Laura Landi: “Vi spiego perché le lesbiche non esistono”
Articolo del 17 giugno 2013 di Vito De Biasi pubblicato su Al femminile
Laura Landi è la regista, insieme a Giovanna Selis, di Le lesbiche non esistono, un documentario sul mondo troppo trascurato dell’omosessualità femminile, ospitato al 27° Festival Mix di Milano dopo aver girato l’Italia.
Il film, costruito su diverse interviste a donne lesbiche, racconta qualcosa in più su un mondo che viene tenuto sempre nascosto, ignorato per imbarazzo o per indifferenza. Abbiamo incontrato Laura Landi, che ci racconta nelle prossime pagine che cosa vuol dire “non esistere”.
Le lesbiche non esistono
In che senso le lesbiche non esistono?
Partiamo da una constatazione linguistica, che è anche lo spunto iniziale del nostro documentario: in Italia si parla di diritti gay, di Gay Pride, di matrimonio gay…le lesbiche sono sempre taciute. Non è di fatto un problema l’utilizzo del termine gay, ma a noi è sembrato che questa tendenza rivelasse molto sulla nostra società. Siamo partite quindi dall’assenza delle lesbiche nel discorso pubblico, e da qui è nata l’idea del titolo, che è ovviamente provocatorio.
Pensi che le lesbiche esistano ancor meno in un paese che vede le donne come oggetti sessuali, come l’Italia per esempio? Questa presunta invisibilità non potrebbe essere un effetto collaterale del machismo italiano, che è lo stesso fenomeno che ha arricchito il vocabolario degli insulti agli uomini gay?
Direi che questa invisibilità è sicuramente legata al ruolo della donna e alla storia della sua emancipazione. Ma il silenzio, il non chiamare le cose con il loro nome, sono rintracciabili su più fronti. Non esiste un unico responsabile, è la convergenza di diversi fattori. In Italia per esempio manca un’educazione alle parole, al dialogo, in molti contesti. Dicevo prima che nel nostro paese si parla molto più spesso di uomini gay, questo non vuol dire che lo si faccia nel modo giusto: nella visione italica i gay sono tanto stereotipati quanto le lesbiche invisibili. Credo che il tutto sia ugualmente sbagliato.
L’invisibilità e il crowdfunding
Il vostro punto di partenza è provocatorio: l’invisibilità come estrema forma di discriminazione, di omofobia. Non è una condizione che riguardava le lesbiche nei decenni precedenti, ma non più adesso?
Ti rispondo con una domanda provocatoria: quanti insulti per le lesbiche conosci? Quando abbiamo iniziato a girare il documentario ce la siamo poste anche noi questa domanda e a noi, sembra strano, venivano in mente solo termini riferiti agli uomini. L’insulto, per quanto negativo, implica un prendere in considerazione l’altro, mettersi in relazione con l’altro.
Ecco perché le parole sono importanti anche quando parlano male! Ed ecco perché il silenzio nel dizionario, anche degli improperi, è sintomo di un’identità negata, nascosta, su cui tacere.
Il vostro film è stato realizzato grazie al crowdfunding e alle donazioni volontarie, quindi così invisibili le lesbiche non sono…
Fortunatamente le lesbiche si sono rese visibili e attive… e non solo per sostenere il nostro progetto! Rendere produttori gli spettatori finali significa dare un ruolo attivo e consapevole al pubblico. E questo era fondamentale per noi, perché volevamo realizzare un documentario che interessasse e fosse visto da un pubblico il più ampio possibile, e non esclusivamente omosessuale. Così facendo siamo riuscite anche a fotografare un’Italia inedita: molti dei nostri finanziatori, con cui cerchiamo di rimanere connesse il più possibile, non sono omosessuali. Un dato interessante, no?
L’immaginario sulle lesbiche
Certo. Visto che parliamo di pubblico, parliamo anche di immaginario. Se una giovane donna vuole sentirsi raccontare il desiderio omosessuale e vuole riconoscersi in qualche film o romanzo, che film guarda? Che cosa legge? È vietato citare la ovvia Saffo…
Per carità, Saffo è un po’ troppo abusata! Non sono mai troppo brava in queste domande perché sia il desiderio che il riconoscersi in qualcosa sono molto soggettivi. Parlando di desiderio, o meglio di nascita del desiderio, consiglierei sicuramente Fucking Åmål di Lukas Moodysson. Ma anche Naissance des pieuvres di Céline Sciamma, così come Tomboy. Anche se in quest’ultimo ci sono molte più cose in ballo, sono tutti film che hanno a che fare con il riconoscersi, il raccontarsi, agli altri e a se stessi. E sono tutte cose legate alla scoperta del proprio corpo, della propria sessualità. Ma soprattutto sono film che riescono a cogliere in maniera delicata e spontanea le età di passaggio che sono sempre le più belle e spietate. E leggete Jeanette Winterson!
Portate il vostro documentario al 27° Mix Festival di Milano. Che cosa racconterete? Che cosa sapete adesso, che non sapevate prima del film?
Con questo documentario abbiamo vinto due o tre scommesse, ora sappiamo che è possibile, per quanto faticoso, girare un documentario indipendente che parla di donne e omosessualità in Italia, che il pubblico è un grande alleato e che “dal basso” l’Italia è molto più avanti di quello che solitamente si pensa. È
stata un’esperienza bella e gratificante. Abbiamo imparato che il raccontare in un paese come il nostro è fondamentale, e che non bisogna mai dimenticare che il silenzio in questi casi è molto pericoloso, perché rende invisibili, cancella. A grande richiesta abbiamo riaperto da poco un progetto per realizzare i DVD del documentario, sempre da Produzioni dal Basso, che ha reso possibile la realizzazione del film.