Attraverso la porta della vita. Il mio viaggio ebraico tra i generi
Testo di Joy Ladin* estratto dal suo libro Through the Door of Life: A Jewish Journey between Genders (Attraverso la porta della vita: un viaggio ebraico tra i generi), University of Wisconsin Press (Stati Uniti), 2012, pp.7-9. Liberamente tradotto dai volontari del Progetto Gionata
“Se non sono per me stesso, chi sarò per me? Se sono solo per me stesso, cosa sono? E se non ora, quando?” (Rabbi Hillel, Pirkei Avot 1:14)
Settembre 2008. Era una splendida giornata di settembre a New York, soleggiata, calda ma non afosa, con un cielo così azzurro da prendersi gioco del realismo spietato dei grattacieli che si innalzavano verso di esso.
Mentre camminavo a sud da Grand Central per iniziare il semestre autunnale del 2008 allo Stern College for Women della Yeshiva University, sorridevo a ogni volto che incontravo, desiderosa di condividere il fatto che i miracoli possono accadere. Io ero un miracolo, il mio cammino era un miracolo, e persino il più scettico degli abitanti di questa città scettica avrebbe dovuto ammettere che il lavoro verso cui mi stavo dirigendo era un miracolo certificato.
Non avevo sorriso molto da quando avevo iniziato la mia transizione, passando da vivere come un uomo a vivere come una donna, un processo che aveva scosso e frantumato quasi ogni aspetto della mia vita. Anche se avevo sempre sentito che il mio genere fosse sbagliato, ero cresciuta come un ragazzo più o meno normale nello stato di New York, mi ero diplomata presto e avevo scelto il Sarah Lawrence College in cerca di persone ossessionate dalla poesia e dalla conversazione intellettuale quanto lo ero io.
Durante l’orientamento per le matricole, incontrai la donna con cui avrei trascorso il quarto di secolo successivo. Dopo la laurea, e qualche settimana trascorsa in economia in Europa, ci trasferimmo a San Francisco, ci sposammo e condividemmo un decennio di appartamenti scadenti e angoscia da giovani scrittori, mentre lavoravo per l’Ordine degli Avvocati della California.
Alla fine tornai a studiare per cercare di costruirmi una carriera come poetessa. Il mio master in scrittura creativa portò a un dottorato in letteratura americana e alla vita nomade dell’accademica: insegnai a Princeton, all’Università di Tel Aviv (grazie a una borsa Fulbright), al Reed College e all’Università del Massachusetts ad Amherst, prima di ottenere finalmente un posto a tempo indeterminato allo Stern College, che mi permetteva di combinare il mio amore per la scrittura e la letteratura con il mio amore per l’ebraismo.
Mentre cercavo di scrivere e pubblicare abbastanza per completare i miei titoli di studio, ottenere un impiego stabile e conquistare la cattedra, mia moglie ed io avemmo tre figli: un maschio e due femmine. La nostra terza figlia nacque proprio prima che iniziassi a pendolare tra il Massachusetts e il mio nuovo lavoro a Stern, nell’agosto del 2003.
Il mio primo libro di poesie, Alternatives to History, uscì quell’autunno; il secondo, The Book of Anna, venne pubblicato tre anni dopo, nel 2006, e aggiunse abbastanza peso al mio curriculum da permettermi di candidarmi per la cattedra anticipata.
Ottenere la cattedra in anticipo era stato il mio obiettivo sin dall’inizio del dottorato: era l’unico modo in cui riuscivo a immaginare di mantenere una famiglia in crescita e di far fronte ai debiti universitari che assomigliavano a un mutuo. Ma quando Anna venne pubblicato, l’ansia per il debito crescente venne offuscata da una paura di tutt’altro tipo.
La transessualità che avevo cercato di nascondere sin dall’infanzia stava lentamente rendendo la mia vita impossibile. Non riuscivo a mangiare, non riuscivo a dormire, non riuscivo a pensare a nient’altro che al mio genere. Sapevo che era solo questione di tempo prima che non potessi più vivere come un uomo.
