Quale accoglienza per le persone omosessuali nella chiesa cattolica? Parliamone a Roma
Intervista di Silvia Lanzi a Gianni Geraci
Si è sempre parlato di una pastorale omosessuale intesa come qualcosa di calata dall’alto, quasi subita.
Ne parliamo con Gianni Geraci, portavoce della conferenza internazionale “Le strade dell’Amore” per una pastorale con le persone omosessuali e transessuali” che si terrà a Roma il 3 ottobre 2014.
Nelle tue riflessioni affermi che la Conferenza “Le strade dell’Amore” servirà a “delineare dei percorsi concreti da indicare alle comunità ecclesiali e alle persone omosessuali per incontrarsi e per scoprire insieme il senso che l’annuncio evangelico può avere per intraprendere un cammino comune”. Una rivoluzione?
Secondo me non si parla quasi mai di “pastorale omosessuale”. Se si prova a fare una statistica degli interventi in cui gli esponenti del magistero (Vescovi e Santa Sede) parlano di omosessualità, nel novanta per cento dei casi lo fanno per condannare qualcosa: il riconoscimento delle coppie omosessuali piuttosto che i progetti di educazione affettiva in cui si parla di omosessualità, le leggi che difendono omosessuali e transessuali dalla violenza omofoba piuttosto i matrimoni tra persone dello stesso sesso, l’affido alle coppie omosessuali piuttosto che i vari tentativi fatti a livello internazionale di depenalizzare i rapporti tra persone dello stesso sesso.
Ci sono poi diversi interventi in cui si denunciano immaginari complotti di non meglio identificate lobby gay (denunce che ricordano in maniera preoccupante i famigerati articoli sui Protocolli dei Savi di Sion con cui gli autori antisemiti hanno coltivato, in Europa, l’odio verso gli ebrei) o ci si imbarca in improbabili discorsi che collegano una non meglio identificata “teoria del gender” con l’origine dell’omosessualità e con tutte i flagelli che affliggono l’umanità (come non ricordare il messaggio con cui Benedetto XVI, in occasione della giornata internazionale della Pace del 2013, arrivava a parlare dei progetti di riconoscimento delle unioni omosessuali come di una minaccia alla pace).
Pochi sono gli interventi in cui si ricorda che le persone omosessuali vanno comunque accolte e che Dio ama anche loro (tra queste spiccano senz’altro le interviste che papa Francesco ha concesso nella seconda metà dello scorso anno).
Pochissimi sono infine quelli in cui si parla di “pastorale omosessuale”: sono andato a vedere tutti i testi che ho conservato e dopo aver fatto una ricerca sommaria, ne ho trovati meno di dieci in quasi vent’anni.
Diciamocelo quindi con chiarezza: nella chiesa cattolica la pastorale verso le persone omosessuali è stato, negli ultimi anni, una questione che stava a cuore solo agli omosessuali credenti che vogliono prendere sul serio la loro esperienza di fede e a pochissimi pastori che si sono dovuti confrontare in prima persona con le speranze e le difficoltà che queste persone trovavano finalmente il coraggio di condividere all’interno della chiesa.
Ecco perché la conferenza teologica che si svolgerà a Roma il prossimo 3 ottobre parla di pastorale “con” le persone omosessuali: perché quasi tutte le volte in cui la chiesa ha trovato il coraggio di chiedersi in che modo può aiutare le persone omosessuali a vivere fino in fondo il messaggio evangelico, lo ha fatto perché le persone omosessuali hanno detto con chiarezza: “Siamo omosessuali, siamo e restiamo figli di questa chiesa e vogliamo vivere in pienezza la nostra vocazione cristiana”.
Abramo e gli omosessuali. L’accostamento non è forse un po’ troppo ardito? A lui ha garantito la terra promessa, e a noi?
Nel primo articolo che ho scritto sulla conferenza teologica di Roma ho paragonato la vicenda di Abramo all’esperienza che gli omosessuali credenti sono chiamati a vivere.
In realtà non si tratta di un’idea originale, già nel 2000, durante una tavola rotonda sulla condizione degli omosessuali credenti in Italia, don Franco Barbero aveva proposto questo parallelo osservando come il “coming out” degli omosessuali, il loro venir fuori non era altro che una nuova versione dell’esperienza che Dio chiede di fare ad Abramo. Forse è il caso di rileggere quello che aveva detto allora.
Eccolo: «In questa spiritualità cristiana in cui campeggia per ciascuno/a la chiamata di Dio ad amare, anziché cercare nascondigli, anziché esaltare la rinuncia all’amore secondo la propria natura e negarsi con un celibato imposto o doversi far accettare con un matrimonio eterosessuale, gli omosessuali e le lesbiche stanno compiendo il grande e benedetto cammino di Abramo: “Abramo, vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò…e diventerai una benedizione… E in te saranno benedette tutte le famiglie della terra”. (Gen. 12,1-3).
Mi piace leggere questa “partenza” di Abramo, questo suo uscire dal “nascondiglio” della propria terra, cultura e gente come metafora e parabola dell’uscire allo scoperto di molti omosessuali e lesbiche.Il “recinto” non promuove la vita. Occorre più spazio!
Ma per partire ci vuole una decisione così coraggiosa che la Bibbia la esprime plasticamente nei termini di un duro ordine, di una “ingiunzione” ripetuta ben tre volte da parte di Dio.
Più che di un invito pressante, qui si tratta quasi di una “cacciata”, di una “espulsione”. Abramo non partiva se Dio non lo sradicava. Poi “Abramo partì”.
