Tra altare e arcobaleno. Scoprirsi serenamente gay e cattolico
Testimonianza di Justin Estoque pubblicata sul sito The G&LR (Stati Uniti) Il 21 gennaio 2021, liberamente tradotto innocenzo Pontillo
Sono cresciuto immerso nelle tradizioni cattoliche filippine, con due genitori profondamente devoti. Negli anni ‘50, quando avevo sette anni, mio padre ci portava diligentemente alla messa ogni domenica mattina nella Chiesa di San Giuseppe. Essendo un figlio molto devoto, non passò molto tempo prima che diventassi chierichetto.
Prima dell’inizio della messa, io e il mio compagno con cui avrei fatto servizio all’alate entravamo nella sagrestia per indossare le casule cremisi e le cotte bianche, erano vestizioni liturgiche solenni e meravigliose. Una volta iniziata la celebrazione, ci muovevamo con solennità, seguendo il sacerdote verso l’altare, inginocchiandoci insieme a lui mentre i parrocchiani intonavano l’inno “Hail Holy Queen Enthroned Above” (Salve Regina).
Partecipavamo al rito portando il pane e il vino all’altare e scuotendo un grappolo di campanelli nel momento in cui il sacerdote trasformava miracolosamente il pane e il vino nel corpo e sangue di Cristo.
Essere ammesso in quegli spazi sacri riservati solo agli uomini, e avere il privilegio di salire sull’altare, rafforzò la mia autostima. Non era un onore concesso a tutti, nemmeno agli adulti. Questo ruolo divenne motivo di grande orgoglio per me e anche per i miei genitori.
Anni dopo, da uomo adulto e dichiaratamente gay, ripensai a quei momenti con occhi diversi. Essere chierichetto significava anche indossare ogni settimana vestiti che ondeggiavano come un abito e creare amicizie segrete e intense con altri chierichetti, che a volte sfioravano una connessione quasi erotica. Ma a quell’epoca, la mia mente non faceva altro che seguire una via di “grande rettitudine”.
Anche altrove nella Chiesa, la mia identità religiosa e quella sessuale avrebbero potuto entrare in conflitto, ma ciò non accadde. Ero circondato da immagini e statue che ritraevano santi mezzi nudi come il Cristo crocifisso, ma nessuno sembrava accennare all’erotismo che tali rappresentazioni potevano evocare.
Molti anni dopo, lessi il libro “Sanctity And Male Desire: A Gay Reading Of Saints” (Santità e Desiderio Maschile) di Donald L. Boisvert, dove l’autore parlava apertamente delle sue fantasie giovanili da seminarista, evocando l’erotismo implicito di figure come San Michele, con le sue possenti ali maschili, o trasmesso dalle raffigurazioni che i martiri seminudi suggerivano con i loro velati accenni di sadomasochismo. Questi stessi elementi in Boisvert, rafforzarono sia la sua consapevolezza sessuale, sia la sua fede in Dio.
Crescendo, nessun prete o genitore mi parlò mai di attrazione tra persone dello stesso sesso. Forse vi aspettereste che questa mi fosse inculcata come un male sin dalla più tenera età, ma nella mia educazione religiosa questo tema era semplicemente assente. Per me, la religione era un insieme di regole da seguire, di preghiere da recitare e credi a cui aderire ciecamente. Finché confessavi i tuoi peccati, andavi a messa e non mettevi incinta una ragazza, il paradiso era assicurato.
Con questa visione semplificata della fede, la mia identità gay e quella religiosa scorrevano una accanto all’altra senza mai scontrarsi, come due pesci che non si incontravano mai in un grande mare.
Forse ciò è dipeso dal contesto in cui vivevamo: una famiglia filippina cattolica degli anni ‘60 senza immagini da demonizzare.
Non c’erano riviste con uomini mezzi nudi che i miei genitori potessero indicare come simbolo del male. Vivevamo in un sobborgo di Miami (Stati Uniti), lontani dalle “iniquità sessuali” della città. I giornali che avevamo in casa erano innocui settimanali familiari come: Newsweek, Readers Digest, Liguorian.
I miei genitori erano goffamente ignari della cultura americana del loro tempo, non sapevano nulla di LSD, dei Doors o del film “Il Laureato” con Dustin Hoffman. Ricordo quando mia madre, trovando una bustina di foglie verdi, nelle tasche dei pantaloni di mio fratello, chiese: “Cosa ci fa Arturo con dell’origano in tasca?”. (Era Marijuana)
In longua Tagalog, frasi come “lui ama lei” e “lei ama lei” si esprimono nello stesso modo. Questa ambiguità linguistica, unita alla semplicità dei miei genitori, spiega perché non abbiamo mai parlato di attrazione tra persone dello stesso sesso. Non si discuteva mai di zii “queer”, zie zitelle o personalità colorite (e LGBT+) come Paul Lynde o Liberace. … Parlare di amore o sesso gay era raro quanto discutere di astronomia tolemaica.
Eppure, questo “vuoto” ha avuto un lato positivo. Non ho mai dovuto affrontare conflitti interiori tra le mie pulsioni gay e la moralità religiosa che mi era stata trasmessa. A differenza di molti uomini gay, non ho vissuto il dolore di genitori o di pastori che mi faceseeeo sentire in colpa per ciò che ero. L’attrazione per lo stesso sesso non era immorale per me, semplicemente era invisibile. Questo significa che non ho mai vissuto delle dolorose storie di coming out. La mia vita è andata oltre quel rito di passaggio.
Molti anni dopo, il mio lato gay, filippino-americano e religioso hanno trovato un rapporto amichevole, anche se non sempre pacifico, con Dio.
All’inizio del mio percorso di fede, immaginavo Dio come la versione migliore di me stesso. Ora invece Dio è un mistero che mi ispira meraviglia e conforto. Ora è davvero un amico di cammino.
*Justin Estoque, co-Presidente del Consiglio Consultivo Nazionale dello Stonewall National Museum and Archives e membro del consiglio di VOX Femina LA, inoltre canta con il Gay Men’s Chorus di Los Angeles.
Testo originale: Coming Out Catholic, Without the Drama