Pantaloni rosa 4/bis. Quando non si vuole vedere la violenza del bullismo omofobico
Riflessioni di Massimo Battaglio
Questione “Ragazzo dai Pantaloni Rosa“. Il quotidiano Avvenire, dopo un bellissimo servizio curato da Luciano Moia attraverso ben tre articoli dedicati al film di Margherita Ferri, sente il bisogno di riequilibrarsi un po’. Fosse mai che qualcuno pensi che il giornale dei vescovi si sia infettato di “ideologia del gender” e che i suoi redattori siano stati “omosessualizzati” dallo strapotere della “lobby gay”. Allora chiamano in causa una certa dottoressa Luisa Fressoia che si presenta come pedagogista, per tentare di ribaltare tutto quanto affermato nei giorni precedenti.
L’articolo, preceduto dal catenaccio “Pantaloni rosa 4”, promette male fin dalle prime parole del titolo: “Il dramma non è l’omofobia”. Roba che vien da dire: ma lo credi davvero o parli per spirito di contraddizione? L’occhiello rincara la dose: “Mettere al centro soltanto il tema dell’omosessualità ha finito per chiudere il protagonista della storia in una gabbia identitaria limitante. La pedagogista Luisa Fressoia: allarghiamo lo sguardo”.
E, per allargare lo sguardo, la dottoressa suggerisce di considerare la storia di Andrea Spezzacatena nel suo complesso, leggendola come una faticosa avventura alla scoperta di tutto se stesso, non solo della propria identità sessuale e affettiva. Ne parla come di un ragazzo “in quell’età complicata dello sviluppo che dà inizio alla adolescenza”. Praticamente, sostiene che tutti i quindicenni vivono pesanti disagi che li possono portare a sfiorare il rischio del suicidio. Ho capito bene?
Arriva, la pedagogista, a sostenere che anche l’altro protagonista del film, il bel Christian organizzatore della campagna di bullismo contro Andrea, sia un individuo fragile, da capire, quasi da giustificare perché aveva “un rapporto non buono con la propria mascolinità, avvertita come bisogno di prevalere sull’altro”.
Cara dottoressa – le direi se accettasse un confronto – lo sappiamo, che i bulli sono persone non risolte e che scelgono la violenza per colmare qualche vuoto. Ma per favore, non mettiamo sullo stesso piano le vittime e i carnefici. Cerchiamo di non girare la frittata. Il “ragazzo dai pantaloni rosa” è vittima di una forma di bullismo particolare: quello omofobo. E sa che differenza c’è tra un atto di bullismo dovuto a divergenze calcistiche o politiche, e lo stesso atto che prende di mira l’orientamento sessuale della vittima?
Eccola: qualunque ragazzo può cambiare squadra o opinione ma non può cambiare identità sessuale. Le pare poco? E infatti, Andrea arriva al suicidio, non alla vittoria. Un po’ di rispetto suggerirebbe almeno di sospendere il giudizio e di non negare l’evidenza mettendo tutto in un solo calderone.
Le argomentazioni che la Fressoia usa per avvalorare la tesi per cui il problema di Andrea non fosse l’omosessualità, sono le solite: era “bravo a scuola, sensibile e attento anche al fratellino più piccolo”. Non rispondeva cioè allo stereotipo del ragazzino che, scoprendosi gay, cade in depressione. Di più – e qui arriva il carico da novanta – accenna al fatto che, a un certo punto, “i litigi nella coppia – dei genitori – diventano sempre più incalzanti”. Ed emerge “la fatica e la sofferenza dei due figli nel fargli fronte”.
Ma siamo sicuri? Nella famiglia del Mulino Bianco, con papà e mamma concordi nei loro ruoli ben definiti, tutto sarebbe finito bene? Praticamente, la fine di Andrea si deve alla crisi della famiglia tradizionale?
Cara signora – proseguirei – invece di allargare tanto lo sguardo – e finire coll’andare per le trippe – proviamo ad approfondirlo. Per esempio, proviamo a esaminare bene i comportamenti di quel ragazzo “sensibile” e bravo a scuola. Ci aiuterà a scoprire molte cose.
