Come tutto ebbe inizio. Io, le veglie e il Kairos di Firenze
Intervista a Matteo del Gruppo Kairòs di Firenze, 28 aprile 2013
Fin dalla prima comunione ho sempre frequentato la vita della mia parrocchia, nel centro di Firenze. Per molti anni la parrocchia, l’oratorio, i campi estivi sono stati il mio “piccolo” mondo. Per 10 anni, poi, sono stato catechista, animatore parrocchiale, accompagnatore e uno dei riferimenti del gruppo del dopo-cresima.
All’età di 23 anni sono venuto in contatto con il gruppo di cristiani omosessuali Kairòs, che si riuniva allora presso la Comunità delle Piagge di don Alessandro Santoro.
Per vari anni ho frequentato Kairòs in incognito, senza dire niente alla mia famiglia e al mio parroco. Solo all’età di 26 anni mi sono dichiarato in famiglia, e poco a poco mi sono distaccato dalla vita parrocchiale.
Era il periodo in cui la Chiesa, per ragioni vili e politiche, assunse un atteggiamento insostenibile nei confronti delle persone omosessuali (2006-2007). Adesso continuo a frequentare il gruppo Kairòs attivamente, dopo 10 anni dal mio primo ingresso al gruppo. E’ lì che vivo la mia vita di credente, è il gruppo la “mia” Chiesa. In chiesa ci entro solo per la messa domenicale. Credo nei sacramenti, nel Vangelo e in Cristo. Ma ho maturato un senso di disgusto per tutto ciò che riguarda la dimensione ecclesiale: la sento come una realtà oppressiva, falsificante e ipocrita.
Alle condanne di papi, vescovi e preti non presto più ascolto, non credo che meritino neppure la considerazione di essere contestati. Vanno soltanto ignorati, perché non parlano in nome di Cristo. Anche il magistero non lo ritengo vincolante, perché le sue asserzioni non sono fondate. Naturalmente ci sono alcune eccezioni: i sacerdoti che collaborano con il gruppo Kairòs sono persone eccellenti, validissime e coraggiose. Ma, obiettivamente, rappresentano una minoranza del clero e, non a caso, sono tenuti ai margini…
Ci racconti come hai scoperto le veglie per le vittime dell’omofobia
Guarda, le veglie per le vittime dell’omofobia furono una “invenzione” proprio del mio gruppo fiorentino. Eravamo nel 2007, un anno particolare poiché eravamo nel pieno del dibattito sui Pacs e sui diritti delle persone omosessuali. Eravamo quotidianamente “bombardati” da parte delle nostre gerarchie ecclesiastiche – Ruini, Bagnasco ecc. – di commenti e giudizi a volte offensivi nei nostri confronti, e certamente dolorosi.
A Torino si suicidò un giovane di 17 anni. Ricordo che si chiamava come me, Matteo. I compagni lo prendevano in giro chiamandolo “frocio”. L’episodio mi colpì moltissimo. Così, durante la nostra consueta veglia penitenziale in preparazione della Pasqua, nella chiesetta degli Innocenti, in piazza SS. Annunziata, io proposi di celebrare, nel mese di maggio, una veglia di preghiera per Matteo e per tutte le vittime dell’omofobia.
La proposta fu accolta con entusiasmo dal gruppo. Così nel maggio 2007 a Firenze celebrammo, nella chiesa valdese, la prima veglia per le vittime dell’omofobia, che dall’anno successivo si diffuse in tutte le principali città italiane dove esistevano gruppi di cristiani-omosessuali.
Fu un evento straordinario, il primo evento pubblico del gruppo. Lanciammo comunicati stampa, volantini, lettere a tutti i parroci della diocesi ed a tutti i vescovi della Toscana. L’evento fu molto pubblicizzato da “Repubblica”, dal “Corriere fiorentino”, fummo perfino intervistati dalla stampa nazionale. Parteciparono alcuni sacerdoti cattolici e i capi di tutte le confessioni riformate di Firenze.
La Veglia si tenne in un’atmosfera davvero particolare, all’inizio c’era una tensione palpabile. Per me fu un’emozione fortissima, le voci dei lettori in chiesa tremavano. Molti piansero.
Fu un momento di liberazione, vorrei dire quasi “catartico”, in cui il dolore si trasformò in preghiera e denuncia. Tutti noi abbiamo sperimentato episodi di omofobia nelle nostre vite, anche se raramente di natura violenta. La nostra preghiera era come un grido di libertà e di dignità che saliva dal cuore, rompeva il silenzio e diceva “ora basta!”. E alla nostra chiesa diceva: “Perché non vi rendete conto che le vostre parole ci feriscono?”.
Secondo te quale messaggio importante le veglie di preghiera per le vittime dell’omofobia lanciano a tutti i credenti delle nostre chiese…
Il messaggio è semplice e forte: l’omofobia è una forma di razzismo, come l’antisemitismo o la xenofobia. Produce dolore, ingiustizia e morte. E’ quindi assolutamente contraria al Vangelo. Chiunque si professi cristiano deve avere questa consapevolezza. L’indifferenza, l’omertà o la compiacenza nei confronti di atti o parole omofobiche sono altrettanto gravi, perché giustificano una forma di razzismo che è incompatibile col rispetto che è dovuto a ogni uomo in quanto Figlio di Dio.
Secondo te le veglie hanno favorito un cambiamento nelle persone che hanno condiviso con te questo momento…
Sicuramente si. Ricordo che alla prima veglia del 2007 molte persone entrarono in chiesa quasi di soppiatto, a metà della liturgia, sedendosi in fondo, quasi fossero capitate lì per caso. In seguito ci siamo liberati da queste paure, abbiamo capito che la preghiera pubblica ci rafforza, e che non c’è motivo di vergognarsi quando le intenzioni sono giuste, quando lo spirito è puro.
Tutti noi siamo diventati più sensibili e coraggiosi sul tema dell’omofobia. Io tre anni fa addirittura ho tenuto un incontro con circa 200 studenti delle scuole superiori sul tema dell’omofobia. Un passo che sicuramente non avrei mai fatto se alle spalle non avessi avuto l’esperienza delle Veglie.
Con quale speranza parteciperai alla veglie di quest’anno.
La speranza è quella di ogni anno. Raggiungere e coinvolgere tante persone. Soprattutto eterosessuali, perché il razzismo è un problema che non è circoscritto alla minoranza che ne è vittima. E’ un problema di tutta la società, di tutta la Chiesa. Le persone che soffrono per la loro omosessualità spesso si sentono sole. La preghiera ci unisce a loro, anche se non li conosciamo, anche se non sappiamo dove si trovano. Dio si farà tramite di giustizia, di speranza e libertà per i nostri fratelli che soffrono ciò che anche noi abbiamo sofferto.
Quest’anno però ho anche una speranza più particolare. Il nuovo papa Francesco ha incarnato un desiderio di rinnovamento della Chiesa e di ritorno allo spirito del Vangelo. Noi non osiamo sperare in una modifica del magistero sull’omosessualità. Ma una maggiore capacità d’ascolto, un maggiore sforzo per comprendere le cause del dolore dell’uomo, per sradicare le radici della violenza, per costruire la pace.
E, soprattutto, per riportare al centro della vita della Chiesa il messaggio evangelico. Questo sicuramente sarebbe già un gigantesco aiuto per chi lotta contro la discriminazione e per chi invoca il rispetto della vita e della dignità della persona umana.