Abdellah Taïa. Essere omosessuali in Marocco
Articolo di Anaïs Heluin pubblicato sul sito di Le Monde (Francia) il 7 maggio 2014, liberamente tradotto da Marco Galvagno
Il marocchino Abdellah Taïa è omosessuale; lo dice in ognuno dei suoi romanzi con spunti autobiografici e pone il problema dell’omosessualità nel suo paese. Adattato da uno dei suoi romanzi pubblicato nel 2006 (edizioni Seuil), il suo primo film intitolato L’Armée du Salut non fa eccezione.
Scegliendo di fondere l’omosessualità in una quotidianità complessa, afferma più che mai l’assurdità della repressione dell’omosessualità da parte del governo marocchino.
Dal suo romanzo pubblicato nel 2006 al presente adattamento cinematografico abbiamo la sensazione di un progresso nella percezione del turbamento e dell’ambiguità. È legato all’evoluzione del discorso politico relativo all’omosessualità in Marocco?
Oggi come nel 2006 è impossibile esistere come omosessuali in Marocco. Più in generale, è impossibile esistere come corpi liberi; attraverso i suoi discorsi lo stato islamico esercita una stretta sorveglianza sui comportamenti individuali. Forgia l’opinione collettiva, che poi si sostituisce ad esso nella condanna di tutto ciò che giudica “contro natura”, come l’omosessualità, tra le altre cose.
Questo per dire che la situazione non è peggiorata: era già catastrofica prima. Le cose anzi vanno lievemente migliorando: sulla stampa, soprattutto, si levano molte voci in favore dei gay. E il semplice fatto che il mio film esista prova che le cose possono ancora migliorare. In effetti ho ottenuto l’autorizzazione a filmare sul territorio marocchino, cosa che non era affatto scontata. Inoltre hanno partecipato tecnici e attori marocchini, che mi sono stati preziosi.
Ma bisogna relativizzare: il fatto che la produzione del lungometraggio sia francese ha senza dubbio giocato a mio favore. Resto prudente, dato che non vorrei che L’Armée du Salut venisse utilizzato dal governo come vetrina democratica nei confronti della Francia e degli altri paesi occidentali.
Lei ha presentato L’Armée du Salut anche al festival di Tangeri all’inizio dell’anno. Come è stato accolto?
È difficile dirlo. Sono stato sorpreso di vedere le persone che ridevano. In parte penso che ridessero perché si identificavano con i personaggi sullo schermo. Ho visto anche persone molto imbarazzate: le persone non sono abituate a vedere l’omosessualità affrontata in questo modo.
Di solito opere e discorsi sui gay astraggono dal quotidiano per mostrarli come persone strane, bizzarre, caricaturali. La mia maniera di trattare con l’omosessualità mostrandola come una cosa naturale che non va curata ha destabilizzato le idee delle persone. Nessun dubbio che se il mio protagonista fosse stato effeminato e violentato da mattina a sera ci sarebbe stata meno vergogna. Ma qua ci possiamo fare un’idea precisa sulla natura del personaggio principale.
Più che la parola, questa ambiguità del personaggio principale si esprime con un rapporto principale con gli oggetti.
Il cinema è prima di tutto un lavoro sull’oggetto. Il regista che ammiro di più è il taiwanese Tsai Ming-liang al quale la Cineteca Francese ha recentemente consacrato una retrospettiva. I suoi film vanno oltre: esseri umani semimuti sono mostrati alle prese con gli oggetti della vita quotidiana. Per carità, non oserei mai paragonarmi a lui, ma anche io ho cercato una spiegazione che possa esprimere il mio rapporto spirituale con il cinema e con il mondo.
Sono partito da una realtà marocchina che conosco bene, dato che ho trascorso lì i miei primi 25 anni, e l’ho semplificata al massimo fino ad ottenere una successione di quadri concreti quasi palpabili.
La fede di Abdellah, il suo rapporto con l’omofobia latente l’ho voluta esprimere attraverso i gesti quotidiani, e dunque attraverso il rapporto con gli oggetti. Dalla prima scena ha stabilito un legame tra il mondo materiale e quello spirituale: entrato di nascosto nella camera del fratello maggiore, il protagonista si impregna dell’universo fraterno grazie agli oggetti: le coperte del letto, un cuscino, uno slip.
Toccando questi tessuti ed indumenti entra in contatto con suo fratello, che è per lui l’immagine di Dio. Il suo atteggiamento evoca del resto quello delle donne reali nelle tombe dei santi. La religione non è un discorso appiccicato alla vita, come del resto non lo è nemmeno la sessualità; fanno ambedue parte dell’ordine quotidiano, dell’inconscio.
La scena iniziale del film apre una serie di immagini religiose che prende a prestito tanto dall’islam che dal cristianesimo. Cosa significa per lei questa fusione?
Non metto le religioni in contrapposizione l’una con l’altra. La prima volta che ho incontrato Agnès Godard, l’operatrice capo del mio film, le ho mostrato due capolavori: La nascita della Vergine del pittore spagnolo Francisco de Zurbarán (1598-1664) e il film Black Narcissus (1947) di Michael Powell, che mette in scena cinque suore anglicane inviate sull’Himalaya a creare un convento dove prima sorgeva un bordello.
Anche se sono cristiane, queste opere mi emozionano per il loro trattamento dei colori e il loro rapporto con il mondo. Entrambe sono caratterizzate da una lievissima distanza nei confronti della realtà concreta, il che permette una forma di elevazione.
Ed era importante per me mostrare una spiritualità complessa, che non c’entra nulla con la religione a un solo livello tipica degli integralisti islamici. La battaglia interiore del mio protagonista traduce l’invenzione di una nuova spiritualità della quale si ha un’idea alla fine del film quando dopo un’elissi si ritrova a Ginevra.
Più cupo che mai, cerca rifugio nell’Esercito della Salvezza. Lì condivide con uno sconosciuto un’arancia e una canzone. In questo gesto vedo la prova di un impegno profondo nella vita, che è la forma di spiritualità che mi tocca più nel profondo.
Testo originale: “Mon approche de l’homosexualité passe par son non-traitement”