Spesso, buttarsi nella scuola e in mille altri impegni – meglio se nobili – aiuta a distrarsi, o almeno a non concentrarsi troppo sui propri demoni interiori. Lo studio porta ad affrontare pomeriggi solitari e quindi a dare una giustificazione alla solitudine; la ginnastica, la musica, l’elezione di un’amica del cuore, costruiscono intorno al giovane un ambiente in cui si sente protetto. Se poi i risultati sono buoni, egli avrà la sensazione di aver imboccato la strada giusta. E a lungo svicolerà dal bisogno di dare un nome alle cose.
Parlo per esperienza: anch’io ero così. Inseguivo la media dell’otto, non sgarravo da una sola riunione in parrocchia, e trovavo il tempo per la politica e per la musica. Poi, magari, la sera, qualche volta, mi domandavo perchè non avessi ancora la ragazza. E talvolta, come Andrea, arrivavo a fingere qualche innamoramento per fugare ogni dubbio. Ma poi mi bastava pensare ai miei otto, ai miei “animati”, ai piccoli risultati ottenuti in consiglio d’istituto, e tutto andava a posto.
Ho confrontato la mia storia con quelle di tante altre persone lgbt+ che la vita mi ha fatto incontrare. E ho notato che, molto spesso, sono quasi identiche alla mia. Quando ci si sente diversi, è quasi naturale regarire cercando di trasformare la diversità in superiorità. E’ comunissimo pensare: “se sono diverso, sono migliore degli altri” o “sono diverso e quindi devo essere il primo”.
Naturalmente, questo non è l’unico modo per fare i conti col sentirsi diversi. C’è chi cerca di primeggiare nel meglio e chi nel peggio. C’è chi reagisce con la cultura e la bellezza, chi con altre forme di stordimento, e chi con la violenza. Anche il bullismo è un modo per distinguersi. E a volte, è sintomo di non accettazione. A volte è proprio la manifestazione di un’omofobia interiorizzata. La dico tutta: siamo sicuri che Christian fosse eterosessuale? Magari lo era, tant’è vero che scopriamo che è andato a letto con Sara – anche se vuol dir poco. Ma non ci sfiora il dubbio che “temesse” di essere gay?
E’ singolare che la dottoressa Fressoia, pedagogista, non si sia mai accorta di questi fenomeni. Ed è inaccettabile che metta in bocca alla madre di Andrea concetti come: “al centro del conflitto non c’era l’omosessualità”. E’ vero: la signora Teresa Manes, madre appunto di Andrea e autrice del libro “Il Ragazzo dai Pantaloni Rosa” da cui è tratto il film, ha sempre cercato di non concentrarsi troppo sul solo dato sessuale. Ma è comprensibile: lei non conosceva l’orientamento del figlio; non ne avevano ancora parlato.
Ma noi non siamo Teresa Manes. A noi è richiesta lucidità. E non possiamo prendere per buone affermazioni come quelle con cui la dottoressa Fressoia conclude il suo articolo: “Sono fuorvianti, almeno in relazione al film in questione, i continui riferimenti all’omo e transessualità, identificate con le istanze Lgbt, con il relativo rischio di strumentalizzazione ideologica”.
Cara Luisa – concluderei nel mio immaginario confronto – dimmi un po’: dove hai letto che “Il Ragazzo dai Pantaloni Rosa” sia stato strumentalizzato ideologicamente dal popolo lgbt+ fino a diventare una bandiera per le loro istanze? Ma poi: di che ideologia parli? Quella del gender? Quella dell’ uteroinaffitto?
Qui, se c’è qualcuno malato di ideologia, qualcuno che strumentalizza, non siamo certo noi ma piuttosto coloro che si arrampicano su vetri appena lavati per dimostrare, con parole raffinate e sapute ma veramente superficiali, che l’omofobia è irrilevante, cioè non esiste.
E invece, negli ultimi dodici mesi, le vittime di omofobia che noi abbiamo registrato (e che rappresentano una piccola parte della realtà) sono ben 120. Di loro, 7 hanno fatto come Andrea: si sono tolte la vita.