Terre di mezzo. Come si dice rifugiato in bambarà
Articolo di Valerio Millefoglie tratto dal settimanale D de La Repubblica n.800 del 14 Luglio 2012, pp.56-58
Rasmany, arrivato in Italia come clandestino, oggi fa un mestiere speciale: l’interprete da lingue rare per chi chiede asilo politico. Viaggia molto, arriva davanti alle commissioni che devono giudicare e ridà le parole a chi non ne ha. Poi, quello che ha imparato di nuovo lo segna su un taccuino. Rasmany Ouedraogo ha 39 anni ed è originario del Burkina Faso. È grazie alla sua laurea in antropologia che ha approfondito il Bambarà e gli altri dialetti rari dell’Africa subsahariana, ed è grazie alla lettura dei quotidiani che ha imparato e continua a imparare l’italiano.
Su un’agendina appunta tutte le frasi che non conosce. A leggerle una dietro l’altra, anche se slegate, sembrano assumere un senso: “Vivere nelle condizioni inumane, un impiego, troppa tolleranza, un omicidio di stampo razzista, nel settore edilizio, una grave anomalia, una dinamica da far west, sono sufficientemente protetto, costringere, orfanotrofio, ai primissimi di maggio, un rumore sordo mi sveglia alla realtà“. Le parole, una volta messe insieme, trovano sempre il modo di dirti qualcosa.
Rasmany si occupa di prendere le parole dei suoi connazionali e di fare da interprete nelle commissioni del Ministero che valutano le storie dei richiedenti asilo politico in Italia. Uomini, donne e anche minori che hanno intrapreso viaggi simili a quello che lui stesso ha affrontato più di dieci anni fa. Nel ’98, con un visto turistico per l’Olanda, ha proseguito verso la Francia. Alla stazione di Parigi alcuni africani del suo paese gli raccontano che è dura rimanere lì.
Decide di partire per l’Italia. Dopo due notti passate a dormire alla stazione di Torino Porta Susa, trova lavoro prima in una fabbrica a Cuneo, poi nei campi di pomodoro nel Casertano. Il datore di lavoro gli dice: “Ti vedo svelto, sei così bravo che da oggi ti pago per controllare il lavoro degli altri“. Gli altri li va a controllare fino a Foggia, ma le macchine presto prendono il posto del lavoro manuale.
Rasmany intanto ottiene il permesso di soggiorno e viene a conoscenza dell’Itc, una cooperativa di interpreti e traduttori che si occupa di ricercare su tutto il territorio italiano conoscitori di lingue rare. Lui di lingue rare ne conosce almeno dieci. Le parole hanno qualcosa di elitario e chi condivide un linguaggio condivide un’intimità. Rasmany e i suoi colleghi sono le terre di mezzo fra mondi lontani, che per un giorno si raccontano tutto.
REGOLE D’INGAGGIO
L’Itc ha sede a Roma in un palazzo del centro. Al terzo piano si apre la porta di quella che doveva essere una casa d’epoca. Una delle stanze dell’ufficio è dominata da un atlante geografico appeso alla parete. Su ogni angolo del globo sono applicati dei post-it che segnalano lingue e dialetti di ogni luogo. Anche su Roma c’è n’è uno con scritto: “romano“.
Di fronte a questa riduzione su cartina del mondo si muove un gruppo di coordinatrici. Da dietro le loro scrivanie organizzano gli spostamenti degli interpreti, fanno da tramite con le commissioni in tutta Italia e soprattutto reclutano esperti di lingue sconosciute. Mi immagino un esercito di Rasmany, in marcia come i primi uomini sulla terra a portare la parola dove non c’è. Nella vita di tutti i giorni svolgono anche altri lavori, sono infermieri, impiegati, altre volte studenti. Hanno una doppia vita in cui non c’è nulla da nascondere.
Per scoprirli, i metodi delle coordinatrici diventano pioneristici e avventurosi come vestirsi per andare in Moschea non a pregare, ma per incontrare un capo comunità che conosce un particolare dialetto del mondo arabo.
O come chiamare un ristorante indiano e invece di prenotare un tavolo, chiedere se c’è qualcuno che conosce la lingua Tulugu. Oppure come vagliare la candidatura di un interprete pakistano che fra le lingue rare inserisce: urdu, punjabi, bresciano. Trovato l’interprete bisogna mandarlo al più presto a Siracusa, a Trapani, a Crotone o in qualunque parte si trovi la commissione territoriale. Ad attenderlo lì c’è qualcuno con una storia che non può essere raccontata fino al suo arrivo.
L’AUDIZIONE
Gli interpreti viaggiano su pullman, su treni, su aerei e fanno da intermediari della speranza. A volte non hanno valigie, ma si portano dietro le lingue swahili, djoula, tuareg o hausa e su quel pullman, sotto il sole o di notte, nessuno sa che sta viaggiando la parola. Rasmany ricorda bene il suo primo viaggio: “Il tragitto è stato lungo, ho attraversato in pullman la Basilicata, la Calabria, poi giù fino a Caltanisetta, ma io non ho sentito il peso del viaggio. Nel mio paese facevo l’insegnante d’inglese, così io ho detto ben venga, ho trovato un lavoro più o meno uguale. Io ho detto benvenuto a questo lavoro!“.
