Per un approccio cristiano agli studi di genere
Articolo di Anthony Favier pubblicato sul sito Réseaux du Parvis (Francia) il 17 aprile 2013, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
Qual è il significato del mio corpo? Che importanza ha il corpo nel definire ciò che sono? Perché le differenze fisiche? Come devo concepire il mio desiderio e quello degli altri? Si tratta di questioni cruciali che riguardano tanto la nostra società quanto i gruppi religiosi che ci vivono. La tradizione cristiana ha avuto a lungo due concetti pertinenti ed efficaci per comprendere l’identità, la differenza dei sessi e i desideri: la creazione e la vocazione. Nel suo slancio creatore, e la Genesi ha un posto importante in questa concezione, Dio ci ha creati sessuati e faccia a faccia con l’altro sesso fin dall’origine, in una maniera ineludibile e ricca di senso.
Ma, lungi dal rinchiuderci nell’essere maschio o femmina, Dio ci chiama anche a divenire uomini e donne e a realizzare così la nostra vocazione. Quest’ultima è il luogo dove potrebbero idealmente congiungersi la libertà umana e la sua volontà, che rimane fondamentalmente l’attenzione per gli altri e per i più piccoli dei nostri fratelli e sorelle.
In questa tensione tra creazione e vocazione diverse condizioni di vita, che presumibilmente danno un significato particolare al sesso (vita religiosa e sacerdotale) o alla differenza dei sessi (matrimonio), devono contenere le esperienze sociali, sessuali e affettive. Tuttavia, la comprensione del mondo e dei sessi che ruota attorno al polo creazione/vocazione, se è lungi dall’aver perso tutta la sua pertinenza, oggi deve affrontare diverse problematiche.
Quali incertezze per noi dopo le lotte di emancipazione femminile degli anni ’70! Le femministe hanno mostrato acutamente come ciò che teneva insieme la creazione (il sesso, per farla breve), ciò che passava per naturale era spesso e volentieri costruito e soprattutto giustificava la subordinazione.
Del resto, molte antifone del passato oggi non si sentono più, né nelle comunità cristiane né nella società. L’essenzialismo stenta a rinnovarsi, sviluppando sermoni autoreferenziali e poco credibili sulle donne complementari agli uomini e stabilisce delle tipologie di tratti caratteriali, attitudinali o di ruolo che, al vaglio della riflessione, non sono essenzialmente maschili o femminili ma forse, più comunemente e semplicemente, umani. Gli uomini possono essere materni e le donne autoritarie. La varietà sociale delle configurazioni tra ruolo sociale e sesso è immensa e sfugge a ogni semplicistico schema binario.
Quali incertezze supplementari per noi da quando l’emancipazione delle minoranze sessuali tende a dire che non c’è una continuità evidente tra l’anatomia e i desideri che guidano gli individui!
Nella nostra società, uomini e donne non appaiono più “naturalmente” come i due poli del desiderio amoroso o erotico. Infine, l’attenzione crescente alla trans-identità, lo scarto tra la propria anatomia e la percezione di se stessi ci mostra come ciò che viene sempre esibito come naturale è, in molte situazioni, lontano dall’esserlo. Dall’altro lato, un approccio puramente costruttivista ancora spaventa, e per buone ragioni. Tutto è solo costruzione sociale e rapporto di forza? Il corpo è malleabile e privo di senso in sé? Bisogna rinunciare a ogni accettazione della differenza dei sessi?
Gli studi di genere sono nati in un momento di crisi della nostra storia comune, in cui lo sviluppo dell’individuo e la valorizzazione dell’autonomia, il progresso tecnico, il controllo della fecondità soprattutto, e poi l’emancipazione delle donne e delle minoranze sessuali hanno rivelato i limiti di un pensiero dagli accenti troppo facilmente naturalisti e differenzialisti. La corrente degli studi di genere, oggi ben rappresentata nei diversi ambienti intellettuali, ha così proposto una nuova via, proponendo una pista di riflessione sulle identità sessuate e sessuali, catalogando ciò che definisce il mascolino e il femminino nei diversi luoghi e nelle diverse epoche e interrogandosi sul modo in cui le norme si riproducono fino al punto di apparire naturali e potenziali fonti di ingiustizia.
