Utopie in movimento. Riflessioni sull’attivismo Lgbti in Africa orientale
Articolo di Lia Viola pubblicato sulla rivista Zapruder. Storie in movimento n. 33 del gennaio-aprile 2014, pp.148-154
Sfondo in bianco e nero per corpi arcobaleno. Il 15 luglio Eric Lelembe è stato trovato morto a Yaoundé, in Camerun. Il suo corpo, massacrato di botte, era senza più vita, immerso in un mare di sangue. Lelembe era un attivista gay, visibile per scelta e dunque più esposto di altri alla violenza omofoba.
Scriveva in un blog (76crimes.com) e lottava per i diritti umani delle persone Lgbti.
In uno dei suoi articoli più noti (What Traditional African Homosexuality Learned from West) aveva affrontato, intervistando l’antropologo Patrick Awondo la tematica delle influenze occidentali sulla questione omosessuale in Africa.
Ci sono due grossi nodi storici, sostiene l’articolo, segnati dal rapporto Africa/Occidente rispetto alle minoranze sessuali: il primo è l’introduzione per mano europea, durante il periodo coloniale, delle leggi che criminalizzarono l’omosessualità, e il secondo è, in tempi recenti la creazione di gruppi Lgbti che si oppongono alla discriminazione omofobica e transfobica.
Due influenze storicamente distanti ed eticamente agli antipodi ma che delineano, entrambe, percorsi di presunta universalità, dividendo il mondo in bianco e nero e forse interrogandosi poco sulla complessità della realtà umana.
La notizia della morte di Lembembe mi riporta a un giorno in cui, in Africa orientale, venni a sapere che un uomo era stato ucciso per via della sua omosessualità.
Non era la prima volta che sentivo storie di morte, di violenza e sofferenza, eppure quella volta era diverso.
Fu come un richiamo verso l’immersione totale, l’empatia e la lotta. Da allora per dieci, lunghi e insieme brevissimi, mesi sono stata attivista di una parte del movimento Lgbti dell’Africa orientale.
Chi leggerà questo articolo dovrà perdonare la mia reticenza su nomi di luoghi e persone. Da un ufficio di un campus universitario italiano devo avere l’accortezza di salvaguardare le persone che, ancora lì, ogni giorno rischiano la propria vita.
Ci sono tanti Lembembe in Africa ed è dovere del ricercatore custodire dentro di se il segreto della loro identità. La violenza traumatizza chi rimane vivo, osservatore impotente dell’orrore.
Io che ho avuto la fortuna di essere tornata indietro quasi più sana di come sono partita, conservo dentro l’angoscia per coloro che hanno scelto di non andarsene, sicuri che l’utopia sia più forte della paura.
Il campo tra sogni clandestini e corpi visibili.
Arrivai, all’inizio del 2012, nella città apparentemente più omofoba dello stato in cui mi recavo. L’interesse ad approfondire le dinamiche dell’omofobia era nata in me durante una ricerca che avevo condotto a Cape Town e a Johannesburg, tra il 2009 e il 2010 con transessuali e intersessuati e che aveva lasciato molti canali di studio aperti.
In Sud Africa, unico paese africano in cui la legislazione protegge i diritti delle minoranze sessuali, il dibattito sulle questioni Lgbti è molto fiorente e gli attivisti sono in comunicazione con le diverse associazioni del continente.
Queste sono, inoltre collegate con l’associazionismo internazionale e con il movimento dei diritti umani, da cui ricevono protezione e possibilità di accesso alle risorse.
E’ stata questa ampia rete di contatti che ho esplorato con il fine di conoscere le associazioni Lgbti dell’Africa orientale tra cui ho condotto la mia nuova ricerca, e con cui ho militato durante il 2012. Il mio coinvolgimento nell’attivismo Lgbti fu graduale e segnato da paure, dubbi e perplessità etiche.
Eppure diventare militante mi aiutò a rendermi conto che l’unico modo per conoscere un mondo segreto è entrarci dentro e soprattutto, mi insegnò a riflettere ogni giorno sul mio posizionamento.
Fu la violenza a spingermi verso l’attivismo Lgbti: poco dopo il mio arrivo sul campo ci fu un rapido inasprirsi dell’omofobia che condusse alla morte di alcuni omosessuali e che generò una spirale di paura e angoscia.
In una situazione di tale tensione il mio ruolo di ricercatrice esterna al movimento entrava in crisi mentre l’urgenza etica di lottare al fianco dei miei interlocutori prendeva, dentro di me, sempre più piede.
