamente. Secondariamente anche la relazione più riuscita ha sempre in sé un limite. La vicinanza si deve sempre coniugare con la distanza. Se c’è identificazione, significa che uno dei due scompare. Si deve conservare la ricchezza che viene dalla diversità. La distanza non è separatezza, ma coscienza della propria e altrui diversità.
Infine bisogna superare la posizione tradizionale del mondo cattolico, che ingenera una sorta di schizofrenia della coscienza, perché da una parte c’è la condanna oggettiva come peccato di certi atti e dall’altra c’è l’invito a trattarli con cautela, attenti al mistero delle persone. Occorre uscire da questo fariseismo e avere il coraggio di dire che o sono sempre cattivi (perché intrinsecamente disordinati) o non lo sono.
Bisogna formulare delle norme che siano in grado di mediare tra il riferimento ad alcuni valori e la possibilità di renderli trasparenti nel concreto delle situazioni esistenziali umane.
Questo significa superare la distinzione-separazione tra morale soggettiva e morale oggettiva. Non c’è un peccato o un’azione buona oggettivi. Il peccato dice riferimento ad un dato oggettivo ma in quanto rapportato a dei dati soggettivi, ad una intenzionalità. Lo stesso vale per l’azione buona. L’etica non è il luogo della definizione oggettiva di parametri di comportamento, ma il luogo in cui questi parametri vengono desunti da un continuo confronto tra valori ancora astratti e la possibilità di renderli storicamente concreti nella situazione.
Dal dibattito, una domanda e una risposta su “il matrimonio degli omosessuali”
Piana: Il tema del matrimonio degli omosessuali merita una riflessione, che in parte è già stata fatta. Anch’io credo che non si debba chiamare matrimonio. Credo che ci sia un uso dei termini legato alla storia del termine stesso (matrimonio viene da matris munus, l’istituto attraverso il quale si diventa padri e madri, si esercita la fecondità procreativa in senso stesso) e c’è tutta una tradizione antropologico-culturale che ha visto sempre il matrimonio in quella funzione e soprattutto strutturato sulla base del rapporto uomo-donna.
Credo che però si debba trovare qualche termine per definire la condizione omosessuale permanente, che è la più seria. L’esperienza di chi vive un rapporto continuato con una persona, dato che fa una scelta di relazione in profondità, fa una scelta che lo coinvolge, va in qualche modo riconosciuta. Naturalmente innanzitutto va riconosciuta dal punto di vista patrimoniale, di successione e così via. Questo è il compito dell’autorità civile.
Ma io credo che anche sul versante ecclesiale si debba dare un certo riconoscimento. A me pare importante, laddove dei soggetti vivono la condizione omosessuale, riconoscere che va privilegiato un rapporto continuativo. L’impegno ad una continuità dà al rapporto tutta una serie di significati che non ci sono in rapporti momentanei, passeggeri e votati esclusivamente alla pura gratificazione sessuale di un momento.