Come accogliere tutto questo nel quadro del pensiero cristiano? C’è spazio per un’etica cristiana del genere? Gli studi di genere invitano a una messa in discussione che può essere destabilizzante e persino inquietante perché fanno vacillare l’etica e la dottrina tradizionali. Possiamo rifiutarli, rigettarli, combatterli oppure vederli come un’opportunità per pensare la pratica dell’Evangelo nella nostra epoca. Negli anni ’70 c’erano teologi pronti a vedere gli elementi più destabilizzanti del sapere contemporaneo come positivi, se non come altrettante opportunità per rinnovare la nostra comprensione della fede e della dottrina. Dobbiamo riabilitare questo metodo?
Più concretamente, gli strumenti di elucidazione della condizione umana offerti dagli studi di genere possono essere interessanti? Non ci mostrano forse che, prima di puntare tutto sulla differenza dei sessi, bisogna ugualmente accettare il suo divenire all’interno di una storia?
L’anno 2011 è stato segnato da una polemica di rara intensità nell’ambiente scolastico, sorta in occasione della revisione del programma di biologia per alcune classi liceali. Il Segretariato Nazionale dell’Insegnamento Cattolico e in seguito la Conferenza Episcopale francese si sono opposti all’introduzione della “teoria di genere” nei nuovi manuali prodotti dagli editori scolastici, facendo appello alla più grande vigilanza da parte di professori e genitori.
Ai loro occhi, le nuove opere sarebbero state contaminate da una ideologia che cerca di sovvertire le conoscenze biologiche in materia di differenza dei sessi e sessualità. Quest’ultima inviterebbe a un approccio troppo comprensivo nei confronti dei comportamenti omosessuali e della trans-identità.
Un campo di studi che era abituato all’ambiente più confidenziale e felpato dei dibattiti accademici si è così ritrovato in mezzo alla scena pubblica e mediatica, suscitando articoli di giornale, trasmissioni radiofoniche e televisive e perfino interrogazioni parlamentari. Da parte dei cristiani, anche dagli ambienti più aperti, pochissime reazioni positive: il fastidio e la scarsa conoscenza sembrano avere la meglio sulla comprensione degli studi di genere.
L’opposizione dell’istituzione cattolica agli studi di genere è, ricordiamolo, più antica e ha già una lunga storia alle spalle. Essa ha come sfondo soprattutto le istanze internazionali dell’ONU e dell’Europa. Nel 1995, durante la conferenza mondiale sulle donne a Pechino, il termine “gender” entra nei documenti di lavoro e nel programma di azione finale. Il concetto di genere appariva allora come il miglior modo di approcciare in maniera dinamica la questione della condizione femminile. Con questo approccio di genere non si tratta più di un problema solo femminile ma si inserisce in una riflessione più generale sulla ripartizione sociale delle attività come sui ruoli storicamente costruiti che assegnano determinati spazi agli uomini o alle donne.
La Santa Sede reagì vivamente: “L’esistenza di una certa diversità di ruoli non è per nulla pregiudizievole per le donne, purché questa diversità non venga imposta arbitrariamente ma sia l’espressione di ciò che è proprio alla natura dell’uomo o della donna” (Rapporto della quarta conferenza mondiale sulle donne, New York, Nazioni Unite, 1996, p. 173).
Al tempo stesso la Chiesa cattolica romana ricorda che la scelta di apostoli maschi da parte di Cristo non è legata a un condizionamento sociale o a un determinato contesto storico e geografico; questa scelta rivela qualche cosa della fede deposta nella natura umana, un qualcosa che non può essere messo in discussione.
Il ministero sacerdotale maschile non può essere considerato, agli occhi di Roma, un ruolo socialmente ereditato e si comprende come il concetto di genere sia inquietante nel senso che invita precisamente a interrogarsi sulla differenza tra i sessi e l’evidenza della natura.
