Qualcuno ci renda l’anima. I limiti della sottocultura omosessuale
Dialogo di Daniela Tuscano con Mattia Morretta*
“Che colpa abbiamo noi – Limiti della sottocultura omosessuale” (Gruppo Editoriale Viator, Milano, 2013, pp.345) è il saggio con cui Mattia Morretta, psichiatra-psicoterapeuta e sessuologo, ha voluto stimolare il dibattito all’interno della comunità omosessuale, e non solo, perché oggi «la libertà concessa ai gay è fatta di un miscuglio di banalizzazione e riduzionismo: li si lascia essere quel che si è sempre pensato che fossero, a patto di farne una specie di video-gioco per il tempo libero, senza rilevanza per l’interesse generale». Daniela Tuscano, insegnante e scrittrice, ha voluto approfondire con l’autore alcuni dei temi, estremamente attuali, che attraversano le pagine del suo saggio. Ma lasciamo a loro la parola.
Sin dalle prime pagine si capisce di avere a che fare con un testo di portata generale, che si rivolge in maniera più diretta agli omosessuali ma parla a tutti indistintamente, con l’ambizione di esporre un vero e proprio sistema di pensiero.
Ricordo di esser stato impressionato a vent’anni dalla lettura de Il pozzo della solitudine, un romanzo epocale del 1928 (pubblicato in Italia nel 1946) nel quale Marguerite Radclyffe Hall non si limitava a porre apertamente la società di fronte alla situazione dolorosa degli omosessuali, filtrata attraverso la vicenda della protagonista aristocratica e saffica, ma arrivava a indicare una strada di progresso tracciata da figure guida di omosessuali mentalmente e moralmente “sani”.
Per l’autrice infatti gli studiosi non possono sapere tutta la verità, dato che conoscono soltanto i nevrastenici o i più provati dalla vita e non gli “invertiti normali”: “I dottori non possono sperare di rendere chiare agli altri le sofferenze di milioni di noi, solamente uno di noi lo potrebbe fare.
Ci vorrà molto coraggio, ma si farà, poiché tutte le cose debbono tendere all’estremo bene, e nulla si perde e nulla si distrugge”. Orbene, omosessuali normali, tra i quali mi annovero, sono una costante nei secoli, prove viventi della naturalezza della propensione e del peso determinante della personalità in ogni condizione di svantaggio. Per inciso, in quanto psichiatra sono propenso a tutelare la salute, soprattutto mentale, perché “genio e sregolatezza” valgono in positivo solo per gli artisti.
Denunci con forza, nel tuo testo, la mancanza di “voci autorevoli” al riguardo…
Nella mia tesi di laurea in medicina nei primi anni Ottanta parlavo già con chiarezza della necessità di approntare una operazione di rilevanza intellettuale e umana, l’ascesa ad un linguaggio capace di fondare soggetti omosessuali parlanti-da-sé in maniera qualificata, per scardinare l’assunto della incompatibilità tra ruolo di Autorità (con i suoi rapporti col Padre Simbolico) e l’omosessualità mancante per definizione dello statuto di Soggettività. Un prender la parola con autorevolezza e cognizione di causa puntando a farsi ascoltare, dimostrando competenza anche scientifica, tutt’altra cosa dalla testimonianza individuale o dei periti di parte con bandierina arcobaleno.
Ciò implica andare oltre la posizione di una minoranza che punta a raggiungere obiettivi categoriali per mirare a rivolgersi alla maggioranza coinvolgendola culturalmente, poiché è interesse di tutti saperne di più, comprendere meglio le problematiche rubricate alla voce “omosessualità” (comportamenti, orientamenti, identificazioni, identità).
Eppure attualmente non mancano luoghi aggregativi e spazi di dibattito, dove sembra possa sorgere un fattivo confronto tra voci diverse. O dovremmo dire dissonanti?
Nell’Italia dei circoli socio-commerciali e dei partiti a favore manca una strategia politica nel senso migliore del termine, che agisca su più fronti e a vari livelli sul lungo periodo, mettendo in rete le risorse per produrre elaborazioni concettuali all’altezza della complessità attuale.
Il mio libro tenta di produrre e promuovere un sapere che interessi anche gli altri mostrando i punti di intersezione perché la sessualità è un continuum antropologico. In effetti, descrivendo in modo puntuale una condizione particolare si finisce per illuminare la fenomenologia umana, quindi aspetti generali ed universali nei quali tutti possono riconoscersi.