Se non avessi ottenuto la cattedra – e con essa la protezione di un impiego a vita – prima che la mia transessualità diventasse evidente, sarei rimasta senza lavoro e la mia famiglia senza casa.
Stern è il college femminile della Yeshiva University, la principale istituzione accademica dell’ebraismo ortodosso moderno, e l’ebraismo ortodosso, come la maggior parte delle religioni tradizionali, considera peccati le cose che noi trans facciamo per adattare i nostri corpi alle nostre anime.
Nel mio caso, questi peccati includevano indossare abiti femminili e assumere ormoni che avevano reso la mia fertilità irreversibilmente compromessa. Stavo anche violando usanze e concezioni di genere che, pur non essendo prescritte dalla legge ebraica, sono sostenute con convinzione religiosa da molti ebrei ortodossi – me che, ne ero certa, avrebbero reso impossibile per la Yeshiva University continuare a impiegarmi.
La cattedra arrivò appena in tempo, nel giugno 2007, dopo un semestre in cui avevo lottato per arrivare in fondo alle lezioni senza crollare in lacrime o perdere i sensi.
Anche se ottenere la cattedra era la coronazione di quindici anni di lotta per affermarmi nel mondo accademico, non mi rese felice. La mia crisi d’identità di genere aveva distrutto il mio matrimonio, spezzato la mia famiglia e fatto di me un’estranea indesiderata nella mia stessa casa. Nel giro di poche settimane, mi ritrovai a vivere nella prima di una serie di camere in affitto.
I miei figli erano affranti, arrabbiati e disorientati dal doppio colpo: la fine della loro famiglia felice e la trasformazione inspiegabile del padre che amavano.
Un paio di settimane dopo aver ottenuto la cattedra, scrissi al preside per informarlo della mia transizione. La risposta di Stern fu chiara: pur mantenendomi sul libro paga, l’università mi vietava di mettere piede nel campus.
Il mio “congedo di ricerca involontario”, come lo chiamarono, era la forma di discriminazione più cortese e ben finanziata che si potesse immaginare. Ma era comunque discriminazione.
Tagliata fuori dagli studenti che amavo, espulsa dalla vocazione che avevo lavorato così duramente per padroneggiare, mi sentivo ferita in un modo difficile da spiegare; non riuscivo a scrollarmi di dosso la sensazione che fosse colpa mia, che fossi troppo ripugnante per essere vista nel campus.
Come tante altre persone trans, stavo pagando un prezzo altissimo – casa, famiglia, amici, lavoro – per il sogno realizzato di essere finalmente me stessa.
Ma proprio quando avevo iniziato ad accettare il mio esilio da Stern come definitivo, accadde un miracolo.
Quando i miei avvocati chiesero che mi fosse permesso di tornare a insegnare nel semestre autunnale del 2008 – una richiesta che pensavano sarebbe stata respinta – l’università rispose di sì.
Passammo l’estate a negoziare le condizioni, incluso l’uso dei bagni (mi era permesso accedere solo a quelli unisex e a una sola postazione per disabili).
Alla fine, settembre arrivò. E con esso, il mio primo giorno felice dopo tanto tempo.
Dopo anni di nascondigli e finzioni, finalmente stavo per stare di fronte ai miei studenti e colleghi come la persona – la donna – che sapevo di essere.
E, cosa ancora più importante, dopo secoli di intolleranza, un’istituzione rappresentante l’ebraismo ortodosso stava per accogliere apertamente un’insegnante transgender.
* Joy Ladin è una poetessa e saggista statunitense, nota per essere stata la prima docente apertamente transgender in un’istituzione ebraica ortodossa. Ha pubblicato dodici libri, tra cui l’autobiografia “Through the Door of Life: A Jewish Journey Between Genders” (2012) e “The Soul of the Stranger: Reading God and Torah from a Transgender Perspective” (2018). Le sue opere esplorano temi legati all’identità di genere e alla spiritualità, offrendo una prospettiva unica che unisce esperienza personale e analisi letteraria.
Testo originale: A Funny Thing Happened on the Way to Stern College