L’idea tipicamente cattolica che esista un complotto ideologico che cerca di opporsi alla famiglia tradizionale e di cui la teoria di genere sarebbe il cavallo di Troia che bisogna combattere risale sicuramente agli anni ’80 e da allora non ha smesso di rafforzarsi. Nato dalla riflessione sui diritti umani, il concetto di “identità di genere” emerge all’inizio degli anni 2000. Definita come “Fa[cente] riferimento all’esperienza intima e personale del proprio genere per come è vissuto profondamente da ciascuno e ciascuna, che corrisponda o meno al sesso assegnato alla nascita, compresa la coscienza personale del corpo che può implicare, se liberamente accettata, una modificazione dell’apparenza o delle funzioni corporali con mezzi medici, chirurgici o altro”, l’identità di genere come concetto giuridico tende a integrare nella protezione giuridica alla quale ha diritto un cittadino non solo l’orientamento sessuale ma anche la trans-identità nelle sue differenti dimensioni, dal travestitismo alla modificazione chirurgica.
Nella strada imboccata dal diritto nella nostra società, l’omofobia e la transfobia tendono a diventare delle motivazioni aggravanti di discriminazione o di diffamazione, a somiglianza del razzismo. Il concetto di identità di genere è stato trasposto nel diritto europeo nel rapporto di Andreas Gross adottato dall’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa nella primavera 2010. Intitolato La discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, è stato aspramente criticato dai nunzi e dalle organizzazioni delle famiglie cattoliche.
Due comprensioni del mondo contemporaneo si confrontano in maniera sempre più serrata. La prima è quella classica secondo la quale esistono delle norme naturali che non entrano nel perimetro del diritto, non sono negoziabili e non possono quindi essere cambiate; oggi, per l’istituzione cattolica, si tratta principalmente del diritto dell’individuo al controllo della fecondità o della possibilità di accedere al matrimonio per le coppie dello stesso sesso. Dall’altro lato abbiamo una nuova visione del corpo e dell’intimità in cui le regole, se democraticamente elaborate e accettate, possono evolvere.
Se il genere della società cambia, se le attività e le attese sociali si ridistribuiscono tra uomini e donne, se i giudizi etici di fronte a certi comportamenti si modificano, questo vuol dire che va bene tutto, che tutto è giusto e che non c’è più alcun criterio di valore da tenere di fronte all’evoluzione della nostra società?
Oggi possiamo assumere come criteri importanti quelli dell’umanesimo e dello sviluppo dei diritti umani: l’uguaglianza, la dignità, la reciprocità e il rispetto dell’autonomia di ciascuno e ciascuna, criteri fortemente compatibili con l’Evangelo. La Rete Europea Chiese e Libertà, di cui fanno parte i Réseaux du Parvis e FHEDLES, ha così sostenuto il rapporto di Andreas Gross in nome dell’attaccamento inalienabile al diritto delle persone omosessuali e trans-identitarie a essere protette e accettate nella società.
Per lungo tempo la comprensione sociale e intellettuale della sessualità è passata attraverso il prisma del genere. Ciò che definiva un uomo o una donna era proprio e indissolubilmente l’esercizio esclusivo della sessualità eterosessuale. Nel XIX secolo, nei romanzi di Proust gli uomini omosessuali sono ancora visti come persone nelle quali un’anima femminile è prigioniera di un corpo maschile.
Sesso, genere e sessualità non sono concettualmente separati. Le tre cose coincidono molto bene in ciò che si designa ancora come un sesso, forte o debole, bello o virile, e ogni deviazione dalle norme del proprio sesso viene vista come sovversiva o patologica, come un disordine che bisogna necessariamente combattere o soffocare perché “contronatura”.
La psicanalisi freudiana, sicuramente ancora molto influente sul nostro modo di pensare, non esce da questa concezione e lega fortemente la differenza dei sessi alla differenza delle generazioni, l’attrazione per l’altro sesso alla maturità psichica. Non si può progredire in una che attraverso l’altra, non ci si può realizzare come uomo e come donna che attraverso l’affettività e la sessualità con una persona dell’altro sesso. Se la concezione naturalista della sessualità è stata a lungo la nostra qui in Occidente, non è detto tuttavia che essa copra la varietà dei gruppi umani e delle situazioni storiche: questo è sicuramente il maggior contributo degli studi di genere, i quali ci rivelano che diverse configurazioni sociali sesso/genere lasciano spazio a pratiche omosessuali, travestimenti rituali o organizzazioni sociali di comportamenti sessuali non riproduttivi.