Ti scagli anche contro l’enfasi data dalla società odierna sui “gusti” sessuali, a scapito della totalità della persona. In effetti scrivi che preferiresti il termine persona gay che non gay tout-court.
Se, come ha scritto John Boswell, gay indica un riconoscimento e omosessuale un destino, ho scelto sin da ragazzo e scelgo tuttora il secondo vocabolo, perché la libertà si coniuga solo col destino. La definizione che prediligo è “persona omosessuale”, laddove omosessuale è aggettivo qualificativo, qualifica e non specializzazione.
Se insisto sull’identità è per arrivare infine a prescinderne a ragion veduta, come cercare il senso della vita serve a poterne fare a meno.
Oggi trionfa l’incomunicabilità e la separazione per “gusti” è imposta agli uni e agli altri, ciascuno è confinato nel proprio mondo o ambiente, il che rende impossibile scambiare conoscenze e fare esperienza di normalità.
Per questo ho posto l’accento su una reciproca educazione civica, che va costruita nel corso di molteplici generazioni dedicando un pensiero al futuro. Per altro, la formula “simili con simili” vale prescindendo dall’inclinazione sessuale perché le principali affinità e attrazioni concernono le tipologie caratteriali e di personalità.
I gusti e le pratiche sessuali dividono, mentre le vicissitudini esistenziali ed affettive uniscono creando convergenze (per esempio, immedesimandosi nelle storie amorose e nel dolore esistenziale). Ho voluto così fornire un’occasione di approfondimento per colleghi medici e psicologi (eterosessuali), i quali sono a digiuno da decenni riguardo alle difficoltà reali degli omosessuali e non hanno più incentivi ad occuparsi della specificità per apparente scomparsa del “problema”. L’omosessualità di fatto è conosciuta per sentito dire, persino dagli specialisti della psiche.
I riscontri più positivi li ho avuti a dire il vero dagli “altri”, da coloro che interagiscono o sono accanto a omobisessuali e vorrebbero capire di più. Fin dal secolo scorso auspico la costituzione di organismi formali di esperti omosessuali che possano fungere da interlocutori per Istituzioni ed Enti professionali. Di recente si sono aperti spazi per contributi di terapeuti e intellettuali omosessuali, posti liberi che non si sa da chi far occupare perché sono in pochissimi a possedere un effettivo patrimonio conoscitivo sull’omosessualità.
Nel libro non vengono risparmiate contestazioni a nessuno, etero e omosessuali, progressisti e conservatori, laici e cattolici, le posizioni fortemente critiche nei confronti dei “gay” non rischiano di prestarsi a manipolazioni o avvalorare pregiudizi negativi?
Nel preparare la presentazione del libro l’anno scorso avevo immaginato un cartello con la dicitura “Avvertenze per il lettore: Materiale per adulti, vietato ai minori”, aggiungendo una frase pronunciata da Oscar Wilde durante il primo processo: “Non mi interessa il parere delle persone comuni e non mi sento responsabile della loro ignoranza”. Sarcasmo a parte, quando si scrive per comunicare il proprio pensiero, non volendo compiacere nessuno, si finisce per dispiacere un po’ a tutti ed essere facilmente fraintesi.
Il mio è un saggio paradossale (contro l’opinione corrente), scritto da un uomo che ha inventato la sua strada e non ha per scopo la divulgazione o la comprensione a buon mercato, concepito lontano dall’attualità e dalla cronaca, se mai proiettato nel passato e nell’avvenire. Un voce levata nel deserto che chiama alla consapevolezza e, lungi dal dare la linea, invita a formare un pensiero autonomo sulla sessualità, decostruendo per poter (ri)costruire con cura.
Curioso che la moralizzazione sia invocata per tutto tranne che per il retro-mondo gay, quasi fosse il migliore possibile. I protagonisti del movimento gay operano un plateale boicottaggio di altre posizioni o visioni, infatti sul mio libro ha aleggiato un silenzio aggressivo, ben peggiore della critica, di solito assente a favore della polemica. C’è chi non intende, chi rifiuta per partito preso, chi si annoia per lo sforzo richiesto di seguire il ragionamento.
Leggendo con attenzione si capisce che non ho alcun pregiudizio, se mai miro a formulare un giudizio obiettivo sugli atti (non ciò che si è, bensì ciò che si fa). Il contenuto è indubbiamente uno schiaffo morale assestato con una lingua a tratti infuocata per attivare difese profonde, poiché per i diretti interessati si tratta di dare il meglio per proteggere l’identità e soprattutto la qualità della vita in quanto esseri umani e persone. Per un male secolare occorre una terapia radicale e non una blanda pozione ideologica con diritti civili inclusi.
