La Teologia della Liberazione di fronte al povero
Considerazioni del 15 giugno 2013 pubblicate sul blog Profezia e liberazione
Dio si è incarnato come povero. E questo ha un significato teologico molto chiaro: non é che Gesù sia un ricco che si maschera da povero, ma Dio ha voluto incarnarsi come povero perchè questo è il suo modo di essere. Nella povertà, infatti, ci sono dei valori intrinseci che sono quelli che costruiscono il Regno: essenzialità, solidarietà, generosità, fiducia e abbandono in Dio, condivisione, etc.
In quest’ottica, la principale differenza fra la Teologia della Liberazione e un certo modo di intendere la Dottrina Sociale della Chiesa, è che per quest’ultima i poveri sono sopprattutto un problema sociale e etico, che interpella la nostra coscienza.
Per la Teologia della Liberazione, invece, prima ancora di essere un problema sociale, i poveri hanno uno status teologale: Gesù si identifica con loro (Mt 25,31-46), cioè è lì che ci incontriamo con Dio, e quindi è a partire dai valori dei poveri che Dio vuole costruire il suo Regno. Detto in altri termini, i poveri ci evangelizzano, nel senso che sono i depositari di quei misteri che Dio ha nascosto ai sapienti e ai potenti di questo mondo (Mt 11,25). È questa la intuizione fondamentale della Teologia della Liberazione, una intuizione che è profondamente radicata nel Vangelo, e che quindi rappresenta una ricchezza per tutta la Chiesa universale.
Il “Buon Samaritano” in America Latina
E’ a partire da questa intuizione che i Teologi della Liberazione leggono la Bibbia. E così, letta in America Latina, la Parabola del Buon Samaritano assume una valenza particolare, come ci insegna Jon Sobrino.
L’uomo che si trova “mezzo morto” al lato della strada che va da Gerusalemme a Gerico non si trova lí per caso o per fatalitá: sta morendo perchè dei “briganti” l’hanno “spogliato” e “percosso”. Oggigiorno i briganti sono un intero sistema, il sistema neoliberale che spoglia milioni di poveri dei loro diritti fondamentali e poi li lascia mezzi morti al bordo della strada.
Il sacerdote e il levita vedono il ferito ma “passano oltre”, non si fermano per aiutarlo: perchè? La principale ragione é che hanno paura: i briganti, forse, sono ancora lì nascosti da qualche parte, e potrebbero attaccare ancora. Ma non è solo questo; anche se i briganti se ne sono già andati via, il sacerdote e il levita non vogliono far niente che possa dar loro fastidio: fermarsi presso il moribondo e ridargli vita è una cosa che non fa piacere ai briganti, perché il moribondo potrebbe averli riconosciuti e potrebbe denunciarli. Il sacerdote e il levita, pii israeliti, preferiscono non immischiarsi in queste cose ‘politiche’ e “passano oltre”. Le questioni politiche sono questioni di vita o di morte per la gente. E noi spesso vi “passiamo oltre”.
Arriva poi il Buon Samaritano, che ha “compassione” del moribondo: gli “fascia le ferite”, e lo porta a una locanda perchè possa recuperare pienamente la salute. La compassione del Samaritano sfida i briganti probabilmente nascosti lì vicino da qualche parte: la misericordia implica la disponibilità ad affrontare i ladroni e gli oppressori di questo mondo. Senza questo coraggio di affrontare il peccato strutturale che produce la morte di tanti nostri fratelli non è possibile nessuna misericordia, e si “passa oltre”.