In passato sono esistite società, come quella della Grecia antica, nelle quali non era la differenza dei sessi ad organizzare la sessualità bensì il modo di gestire il piacere e la morale del controllo di sé. Il dibattito attuale sul matrimonio omosessuale conduce sovente a delle condanne dell’omosessualità che si appoggiano su false evidenze naturaliste: “È contronatura!”, su antropologie perentorie: “Al di fuori della coppia uomo-donna non c’è nulla di buono!”, su psicologie categoriche: “Gli omosessuali sono immaturi!” e poco sull’Evangelo. E non per caso!
Sarebbe sicuramente molto difficile trovarvi qualcosa di esplicito per riprovare moralmente l’omosessualità. Cristo non è venuto per dare dei fondamenti antropologici alle società umane ma per chiamare ciascuno e ciascuna alla conversione, a vivere in armonia con Dio, a rendere più giusto il proprio desiderio e a rinunciare a una certa forma di cupidigia. Perché l’oggetto di un desiderio dovrebbe essere un criterio superiore al processo di umanizzazione che può coinvolgere quel desiderio? Quale posto dare alle nuove rivendicazioni identitarie delle minoranze sessuali nella società e nelle comunità cristiane? Questa domanda imperiosa non si risolverà sicuramente con una artificiale riabilitazione di una vecchia antropologia.
L’intuizione di una natura che cela un costrutto culturale è il fondamento di un’etica dell’emancipazione, molti aspetti della quale possono essere visti come cristiani. Conosciamo tutti le parole del filosofo Blaise Pascal: la cultura, questa seconda natura. Dei tratti considerati evidenti e naturali possono essere il frutto di una progressiva acculturazione, così evidente che la si naturalizza di rimando. Il sociologo Pierre Bourdieu, con il suo concetto di habitus, aveva detto qualcosa di simile: la società produce, nello stesso movimento, l’evidenza e la gerarchia. Se c’è norma, infatti, c’è potere e liberazione.
Negli studi di genere non vediamo certo l’onnipotenza dell’individuo, bensì una piccolezza tutto sommato molto evangelica. Non si indossa un genere come un costume a teatro, secondo l’umore e il capriccio del momento, e anche secondo una filosofa sicuramente a torto molto screditata come Judith Butler, prima di essere soggetti liberi siamo soggetti prodotti da altri.
Nell’evidenza di uno sguardo, attraverso la ripetizione di un gesto, l’incorporazione antica, permanente e ripetuta di un gesto o di una postura, il soggetto è prodotto ancora prima di prenderne coscienza e di scenderci eventualmente a patti. Il fatto stesso che nella nostra lingua esistano espressioni come “maschiaccio” o “uomo effeminato” testimonia della debolezza di un pensiero che si arresta all’evidenza naturale dei sessi. Se noi fossimo veramente solo maschi e solo femmine, non ci sarebbero il femminile e il maschile. Ecco che gli studi di genere ci invitano a riflettere secondo un modello molto più destabilizzante: nessuno si realizza autenticamente nel suo genere, ciascuno e ciascuna resta al di qua del “mascolino” e del “femminino”, dei quali è tutt’altro che facile dare una definizione semplice e definitiva. Siamo tutti e tutte in una performance di genere più o meno cosciente, più o meno alienante e più o meno soddisfacente per noi stessi e per gli altri.
Un approccio di genere permette infatti di comprendere e mettersi al fianco di coloro che soffrono per la loro natura e per rafforzare un rapporto di poteri già dato e che molto spesso non può essere messo in discussione: donne, minoranze sessuali, persone che appartengono alle “soggettività subalterne” e non costituiscono l’unità di misura dei discorsi sulla società. In questo, gli studi di genere e la teologia della liberazione concorderebbero sui loro obiettivi: porsi dalla parte di coloro che non sono qualificati per produrre le regole che li dominano. C’è una evidenza del potere che diventa naturale e permette di squalificare coloro che non vi si conformano. I gruppi religiosi non si trovano forse essi stessi nelle medesime logiche di controllo delle devianze di genere?