Nell’attesa di Rasmany e di essere ascoltati, alcuni richiedenti sono ospiti nei Centri di Accoglienza Richiedenti Asilo. Dei limbi a metà fra il mondo da cui provengono e quello in cui vorrebbero entrare. Nel primo centro di accoglienza in cui Rasmany è arrivato da interprete ha tradotto soprattutto il bambarà. Al suo passaggio tutti i rifugiati lo chiamavano ad alta voce: Bambarà, Bambarà! La lingua era diventata il suo nome.
L’audizione può durare anche quattro ore. Nella stanza ci sono il richiedente, l’interprete e il relatore intervistatore. Ad assistere al colloquio sono presenti un rappresentante della polizia di Stato, un rappresentante di un ente locale, un membro dell’alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e il Presidente della commissione. Il richiedente asilo politico deve aprirsi a tutti questi volti sconosciuti. L’unica aria di casa è l’interprete, che però per deontologia deve rimanere imparziale.
In fuga da tutto Chiedo a Sekou, un altro interprete conosciuto pochi giorno dopo l’incontro con Rasmany, come si fa a rimanere impassibili nell’ascoltare una storia che comunque parla anche di te, delle tue origini. Mi risponde che non è facile, infatti una volta gli è capitato di commuoversi, “Una ragazza, proprio della mia regione, raccontava della stessa povertà che avevo conosciuto io“.
La prima parte dell’audizione è composta da domande semplici: dove sei nato? Di quale religione sei? Da quale paese provieni? Com’è formato il tuo nucleo familiare? Sei sposato? Che tragitto hai fatto dal tuo paese per venire qui? Nella seconda parte dell’audizione il relatore approfondisce le risposte del richiedente.
A dettare chi può essere considerato rifugiato, e a dettare anche le forme di protezione legale e il rispetto dei diritti sociali, c’è la Convenzione di Ginevra del 1951. Inizialmente si occupava di proteggere i rifugiati europei a seguito della seconda guerra mondiale, poi un Protocollo del 1967 ha esteso il raggio d’azione. Ha ufficializzato che si può scappare da qualunque cosa.
Rasmany mi racconta che un uomo una volta ha chiesto asilo politico per motivi legati alla pratica di riti spirituali. Nella sua terra gli avevano lanciato una maledizione e quindi gli avevano detto che sarebbe dovuto fuggire oltre confine, lì dove quelle minacce non lo avrebbero potuto raggiungere. Quando il relatore gli ha chiesto come mai allora non si fosse limitato a rifugiarsi in Costa D’Avorio, il richiedente ha risposto che in realtà gli spiriti si erano spostati fin lì e che quindi aveva deciso di scappare ancora più lontano, in Italia.
“Altre volte”, mi spiega Rasmany, “raccontano che nel loro Paese è in corso una guerra civile, o che rischiano la tortura. Altre volte ancora invece arrivano da Paesi considerati tranquilli, poveri, ma tranquilli“. La povertà tranquilla sembra una di quelle composizioni della sua agenda di parole sconosciute. Dopo l’approfondimento del relatore tutto il verbale viene riletto sia nel dialetto raro che in lingua italiana.
Il richiedente può correggere inesattezze o aggiungere eventuali chiarimenti. Successivamente la commissione si riunisce per prendere una decisione e da questo momento in poi l’interprete non rivedrà mai più il richiedente. Neppure saprà se questi ha infine ottenuto lo status di rifugiato politico.
La storia che più ha colpito Rasmany in tutti questi anni è stata quella di un ragazzo del Burkina Faso, orfano di entrambi i genitori. Quando la mamma è incinta di lui, muore il padre, subito dopo il parto muore la madre. Viene affidato a uno zio paterno che ha tre mogli. Una di loro, la più giovane, lo minaccia: “Se non vieni a letto con me, dico a tuo zio che hai voluto violentarmi“. Mentre è a letto con lei viene scoperto dallo zio. Scappa dalla sua ira e dal suo paese.
L’ITALIA CHE NON C’È PIÙ
Ibraim Sy, un collega presentatomi da Rasmany, mi spiega che ultimamente consiglia ai suoi amici e parenti in Africa di non raggiungerlo in Italia, che non ci sono più soldi. “L’Italia prima era l’Italia“, mi dice. Loro però non ci credono e si mettono ugualmente in viaggio, prendendo le sue parole come una forma di gelosia, come dire: “Solo io posso stare qui e fare fortuna“.
Penso che sarebbe bello riuscire a trovare un interprete per le persone che parlano la stessa lingua, ma non si capiscono. Redigere verbali di quello che ci diciamo, tornare indietro e chiedere: “Era proprio questo che volevi dirmi con quella frase?”. Lasciarci senza incomprensioni. Prima di salutarci Rasmany mi allunga il suo biglietto da visita. Sotto il suo nome e l’elenco delle lingue rare che conosce, c’è il disegno di una mano che scrive su un foglio. Lo metto in tasca e riparto con le sue parole.