Davanti allo scorrere del sangue e terrorizzati dalle minacce di morte che si diffondevano a macchia d’olio, la piccola associazione, composta da meno di una ventina di attivisti, con cui facevo ricerca, si interrogò a lungo, durante interminabili incontri clandestini, sulle motivazioni che spingevano la comunità musulmana swahili a usare tale violenza verso le persone omosessuali e transessuali.
Ciò che emerse fu che l’omofobia era legata al coming out. Spingere, tramite l’attivismo Lgbti, verso la visibilità aveva disturbato parte della comunità swahili, soprattutto i leader religiosi e aveva provocato ripercussioni difficili da gestire.
La questione della visibilità da sempre considerata alla base dell’attivismo Lgbti globale, poneva localmente delle problematiche nuove e costringeva i soggetti a interrogarsi sulla sua efficacia come strumento di lotta.
Ad uno sguardo antropologico la spirale di violenza generata dal diffondersi del coming out apriva le porte all’analisi del rapporto tra i principi del movimento lgti globale e il contesto di ricerca: una città della costa swahili dell’oceano indiano. Qui la violenza omofoba è scoppiata attorno agli anni novanta, in seguito a una serie di cambiamenti storici che hanno portato la comunità swahili musulmana a radicalizzare il discorso politico attorno a stereotipi identitari e a rappresentare l’omosessualità come il sintomo più evidente della presunta impurità occidentale e del declino portato dalla modernità.
Categorie e immaginari in dialogo
Quando si parla di movimento Lgbti e di diritti umani delle minoranze sessuali si fa riferimento a principi e valori partoriti in Occidente ed esportati su scala globale.
La stessa categorizzazione della diversità di genere e di orientamento sessuale sulla base delle categorie Lgbti è nata da un percorso storico occidentale che ha le sue radici nella rivoluzione sessuale degli anni settanta.
Il movimento Lgbti si è poi diffuso in buona parte del globo, segnando la nascita di nuovi attori sociali e dando vita a nuove idee sula sessualità.
Come nota Evelyn Blackwood le intersezioni tra categorie globali e soggettività locali sono particolarmente complesse e generano spesso immaginari nuovi che cercano una sintesi tra presupposti molto diversi.
Come nella Sumatra occidentale studiata da Blackwood anche nel mio lavoro di campo ho potuto osservare i tentativi di dialogo tra soggettività e principi identitari molto diversi tra loro.
Nella città della costa swahili dove ho fatto ricerca, tradizionalmente i rapporti tra le persone dello stesso sesso vengono polarizzati rigidamente all’interno delle strutture di genere.
Uno dei due patner mette in scena il ruolo femminile, mentre l’altro quello maschile, indipendentemente dal loro sesso di nascita.
Per esempio nel caso dell’omosessualità maschile il partner che performa il genere femminile, che è passivo nell’atto sessuale, viene definito “msenge” o “hanithi” a Zanzibar e shoga nella costa del Kenya, mentre il partner attivo sessualmente e ritenuto più mascolino si chiama “basha” in Kenya e “haji” a Zanzibar.
A questa classificazione locale si è andata sostituendo, o integrando, la visione propria dei movimenti internazionali, di un’identità basata sull’attrazione sessuale che categorizza entrambi i partner come omosessuali, sminuendo così la questione del ruolo di genere assunto all’interno della coppia.
Si è inoltre diffusa, come già accennato, la nuova pratica, alimentata dal fluire globale degli immaginari, del coming out. Il desiderio di visibilità è probabilmente anche una conseguenza dell’esportazione dei principi del movimento Lgbti che vi identificano il punto di partenza per la fine della discriminazione.
Purtroppo la realtà non è così semplice e lineare e, come la triste fine di Lembembe ci mostra, spesso la visibilità ha una doppia faccia.
Infatti da un lato ormai il coming out è divenuto un desiderio diffuso, parte dell’immaginario globale relativo alla questione omosessuale, e in quanto tale desiderabile e auspicabile. Dall’altro tra i musulmani della costa swahili la sessualità non era concepita come qualche cosa di visibile, ma anzi come un segreto da custodire in camera da letto (soprattutto se si parla di sessualità non normalizzata).
Ancora una volta immaginari e desideri opposti, che si incontrano e scontrano, creando ibridi, conflitti e, spesso, ondate di omofobia.
Le persone che più subiscono la violenza sono gli attivisti Lgbti più visibili, eroi immolati sull’altare della lotta per i diritti umani.