Quando un magistero maschile afferma che le donne devono essere tenute lontane dai ministeri, non si neutralizza forse la parola delle prime interessate a parlare apertamente di una vocazione?
Quando si invitano le suore americane della Leadership Conference of Women Religious ad adottare una postura più conforme alla dignità del loro sesso, vale a dire ad essere modeste e a non mettere in discussione le norme pastorali o gli scritti dottrinali prodotti dagli uomini, cosa si dice in filigrana del genere femminile cattolico? In che modo questa situazione ci illumina sull’esercizio dell’autorità del mascolino sacerdotale?
Si potrebbe affermare che l’ambito della società, l’uguaglianza uomo-donna, la lotta contro le discriminazioni di cui sono ancora vittime le minoranze sessuali costituiscono molto meno la posta in gioco della teologia della liberazione dell’ambito sociale dei rapporti socioeconomici Nord-Sud o della lotta contro la precarietà che affligge le nostre società occidentali. A parte che non è sicuro che le logiche di esclusione differiscano veramente, quando talvolta non si accumulano (pensiamo in particolare alle donne dei Paesi in via di sviluppo), è interessante notare che oggi le comunità più avanzate nella pastorale delle minoranze sessuali sono sovente anche quelle più sensibili alle questioni economiche.
Non sviluppano tanto un invito a costituire delle “chiese gay”, quanto dei luoghi “inclusivi” di condivisione. San Mederico [parrocchia cattolica di Parigi n.d.t.] o il tempio della Maison Verte [comunità riformata di Parigi n.d.t.] , che si presenta come “una coalizione di minoritari”, come sicuramente molti luoghi nelle varie regioni, si vogliono aperti tanto alle persone in situazione di marginalità socioeconomica o socioculturale quanto alle minoranze sessuali.
Come preservare l’equilibrio tra il riconoscimento di ciascuno e ciascuna nella sua specificità e sofferenza e il mantenimento di gruppi aperti a tutti e tutte? Come introdurre queste domande nelle nostre comunità?
In una rivista di teologia morale il padre domenicano Laurent Lemoine si domanda se alla fine la paura degli studi di genere non sia un po’ un “petardo bagnato”: “Alcuni presentano i gender studies come una ideologia storicamente tanto pericolosa quanto il marxismo! Affermare questo è giocare alle Cassandre […] Di fatto la galassia del gender propone agli avventurieri un viaggio indefinito fatto di permanenti decostruzioni socioculturali di sé […] un viaggio non privo di scogli ma che non necessariamente porta al naufragio”.
Senza per questo aderire a un beato ottimismo nei confronti degli studi di genere, padre Lemoine si domanda se non potrebbero aiutarci a comprendere come il soggetto parla di se stesso e produce la sua identità, a somiglianza dei personaggi del Vangelo: “Come Zaccheo, la donna adultera, il giovane ricco, il cieco nato sono degli individui dall’identità non compiuta, errante, che si cerca, che ha bisogno di dirsi, di essere parlata a qualcuno, Gesù all’occorrenza, che li aiuta a raggiungere la verità su se stessi, che essi possiedono senza saperlo malgrado le vie senza uscita imboccate fino a quel punto.
Gesù è piuttosto discreto in materia di etica sessuale. Questo è stato sottolineato diverse volte. [La galassia del gender] mette l’accento prima di tutto sulla ricerca della verità […] Pone la ricerca di sé, la ricerca di identità su una tela di fondo molto vasta di cui la sessualità, pur importante, non è che un aspetto, certo non solo un dettaglio, ma un aspetto.
Gesù ha guidato un gruppo minoritario che si è costituito attorno a lui sulla base di una sovversione identitaria dei suoi membri, che hanno abbandonato la famiglia, il loro modo di vivere, i loro punti di riferimento sociali, etici e culturali. La sovversione etica proposta da Gesù conduceva ad affermare nella propria vita questo […]: il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato.”
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Testo originale: Pour une approche chrétienne du genre