Da qui il ricorso alla censura di certe condotte e al sentimento di colpa come mezzi per promuovere assunzione di responsabilità, perché criticare con passione è una forma di generosità.
Probabilmente sentir ancora parlare di colpa infastidisce, forse occorrerebbe ricorrere all’espressione “mancanza” o “peccato”, da molti però ormai confinate in ambiti strettamente religiosi. Credo però che, alla base di queste preventive auto-assoluzioni, che non risparmiano nessuno (né gay, né etero, né bisex ecc.), vi sia un totale cambiamento – o stravolgimento – antropologico, proprio delle società liquide di baumanniana memoria: in realtà, ciò che non si vuol fare è crescere e, quindi, assumersi precise responsabilità. In ogni scelta di vita.
Scegliendo il titolo Che colpa abbiamo noi avevo in mente una vignetta di Mafalda, il noto personaggio di Quino: “Che strano quando uno vede la gente al mare, sembra che nessuno abbia colpa di niente”. Tutti si auto-assolvono fingendo di non dover rispondere di nulla contando sulla connivenza o complicità altrui. Certo, non ignoro che la stragrande maggioranza di omosessuali agisce come i bambini che non hanno conosciuto l’affetto nell’ambito parentale e sociale, infatti chi è stato perennemente rimproverato e sotto giudizio resta insicuro e incapace di agire in maniera volontaria per il bene, facendo quello che è sbagliato pur desiderando comportarsi con correttezza.
La mia è un provocazione etica, un faticoso e fastidioso esame di coscienza nel quale si pongono domande stringenti e inevitabili (gli interrogativi giusti sono più importanti delle risposte). Del resto, fare la morale è far intendere significati e messaggi, la morale della favola è il succo del racconto, ciò che conta capire. Dice Milan Kundera in Amori ridicoli: “Se l’uomo fosse responsabile solo di ciò di cui è cosciente…
L’uomo risponde della propria ignoranza”. Nel nostro caso, poi, le colpe dei padri ricadono sui figli: i nodi che non hanno affrontato gli antenati diventano eredità conflittuale e gravosa sui discendenti, in termini individuali e collettivi (come il debito pubblico). Offrendomi quale “padre” che giudica ho tentato di dare un’opportunità di maturazione ai più ricettivi, perché oggi più che mai è necessario diventare pienamente adulti e non contare su tutori esterni, genitori compresi.
Nel tuo saggio colpisce che l’approccio serio e scientifico si accompagni a sorprendenti concessioni alla cultura popolare, tra le citazioni colte fanno capolino quelle tratte dalla musica leggera quasi senza discontinuità.
Per me il Privato è sempre stato Politico, posso affermare di aver praticato soprattutto la politica esistenziale, nelle e delle relazioni interpersonali, il civismo psicosessuale e amoroso. Fin dai gruppi di autocoscienza degli anni Settanta, caratterizzati da una forte politicizzazione, ho avuto interesse per la quotidianità dei sentimenti e la dimensione ordinaria del vivere, nella quale la musica popolare svolge un ruolo importante, anzi è una sorta di cartina di tornasole dello spirito dei tempi.
Pur identificandomi come “intellettuale” percepivo le contraddizioni tra principi teorici o visione dall’alto e comportamenti concreti, in qualche modo tra il dover essere e l’essere. Infatti, avevo scelto la denominazione dissacratoria di “Collettivo Patty Pravo” per ciò che restava nel 1980 del serioso “Collettivo di liberazione sessuale”, dopo aver letto una frase di Nicoletta Strambelli che avevo fatta mia: organizzare una spedizione per esplorare il banale.
Del resto, la canzonetta è una forma di poesia in versione minore, alla portata di tutti, con corredo di autori, strofe, rime, parole accompagnate da melodie, un canone fin dall’antichità, e in italiano a differenza dell’inglese il testo conta molto.
Un artista pop ha dichiarato: “Sono consapevole che la canzone è considerata la periferia dell’arte, eppure le canzoni hanno fatto l’amore, la rivoluzione…”. Più semplicemente, hanno svelato il sentire comune (e segreto) più di tante dotte trattazioni.