Ecco il “miracolo” di cui siamo testimoni oggi. Mentre molti dicono e urlano “Abramo non partire!”, gli omosessuali e le lesbiche che diventano consapevoli del loro dono di Dio, della chiamata, della vita più piena che sta davanti a loro…, partono ed escono allo scoperto. E Dio, come per Abramo, è la loro compagnia. Certo c’è subito chi si separa da loro, ma il “paese” che si apre davanti ai loro occhi è “numeroso come la polvere della terra” (Genesi 13).
Se la strada si fa difficile occorre credere nella compagnia e nella promessa di Dio: “Guarda in cielo e conta le stelle” (Genesi 15)». Ricordo ancora di essere scoppiato a piangere davanti a tutti quando ho ascoltato queste parole. Davvero credo che, in quel momento, lo Spirito Santo ci ha indicato la strada da seguire. Ecco perché in un occasione di un appuntamento importante come la conferenza del prossimo 3 ottobre, ho deciso di riproporre il parallelo che don Franco aveva fatto più di dieci anni fa.
La speranza di entrare a pieno diritto nella Terra Promessa (leggi Chiesa) è qualcosa di concreto, o anche noi come il patriarca biblico dovremo arrestarci alla sua soglia? Per quanto tempo?
In realtà Abramo arriva nella terra promessa. Quello che invece nella terra promessa non ci arriva è Mosé a cui però Dio, concede il privilegio di poterla vedere da lontano giusto prima di morire.
Vent’anni fa, quando ho iniziato a partecipare attivamente alla vita dei gruppi di omosessuali credenti ero convinto di poter vedere il momento in cui omosessuali e transessuali avrebbero trovato il loro posto all’interno della Chiesa cattolica.
A distanza di vent’anni sono meno ottimista, non solo perché mi sto diventando vecchio, ma anche perché le questioni che venivano sollevate sono rimaste inascoltate.
Nel frattempo, per fortuna, sono cresciute generazioni di omosessuali credenti che, senza chiedere niente alla Chiesa, hanno iniziato a vivere senza più nascondersi, la loro omosessualità all’interno delle comunità parrocchiali di cui fanno parte.
Con il tempo la loro testimonianza ha modificato in maniera significativa l’atteggiamento dei singoli credenti, come testimoniano le risposte al questionario con cui papa Francesco ha deciso di iniziare il lungo percorso che terminerà con il Sinodo ordinario che si celebrerà tra un anno.
Dopo aver letto l’Instumentum laboris del Sinodo straordinario che inizia il prossimo 5 Ottobre mi sono convinto che l’omosessualità non sarà uno degli argomenti chiave su cui si giocherà il dibattito, sarà però importante vedere se, in questa Chiesa che è rimasta bloccata per più di trent’anni, inizierà quel percorso di “aggiornamento” di cui tanto si parlava ai tempi del Vaticano II.
Se succederà questo, se i vescovi riuniti in assemblea sapranno fare proprie, così come dice in maniera profetica la Gaudium et Spes «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi», allora sono convinto che qualcosa inizierà a cambiare anche per gli omosessuali.
Non mi aspetto rivoluzioni, ma almeno una riflessione su quanto recita il punto 2359 del Catechismo quando recita che: «Le persone omosessuali sono chiamate alla castità» e di aggiunge che «possono e debbono avvicinarsi alla perfezione cristiana». Quali sono le strade che, realisticamente, si possono proporre agli omosessuali per realizzare questa proposta impegnativa?
Senz’altro se non c’è un lavoro preliminare che aiuta le persone omosessuali e transessuali a sviluppare una sana autostima, non è serio pensare di proporre qualunque cambiamento capace di superare l’ipocrisia in cui il silenzio attuale incatena lesbiche e gay.
Ma come si può far nascere e far crescere questa autostima? Non certo dicendo che la loro omosessualità è un “intrigo psichico”, come invece fa il Lexicon che il Pontificio Consiglio per la Famiglia ha pubblicato nel 2002.
E nemmeno illudendoli di poter cambiare il loro orientamento sessuale arrivando poi a un matrimonio che è destinato irrimediabilmente a fallire.
Non si risponde alla proposta impegnativa che il Magistero fa attraverso il Catechismo, nemmeno dicendo che gli omosessuali sono dei poveri malati che vanno compatiti, ma che non vanno ascoltati perché da loro non può venire niente di buono.
Se davvero la Chiesa cattolica è convinta della bontà di quanto propone agli omosessuali nel suo Catechismo deve aiutarli concretamente a maturare quell’affettività adulta che è la condizione necessaria per parlare seriamente di castità.
Non è negando il desiderio di intimità e di relazione che, naturalmente c’è nel cuore di molti omosessuali e di molti transessuali, che li si aiuta a maturare affettivamente.
Ed è a questo punto che diventa importante il contributo dei tanti omosessuali credenti che hanno provato a prendere sul serio l’insegnamento della chiesa, così come diventa importante ascoltare le loro famiglie, gli operatori pastorali che li hanno seguiti da vicino e i teologi che si sono interrogati sul significato da dare alla loro esperienza alla luce del messaggio evangelico.
La conferenza che si svolgerà a Roma il prossimo 3 ottobre è un tentativo di dare ai padri sinodali qualche elemento in più per capire in che modo la Chiesa può aiutare omosessuali e transessuali ad «avvicinarsi alla perfezione cristiana» come dice il Catechismo, invece di nascondersi nell’ipocrisia di percorsi di vita in cui si esalta a parole una continenza che poi, nei fatti, non ci vive e non si cerca e si disprezza un’affettività omosessuale che invece potrebbe essere la risposta vera al bisogno di intimità e di relazione che c’è in molti di noi.