Merry, nel suo articolo “Transational Human Rights and Local Activism: Mapping the Middle”, analizza i processi di vernacolarizzazione dei principi del movimento dei diritti umani.
Se è vero che questi principi vengono concepiti in Occidente è anche vero che poi, dal momento in cui vengono esportati in tutto il globo, possono venire reinterpretati in chiave locale. Vi sono degli attori locali, definiti da Merry come “people in the middle”, che fanno da traduttori degli ideali generati dal movimento dei diritti umani, secondo le coordinate culturali locali.
Le associazioni Lgbti africane, con cui ho avuto modo di fare ricerca e di collaborare, possono sicuramente essere considerate delle traduttrici (nel senso di Merry) che cercano di mediare tra istanze globali e la violenza omofoba locale, ben consci che questa si esaspera e diviene pericolosa proprio nel momento in cui la visibilità del movimento Lgbti cresce.
Essere visibili è un rischio più che un lusso, è un carico di responsabilità da saper gestire con cura, consci delle ripercussioni che può generare.
E quando la violenza si esaspera gli attivisti caduti in questa battaglia non fanno altro che lasciarsi dietro il vuoto della mancanza, dell’ingiustizia della morte e della sua brutalità.
Non fanno altro che aumentare i nostri stereotipi su un’Africas omofoba, alimentando inoltre il senso di ingiustizia sociale e di esasperazione dei rapporti umani di una società che ha dovuto uccidere, incapace di trovare la via della convivenza.
Movimenti globali e ricerca sul campo tra partecipazione e rispetto delle realtà locali
Nell’articolo “The primacy of the Etical . Proposition for a Militant Anthropology”, Nancy Scheper Hughes analizza il complesso rapporto tra l’antropologo e i suoi interlocutori focalizzando l’attenzione sulla questione etica.
Secondo la sua analisi, il ricercatore posto davanti a situazioni di violenza, dolore e ingiustizia, deve evitare di tenersi lontano dalla lotta, scegliendo piuttosto di arricchire il campo antropologico di partecipazione e resistenza.
Sicuramente, essendo stata attivista di una piccola associazione Lgbti dell’Africa orientale, alle cui iniziative ho partecipato attivamente condividendo le mie idee e cercando strategie di protezione dalla violenza omofoba, non posso tirarmi da una visione “militante” dell’antropologia e devo riflettere sul fatto di essere, io stessa, stata parte di questa lotta.
Eppure come sostiene Robins in risposta a Sherper-Hughes, “fare la cosa giusta è sempre più complesso di come sembra e il campo di ricerca è modellato da relazioni asimmetriche di potere a cui bisogna prestare attenzione”.
Il movimento dei diritti umani, così come il lavoro di ricerca sul campo e lo stesso associazionismo Lgbti, è intessuto di relazioni di potere che plasmano le realtà locali e generano complessi meccanismi identitari.
Quando si parla di minoranze sessuali bisogna tenere conto che il movimento Lgbti ha definito tali tutti i soggetti con una visione di genere e di orientamento sessuale non eteronormata.
Ma facendo ciò ha definito come marginali (minoranze sessuali per l’appunto) una serie di soggetti che localmente avevano trovato altre (più o meno vivibili e condivisibili) strade di espressione.
Dal momento in cui i soggetti vengono nominati prendono in qualche modo vita ed è ormai compito di chiunque si muova in questo campo l’assumere coscienza della realtà sociale.
I soggetti Lgbti sono stati definiti e hanno iniziato a essere perseguitati apertamente. Tornare indietro è impossibile, ma rimane ancora lo spazio per riflettere criticamente su tali costruzioni identitarie.
Come ci ricorda Merry il lavoro dei traduttori locali dei diritti umani è fortemente influenzato da coloro che li finanziano (che nel caso in questione sono le grandi associazioni Lgbti con sede in Nord America o in Europa) e dunque le logiche di potere agiscono su più livelli.
Categorizzarsi all’interno della sigla Lgbti garantisce l’accesso alle risorse economiche che, in un sistema di povertà ed esclusione, sono basilari per la stessa sopravvivenza.
I finanziamenti arrivano dalle grandi associazioni internazionali che li erogano anche in base all’aderenza ai loro principi etici ed ideologici, che sono spesso molto lontani da quelli delle pratiche culturali locali.
L’importanza data, dal movimento globale alla divisione secondo la sigla Lgbti, al coming out e alla suddivisione in sesso genere e sessualità si confronta, nel caso della città in cui ho fatto la ricerca, con una percezione locale secondo cui il genere è legato a filo doppio con la sessualità, in cui l’attività sessuale deve restare invisibile e in cui le categorie non coincidono, come già detto con la stessa sigla Lgbti.