Al di là dello studio e della lettura, sovente ho trovato riscontro più immediato e veritiero nelle emozioni trasmesse da motivi “cantabili”, i cui testi sembravano poter corrispondere a mie personali esperienze e vissuti. Per questo Renato Zero, icona omosessuale che ha attraversato decenni determinanti per la trasformazione della provinciale società italiana, è stato un riferimento anche per me, a dispetto dei militanti che frequentavo e lo snobbavano o sprezzavano. Più in generale potevo specchiarmi nel linguaggio e nelle maschere di alcuni personaggi, i quali fungevano da compagni di viaggio e talora indicavano una strada comune (voglio ricordare Giuni Russo e Ivan Cattaneo).
Esiste sempre una colonna sonora mentre viviamo e i giovani anelano a sogni, miti, eroi sul grande schermo del mondo. Nel capitolo dedicato alla gioventù omosessuale, in origine le frasi tratte da Figli della guerra erano seguite dalla seguente didascalia sul cantautore romano: “angelo custode per migliaia di giovani omosessuali nell’ultimo quarto del secolo scorso, una figura di artista popolare che non è stata sostituita e non ha avuto epigoni”.
Gli attivisti gay saranno sicuramente balzati sulla sedia nel leggere il nome di Zero, e non di altri, in un saggio rigoroso e “militante” (nel senso migliore del termine) come il tuo.
Qui non è in gioco l’essere fan di un cantante, che può piacere, dispiacere, non piacere più, e meno ancora la valorizzazione dell’individuo in sé, le cui pecche e mancanze sono sotto gli occhi di tutti, bensì il significato di una ritualizzazione pubblica e l’incidenza sull’immaginario. In questo senso negli anni scorsi Zero e Busi, in ambiti diversi, sono state le uniche figure dotate di spessore sociale che abbiano imposto a livello di massa un riconoscimento del valore intrinseco alla connotazione omosessuale, implicita o esplicita. I contenuti inconsci possiedono difatti una autonomia che consente la loro personificazione e incarnazione, in positivo e in negativo (dèi e demoni).
Quindi ho apprezzato la tua ultima pubblicazione dedicata a Zero [Chiedi di lui di Daniela Tuscano e Cristian Porcino, ed. Lulu, n.d.A.], nella quale viene delineata la parabola di una carriera artistica sullo sfondo del momento storico e le quinte dei fenomeni di psicologia collettiva, perché sul palco va in scena la drammatizzazione delle emozioni esistenziali. Non per nulla André Gide ne I sotterranei del Vaticano afferma che “l’arte del romanziere merita fede, mentre talvolta gli avvenimenti reali comportano diffidenza”.
Le parole più dure le usi a proposito dell’Ambiente Gay, soprattutto i locali commerciali. Eppure secondo gli esponenti del Movimento sono gli unici contesti aggregativi connotati con chiarezza e quindi in grado di favorire identificazione, tanto da vedervi un mezzo di penetrazione sociale nel territorio, di cui si avverte la mancanza, per esempio, nel Sud, c’è chi si spinge a considerarli addirittura utili per la diffusione di informazioni sull’Hiv.
Ogni volta che sento parlare di comunità, stile di vita o scena gay in Italia, con tanto di colori, effetti speciali, sorrisi per i fotografi, penso ad una poesia di Umberto Saba: Quante rose a nascondere un abisso. Chi ha frequentato o frequenta gli esercizi commerciali per la categoria, concentrati in alcune grandi città e di due o tre tipologie al massimo (tutte variazioni sul tema dell’incontro sessuale), sa per esperienza diretta quanta solitudine, freddezza, simulazione, maleducazione vi alberghino, vere forche caudine del collettivismo impersonale che impongono il giogo della mortificazione alla naturale tensione a conoscersi e socializzare l’identità.
Dopo un breve periodo iniziale in cui hanno costituito una novità per il nostro Paese, che prevedeva solo boschetti, fiumi, vespasiani, hanno preso una direzione del tutto anomala che non giustifica l’appartenenza e l’approvazione sociopolitica considerata oramai “normale”; basterebbe valutare l’assenza di sviluppi positivi in termini di dinamica comunitaria per gli omosessuali e di riconoscimento da parte del resto della società (non fosse che per le quote pubblicitarie). L’auto-segregazione e l’isolamento sono addirittura peggiorati.
Solo la mancanza di alternative e la rassegnazione spingono a servirsene, possibilmente in dosi ridotte o per brevi periodi. Gulag e per giunta a pagamento da cui un numero crescente di persone ha cercato scampo con il fai da te della Rete Internet, finendo per lo più dalla padella nella brace. Amici, parenti, compagni di partito non possono neppure immaginare quale atmosfera si respiri in certi “postacci”, peggiori bar di Caracas senza alcun brivido fashion.