Il sacerdote e il levita frequentavano il Tempio tutti i giorni (oggi si potrebbe dire che andavano a messa quotidianamente). Noi siamo abituati a vedere il Samaritano come una figura molto positiva, peró allora il Samaritano – per il pio israelita – era uno ‘scomunicato’, un nemico di Israele, una persona spregevole, una figura pericolosa, escluso dalla salvezza che Dio riserva ai suoi figli. Attualizandolo all’oggi, si potrebbe chiamarlo il “Buon sovversivo” o il “Buon comunista” o il “Buon Islamico”. Ebbene, dice Sobrino, la Chiesa – se questo é necessario per difendere i poveri e gli oppresssi – deve avere il coraggio di farsi chiamare ‘samaritana’, comunista o filoislamica. Mons. Romero molte volte fu accusato d’essere comunista solo perché difendeva la vita dei poveri. Una Chiesa che fascia le ferite degli oppressi moribondi sa che sará perseguitata, calunniata, minacciata, sa che la chiameranno ‘samaritana’, ‘sovversiva’. Ma non per questo si arrende o cede alle minacce dei potenti. Come dice mons. Romero, “Noi riconosciamo Gesú come unico Re: Lui solo vogliamo amare e seguire, a Lui solo ci inginocchiamo… Anche padre Octavio Ortiz voleva seguire Gesú, e per questo l´hanno ucciso: gli hanno schiacciato la faccia, non é stato possibile ricomporla. Ma proprio in questo periodo in cui i nostri sacerdoti sono perseguitati e uccisi crescono le vocazioni sacerdotali; molti giovani entrano nei nostri seminari e, come l’apostolo Tommaso, vogliono seguire Gesú e dicono: ‘Andiamo con Lui, e moriamo con Lui!’ ” (Gv11,18).
La teologia como espressione d’amore
Tanti anni fa invitarono Gustavo Gutierrez, il fondatore della teologia della liberazione, a un Convegno internazionale su Giovanni della Croce. Molti si meravigliarono: cosa c’entra un teologo della liberazione – impegnato sui problemi sociali – con la figura di una grande mistico come Giovanni della Croce? E Gutierrez spiegò: ‘C’entra molto. Tutta l’opera di Giovanni della Croce ci descrive un Dio innamorato di noi. Attraverso i suoi scritti Giovanni della Croce vuole convincerci che Dio ci ama. Ebbene, quando viviamo tra poveri che devono affrontare ogni giorno problemi legati all’ingiustizia, alla corruzione, all’oppressione, alla violenza, alla povertà, davvero si domandano: ma Dio ci ama? Per cui il problema centrale della Teologia della liberazione è: come dire al povero ‘Dio ti ama’? Come rendere credibile per i poveri la Buona Novella in un contesto di ingiustizia e violenza?’
Per molto tempo si è pensato che la teologia ha una finalità di tipo eminentemente intellettuale: dimostrare, fin dove è possibile, l’esistenza di Dio e spiegare – in un linguaggio razionale – le verità della fede. Ma in termini biblici non è assolutamente evidente che la priorità della teologia sia dare una spiegazione razionale della nostra fede.
Il popolo d’Israele non sentiva la necessità di dare una spiegazione razionale dell’esistenza di Dio, perchè per loro Dio era una realtà evidente, Qualcuno che sperimentavano tutti i giorni della loro vita. Il problema, per il popolo d’Israele, non era sapere se Dio esiste ma verificare se Dio continua ad amare il suo popolo o si è stancato di lui. Il punto centrale della rivelazione non è la trasmissione di verità o dogmi. Gesù non si è incarnato per insegnarci dei dogmi, ma per farci sapere che Dio “ci ama fino alla fine” ed è disposto a dare la sua vita per amor nostro. Per cui la prima risposta che Dio si aspetta da noi non è una risposta di tipo intellettuale: Dio non ci chiede – come prima cosa – di accettare i dogmi di fede, ma di accogliere la sua chiamata amando i nostri fratelli come Lui ha amato noi. Il comandamento di Gesù è: Amatevi come io vi ho amato!
Anche la teologia, come attività cristiana, deve rispondere a questo comandamento: è un’espressione d’amore e non deve ridursi ad essere una mera riflessione razionale sulla Parola. La finalità della vita cristiana è la carità, la costruzione del Regno. Anche la teologia, dunque, dev’essere orientata alla costruzione del Regno e alla trasformazione della società.
Non sempre i teologi sono stati consapevoli di questo. Perciò Jon Sobrino parla di ‘peccaminosità’ della riflessione teologica: quando la teologia rimane ad un livello astratto e si disinteressa completamente della sofferenza in cui vivono milioni di esseri umani, sta commettendo peccato, il peccato di cinismo. E’ quindi urgente che la teologia si converta al Vangelo della pace, della giustizia e dell’amore.