Antony il transgender che incanta chi lo ascolta
Articolo di Riccardo Romani tratto dal settimanale D de La Repubblica n.800 del 14 Luglio 2012, pp.48-50
Tra il Radio City Music Hall e il Lower East Side di Manhattan ci sono pochi chilometri in linea d’aria e quasi vent’anni di sofferenza. Quella che Antony Hegarty ha dovuto attraversare per concedersi il faticoso lusso di essere sempre se stesso.
Un trasgender, e soprattutto un artista con una sensibilità pazzesca. Dalle serate a inizio anni Novanta nei locali sperimentali del quartiere più trasgressivo di Manhattan, fino al tempio della musica newyorchese, Antony ha percorso una strada tortuosa, conflittuale e alla fine anche gratificante.
Forse New York è l’unico luogo al mondo in cui un talento del genere poteva rivelarsi. Immagino la sua vita costretta nella minuscola Chichester, nel West Sussex inglese, e suppongo che il destino ci abbia messo del suo facendolo traslocare con la famiglia prima a San Francisco e poi, appunto, nell’unica città sul pianeta in cui forse essere “trasgender” rischia di passare per un’ovvietà.
Oggi, a 41 anni, Antony si prepara all’uscita di un nuovo album, ma soprattutto all’ingresso in una nuova dimensione della sua carriera già abbastanza difficile da definire. La fragilità di Antony, il suo sguardo vagamente smarrito e curioso, sono solo schermi protettivi. La forza che sprigiona di persona con le sue risposte, in alcuni casi meditate per alcuni minuti, è incontenibile. Antony è “l’artista” nella sua forma più assoluta.
Quella che non consente alcuna definizione. E come tale sente che è arrivato il momento di prendersi qualche responsabilità. La strofa struggente cantata dentro al Radio City Music Hall solo pochi mesi fa, oltre a commuovere la platea, pare essersi trasformata nel suo manifesto programmatico. “I need another world/this one’s nearly gone”.
“Sin da ragazzino mi sono chiesto quale debba essere il ruolo di un artista nel mondo in cui siamo. Negli ultimi tre anni ho riflettuto molto sui miei valori e ho cominciato a sforzarmi per partecipare a questa società. Prima era come se mi confinassi volontariamente in una specie di recinto”. Quello che per molti può essere considerato un limite, per Antony è la piattaforma su cui poggia tutto il progetto. “Essere un trasgender costituisce una fortuna immensa. La mia identità mi offre una visione privilegiata delle cose.
Il mio accesso ai media, la possibilità di avere una simile cassa di risonanza è una benedizione. Non è più possibile tenere separato il lavoro che faccio da chi sono, dalle percezioni che ho di questo mondo, dallo scoramento provocato dalla distruzione che noi, come umanità, stiamo perpetrando nei suoi confronti. Ci comportiamo come un virus spietato”.
L’album che uscirà in agosto (Cut the World) è il compendio di tutte queste percezioni, una serie di motivi con base sinfonica e un video narrato il cui titolo, Future Feminism, introduce il suo piano di salvataggio per il pianeta: una radicale trasformazione da società patriarcale a un modello in cui siano le donne a capo di tutti i processi decisionali. Con un moto di umiltà, Antony precisa.
“Non sono un ingenuo, so benissimo che questo è un disegno molto ambizioso, ma è la mia risposta a quel bisogno di definire il ruolo di artista in questa società. Io non sono un esperto, né un intellettuale, neppure un politico. Leggo le notizie sui giornali come tutti, non ho fonti privilegiate. Però penso che gli artisti, con il loro contributo emozionale, nel modo in cui lo manifestano, siano esperti un po’ pure loro. Esperti dell’intuizione. E vadano tenuti in considerazione.
Il mio album è una reazione all’impatto che il mondo occidentale ha avuto sull’ecologia, al fatto che gli esperti, quelli che decidono, appunto, hanno preso decisioni sbagliate. Mi dicono che affidare a donne i posti di potere nelle grandi corporation, nei governi, nelle organizzazioni internazionali, sia solo una provocazione estrema. Penso che il danno prodotto sia figlio di decisioni estreme che vanno corrette in modo ugualmente estremo”.
Antony sente di imbarcarsi verso un destino ancora un po’ confuso, pieno di battaglie, ma inevitabile. Il suo ideale sarebbe costituire una confederazione di artisti che parlino la stessa lingua. “L’opinione comune è che chi fa questo lavoro debba rimanere confinato nel proprio recinto. Non è permesso partecipare alle decisioni, neppure esprimere opinioni. Ma questo succede a tutti i livelli della società.
Alla gente comune viene tolta la possibilità di partecipare, da cui deriva subito un senso di smarrimento. E questo è molto occidentale. In Africa, ad esempio, gli artisti sono considerati un patrimonio, vengono tenuti in considerazione.
Qui da noi non si va oltre la logica dell’X Factor. Gli artisti devono intrattenere e stare al loro posto. Tutto è violentemente commercializzato. Ma è il momento di sfidare questo sistema, anche se si deve pagare un prezzo personale. Sono in tanti a pensarla come me.
Purtroppo la maggior parte di quelli che sarebbero al mio fianco oggi sono morti. Penso a Nina Simone, alla sua forza straordinaria. Lei sarebbe in prima fila contro questa follia collettiva”. Sorride, Antony quando riflette sul ruolo che si sta ritagliando.
“Sono un transgender ed è socialmente inaccettabile che uno con la mia identità parli di cose che non siano inerenti la propria sfera. è una bella sensazione, ma anche dolorosa, perché dà il senso del livello di disperazione in cui versa il nostro pianeta.
Fra cento anni guarderanno al nostro tempo e si chiederanno: “Ma a cosa diavolo stavano pensando”.
Siamo divisi in blocchi opposti, ciascuno animato dalla propria religione, in conflitto con tutto. In silenzio gli speculatori saccheggiano le nostre risorse mentre noi ci occupiamo di questioni inutili.
In America ogni quattro anni la gente va a votare pensando davvero di decidere anche su temi tipo il matrimonio dei gay. Come se due gay che si sposano fossero davvero una questione di cui preoccuparci.
Ma è solo la religione al servizio del potere. E i temi vengono usati come veicoli per manipolare le masse”. La sua, di religione, è un codice di formule semplici. Una su tutte: non chiamatela religione.
“Detesto ogni tipo di religione, sono stato cacciato da ragazzino da qualsiasi tipo di struttura religiosa cui mi sia avvicinato. Respinto. Costretto a sopravvivere da solo nella giungla. Ho dovuto difendermi, imparare.
Il Papa non sta certo dalla mia parte, uno che afferma che i matrimoni gay producono più danni di quanti ne faccia la deforestazione, non immagino cosa possa dire delle calamità prodotte dai trasgender…
Invece sono qui a parlare dell’orrore della segregazione, dei diritti delle donne e di chi è travolto da questa società compulsiva, convinta che il proprio destino dipenda dalla capacità o meno di poter acquistare un paio di scarpe”.
Antony tutte queste cose le assorbe, le distilla e le mette dentro le sue performance. Le somatizza, quasi, a giudicare dal livello di sofferenza che trasmette a chi lo ascolta. Ma, ancora una volta, smentisce quella che sembrava un’ovvia supposizione.
“Il dolore che ho dentro è solo una parte di me. Quando sono di fronte al pubblico, quando posso esprimermi liberamente e sono me stesso, allora sono davvero felice. Profondamente felice”.