Scrivi pure: “…tutto il gran darsi da fare dell’Arcigay non ha formato neanche nuove figure politicamente rilevanti e significative”. Un’accusa grave…
Nel sito web Omonomia avevo chiamato la sezione dedicata agli ambienti gay “Camere ardenti”, giocando sull’equivoco tra dark room e camera mortuaria, prime vittime il corpo e la sessualità. La citazione di apertura, estrapolata ancora una volta da un brano di Zero (Cercami), calzava a pennello: “Così poco abili anche noi / a non dubitare mai / di una libertà indecente”. I gestori di club gay, sorta di protettorato politico tutto italiano, potranno avere un po’ più di credibilità quando dimostreranno di favorire occasioni di svago, convivialità e cultura, specie durante il giorno, e non solo notti brave, serate danzanti e mosca cieca. L’estone Emil Tode vent’anni fa in Terra di confine a proposito di quei posti commentava: “di tanto in tanto mi diverte osservare quella carne infelice che attende nei bar la sua redenzione” e concludeva con amarezza: “Tutt’intorno la carne è pronta… ma lo spirito non c’è da nessuna parte”.
Allontanarsi periodicamente da luoghi frequentati a lungo è un fattore di igiene fisica e mentale, visto che la consuetudine annulla l’obiettività. Inoltre, vi si apprende un modo innaturale e manipolatorio di vivere l’omosessualità che si imprime nelle emozioni e determina dipendenza. In particolare sono gli adolescenti e i giovani a subire il peggior trattamento, a vedersi trascurati e imboniti da chi si fa vanto di soddisfare le loro esigenze con appositi “servizi”. Sicché, legioni di ragazzi si ritrovano abbandonati a se stessi nella giungla delle Chatline, laureati honoris causa servi del Server, secondo la definizione di Busi.
Ma le campagne di sensibilizzazione riguardo all’Aids che si attuerebbero nei locali?
È una materia di cui mi occupo in concreto da trent’anni e preferisco soprassedere, perché certe affermazioni circa il ruolo dei locali nell’informazione sanitaria non meritano neppure di essere commentate. Basti dire che nella scorsa primavera ONG di settore e circuiti commerciali gay hanno pubblicizzato come grande novità un’iniziativa che proponeva una specie di fioretto per bambini: un mese intero di sesso sicuro, per poi andare a fare il test di controllo!!
Sì, silenzio è sempre uguale a malattia e morte, ma non è più ammesso disturbare il clima apparente di festa e i manovratori della barchetta gay. Nonostante i dati epidemiologici parlino chiaro e un giro negli Ambulatori di venerologia e infettivologia raccontino una realtà di feriti e militi ignoti nella guerra continua del sesso a rischio. Pertanto, sugli impostori di turno non esito a puntare l’indice con i versi di Isaia: “Maledetto chi Bene il Male / e Male il Bene chiama / Chi la Tenebra sulla Luce / E sulla Luce la Tenebra” (5, 20).
Il tuo atteggiamento politicamente scorretto appare più evidente sul tema delle unioni o matrimoni gay, benché la schiera dei favorevoli sembri compattarsi e apparirebbe logico far fronte comune.
Per gli omosessuali italiani sesso e coppia sono gli unici piatti nel menù privato e politico, vaghi accenni retorici alla solidarietà si odono talora nei gruppi d’ispirazione religiosa. Non si riesce a entrare nel merito dei bisogni affettivi e relazionali delle persone omosessuali, perché da anni è diventato obbligatorio condensare nell’unione a due il massimo delle aspirazioni individuali e della realizzazione di fronte alla collettività, un clamoroso malinteso concettuale e un premio di consolazione in termini sociologici.
Mi colpisce che pure i credenti riducano gli affetti fondamentali al matrimonio e al nucleo famigliare, identificando quali “strade dell’amore” solo quelle che vedono legati due individui, mentre sarebbe logico valorizzare senza riserve anzitutto l’amicizia e i legami interpersonale scevri di interessi di comodo o di potere.
Per mia fortuna appartengo ad una generazione che ha potuto contare sulla visione aerea di Michel Foucault: “L’omosessualità è un’occasione storica per riaprire virtualità relazionali e affettive, non tanto per le qualità intrinseche dell’omosessuale, ma perché la sua posizione, le linee diagonali che egli può tracciare nel tessuto sociale consentono a queste virtualità di venire alla luce”.