Eppure far proprio l’immaginario globale dei diritti umani è per le associazioni africane, un modo per trovare riconoscimento su scala internazionale e dunque mirare all’emancipazione.
Ma contemporaneamente questa adesione ai principi del movimento globale non fa che rafforzare gli stereotipi locali che vedono l’omosessualità e (il transessualismo) come qualcosa di alieno alla cultura africana, importato ed imposto dagli occidentali.
E’ un cane che si morde la coda: l’omofobia e la transfobia spingono le minoranze sessuali ad avvicinarsi sempre di più ai movimenti globali, i rigidi criteri di selezione di questi spingono gli attivisti Lgbti locali a imparare e far proprie le categorie e i presupposti del movimento Lgbti globale sperando che questo servirà ad avere un finanziamento (e dunque essere visibili e riconosciuti internazionalmente).
A sua volta questa occidentalizzazione degli attivisti Lgbti li rende sempre più alieni agli occhi critici della comunità locale rinforzando gli stereotipi identitari dell’Africa postcoloniale.
Dunque per quanto l’apporto del movimento globale sia oggi fondamentale nel supportare la lotta delle associazioni Lgbti africane, dall’altra parte questo ha, nel tempo generato meccanismi identitari che hanno a loro volta alimentato il crescere della violenza omofoba e la radicalizzazione delle opposizioni ideologiche.
In questo nuovo panorama “fare la cosa giusta” è, anche durante una ricerca antropologica, difficile, complicato e in continua contraddizione.
Bisogna saper usare gli strumenti critici che ci sono dati per analizzare con cura i meccanismi che si muovono sotto la superficie della propaganda universalistica dei diritti umani. Per quanto l’impulso ci spinga a combattere e fare sentire la nostra voce per la difesa dei diritti delle minoranze sessuali, bisogna come sostiene Epprecht “aver cura di rispettare le realtà locali, ascoltare e conoscere bene prima di intervenire, in modo che qualsiasi azione sia fatta nel rispetto della diversità culturale”.
Infatti se da un lato è fondamentale in una ricerca del genere, entrare in stretto contatto con le associazioni diventandone magari attivista, dall’altro bisogna sempre ricordare i meccanismi di potere e gli immaginari che si muovono al di sotto della superficie.
L’avere portato avanti una ricerca sull’omofobia tra i washanili, militando al fianco di una neonata associazione Lgbti, perseguitata e in cerca di supporto internazionale mi ha spinta a riflettere sul mio posizionamento.
La mia sola presenza generava una serie di immaginari e aspettative che mi portavano a ridefinire continuamente il mio ruolo e la mia partecipazione nell’attivismo.
Il mio essere una dottoranda europea alimentava meccanismi di potere che mi spingevano a cercare vie di partecipazione basate, il più possibile, sull’ascolto e che mi conducevano a interrogarmi sulle mie categorie di analisi e sul mio modello di attivismo.
A tutto questo si aggiungeva il carico emotivo e l’impulso verso la lotta che erano in me, generati dal continuo confronto con la violenza omofoba. Quando, sul campo, i legami si fortificano è difficile mantenere il paziente e distaccato sguardo dall’esterno.
Davanti al rischio di veder morire, uno ad uno, i propri più cari amici la spinta verso l’attivismo è un imperativo morale nonché, forse, l’unica possibilità di sopravvivenza emotiva nella bufera della violenza incontrollata.
Eppure vi sono delle scelte da fare e ogni azione avrà sempre delle conseguenze. Militare al fianco di un’associazione scatena l’invidia delle altre, private del valore simbolico dell’attivista europea, nonché inasprisce l’odio della comunità locale che riconduce alla ricercatrice bianca le responsabilità della presunta occidentalizzazione del movimento Lgbti.
Eppure, allo stesso tempo, essere europei apre dei canali di dialogo, delle strategie di accesso alle risorse e di salvaguardia delle vite che altrimenti, avrebbero tempi molto più lunghi.
In questo panorama complesso ogni azione deve essere pensata con cura e a ogni parola deve essere dato il giusto peso, cercando un equilibrio tra la partecipazione e l’ascolto; nella speranza che un giorno il movimento Lgbti africano non abbia più bisogno di eroi e augurandoci di imparare a perdonare tutta questa violenza, ma anche a non dimenticare chi ha perso la vita lungo questa tortuosa via, sicuri che l’utopia possa essere un sogno condiviso, sempre e comunque più forte della paura.