Il Papa partigiano: Bergoglio e l’indifferenza
Articolo di Umberto Di Maggio tratto dall’Huffington Post Italia, 9 luglio 2013
“Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano”. Le parole di Papa Bergoglio, oggi a Lampedusa per la sua prima visita pastorale,sembravano proseguire quella frase scritta l’11 febbraio del 1917 da Antonio Gramsci. Un monito che, dall’altare recuperato da una barca migrante, invita ad essere partigiani dei diritti, militanti dell’impegno civile per il dialogo tra le culture e tra i popoli.
“La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza”.
È impossibile dimenticare questo passaggio scandito a gran voce sotto il sole cocente di quell’Isola nel canale di Sicilia dove nascono le tartarughe e muoiono gli essere umani. Una frase che assume una portata storica poiché definisce, come diceva Gramsci per l’appunto, l’indifferenza come peso morto della Storia. Perché in fin dei conti l’abulia ed il parassitismo sono vigliaccheria e quindi rifiuto del senso autentico della vita. Parole partigiane quelle di Papa Francesco che, sconvolgendo ogni protocollo, ha scelto di essere ultimo tra gli ultimi.
Niente drappelli o fasti, nessun cardinale o cerimoniali di Stato. Anche il vento, ad un certo punto della cerimonia ha voluto che fosse tutto ancora più semplice. Quello stesso vento, ‘o scia (“il respiro” nel dialetto isolano), che ad un certo punto della celebrazione ha fatto volare via la papalina (il copricapo dei presbiteri) abbattendo ogni barriera con la gente venuta a condividere quegli attimi di gioia e di profonda riflessione sui drammi migratori.
Semplici i suoi gesti per testimoniare prossimità e corresponsabilità al popolo lampedusano da sempre solidale con le disgrazie e le miserie del mondo.
Parole partigiane di chi ha scelto di non voltarsi dall’altro lato e che ha preferito l’estrema periferia del Mediterraneo che, per uno scherzo del destino, unisce geograficamente il vecchio continente europeo con l’antica culla dell’umanità del continente africano da dove tutto iniziò. Quella corona di fiori lanciata a Cala Maluk con la scorta civica dei pescatori dell’Isola voleva indicare, nella sua semplicità, il ritorno all’autentico e all’essenziale. Il suo saluto alla comunità musulmana con l’augurio di un buon ramadan il bisogno, ed insieme la gioia, del dialogo e confronto tra le culture.
Per un giorno Lampedusa non è stata un abaco, un luogo di cronaca nera dove appuntare morti, sopravvissuti e scomparsi. È stato il centro del mondo ed amplificatore dei bisogni e dei diritti universali. Dalla denuncia ai trafficanti ed alle mafie internazionali che speculano sul bisogno, al monito nei confronti della politica, all’accusa nei confronti della società del benessere che fa dimenticare il senso autentico della vita e che anestetizza gli affetti ed i sentimenti reali.
Da questa zattera adagiata sul mare, oggi, è partito a gran voce un urlo che chiede ai governi del mondo di promuovere politiche di giustizia e di rispetto delle vite umane. La testimonianza di umanità e solidarietà di questa terra sia rappresentato dall’abbraccio quotidiano dei suoi abitanti, artigiani della pace come li ha ricordati l’arcivescovo di Agrigento Monsignor Montenegro, ai disperati del mare che hanno sete di giustizia. Sia rappresentato dagli Isolani di Lampedusa che non delegano ad altri il proprio impegno per salvare dalla morte chi chiede felicità e pace. Partigiani anch’essi e teneri interpreti della solidarietà dell’umanità.