Ma una proposta del genere oggi rischierebbe di venir equivocata, parrebbe ai più confermare la tanto vituperata “promiscuità” omosessuale. Tutto perché non si compie mai il passo successivo, non si volta mai pagina per leggere come si conclude il pensiero. D’altro lato, il matrimonio ti appare come una conquista ideologica più che come effettiva esigenza, o sbaglio?
I rapporti di coppia, monogamica, fissa, chiusa o aperta, e via dicendo ovvietà, non sono mai stati e non saranno mai esaustivi della potenzialità affettiva, non hanno alcuna esclusiva sui sentimenti e sovente hanno poco a che fare con l’amore, anche quello con la a minuscola. Un tempo era chiaro che il matrimonio fosse per interesse e convenienza, mentre per amare e desiderare il piacere si apriva il vasto campo delle interazioni non istituzionali.
Purtroppo, la democrazia sembra ridursi a scegliere tra opzioni preconfezionate, esprimendo pareri sui temi del giorno. Il politicamente corretto proclama dogmi che soffocano dubbi e interrogativi, rumori e chiasso prendono il posto dell’approfondimento, senza accorgersi che i concetti mistificati confondono e generano ulteriore pregiudizio, nonché reazioni opposte a quelle attese.
Soltanto i superficiali possono sostenere che la “famiglia” abbia o addirittura debba avere una natura puramente sentimentale, deducendone la validità universale a prescindere dal genere sessuale e da qualsivoglia finalità superiore. Al di là della seriosità ufficiale, si nota che il motivo “oggi si avvera il sogno e siamo sposi” è quasi argomento da cronaca rosa, con una evidente strizzatina d’occhi al femminile materno. Rammento una canzoncina popolare di tanti anni fa che rovesciava la medaglia: “La mia mamma vuol che sposi / ma sposarmi non mi va”.
In tale logica la coppia, il compagno e il matrimonio sono espressione non tanto di esigenze primarie, quanto del bisogno disperato di ottenere almeno la parvenza di rispettabilità tra gente per bene, in altri termini una forma di conformismo. Infatti la stessa pubblicità di parte chiede il diritto di sposarsi tra gay “per stare meglio”, il che sottintende a paragone del peggio in cui di norma si vive e ci si accoppia, perciò per migliorare lo status passando da poveri sessuali a quasi benestanti, in analogia con coloro che partono dal basso nella scala sociale e tentano di salire di qualche gradino.
Pasolini, descrivendo in Petrolio il modello di famiglia laica emancipata dalla Chiesa Cattolica degli anni Settanta, rilevava che l’unirsi in matrimonio aveva cambiato motivazione e scopo, poiché serviva “per raggiungere, ed esprimere socialmente, il benessere. Le sue osservazioni circa i giovani eterosessuali potrebbero essere applicate ai gay contemporanei: “L’ostentazione di tutti questi amori che legano le coppie – amori fatali e manifestamente carnali, come la permissività consente, anzi impone – rivela chiaramente che si tratta di rapporti profondamente insinceri” (Appunto 71 v).
C’è da chiedersi allora chi nel contesto omosessuale abbia a cuore il cuore dell’Uomo, la sua tensione ad affezionarsi al prossimo, alla fratellanza e all’immedesimazione volontaria, all’Amore che ha in se stesso il fine, non mira al possesso e va oltre la stessa corporeità, il voler bene in cui si effonde l’Anima?! Amare è un dono straordinario, tuttavia nessun essere andrebbe assolutizzato a scapito degli altri.
Scrive Wilde nella novella L’Amico devoto: “L’amore sarà anche una cosa bellissima, ma l’amicizia è molto più preziosa”. Aggiungo io che l’amore può forse farci sentire più vivi, ma è l’amicizia a farci sentire umani.
Mattia Morretta, Che colpa abbiamo noi. Limiti della sottocultura omosessuale, Gruppo editoriale Viator, Milano, 2013
* Mattia Morretta è psichiatra e sessuologo, impegnato sin dalla fine degli anni Settanta nell’analisi della condizione omosessuale, ha collaborato con la rivista Babilonia ed è stato cofondatore della prima associazione italiana di volontariato sulla problematica Aids (ASA di Milano). Nel 2013 ha pubblicato con l’editore Viator “Che colpa abbiamo noi – Limiti della sottocultura omosessuale” e nel 2016 “Tracce vive – Restauri di vite diverse”. Una sua ampia raccolta di articoli e saggi è disponibile sul sito web http://www.mattiamorretta.it/