Tra la vita e la morte. Il ministero di una suora tra le persone trans
Articolo di Nathan Schneider pubblicato sul sito di Al Jazeera America (Stati Uniti) il 2 marzo 2014, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
Nel 2010, a casa sua in una città vicino al confine con il Messico, suor Monica organizzò un pomeriggio di riflessione con sette sacerdoti, un diacono e quattro transgender cattolici. All’epoca viveva in una casa a due piani in un quartiere povero, con camere extra per i partecipanti ai ritiri, una cappella e una mezuzah ebraica alla porta d’ingresso che toccava ogni volta che entrava.
“Oggi stiamo facendo la storia nel mondo transgender e nel mondo cattolico” disse all’inizio dell’incontro “mai, mai prima c’è stata un’adunanza come questa”.
Nel corso di un’ora, due uomini e due donne trans raccontarono in breve la loro vita; i sacerdoti dovevano ascoltare. Parlarono del processo di scoperta di come il loro genere non corrispondesse al loro corpo, alcuni nell’infanzia, altri più tardi. Parlarono delle lotte con i preti e del desiderio di riconciliarsi con la loro fede.
”Quando ho sentito che si sarebbe tenuto l’incontro, mi sono quasi messa a piangere” disse una partecipante “quello che dicono i sacerdoti può veramente fare la differenza tra la vita e la morte per persone come noi”.
Durante la seconda ora ci fu una discussione aperta. I sacerdoti non fecero molte domande, più che altro approvarono quanto raccontato ed espressero solidarietà: “Siete da lodare per la vostra integrità” e cose di questo genere.
Quando la seconda ora finì, alcuni sacerdoti sgattaiolarono via verso altri appuntamenti. Uno di essi cominciò a parlare, si fermò e poi disse: “Il suo ministero oggi è rivolto a noi, e la sua spiritualità è molto, molto evidente. Personalmente, mi avete aiutato parecchio”. Un’altra pausa: “Perché io sono omosessuale.”
Dopo quello che aveva sentito, in qualche modo il suo segreto non spaventava più come prima. “Ho fatto coming out con un po’ di gente, ma mai con i miei confratelli di qui.” “Be’, ora l’ha fatto” disse suor Monica indicando i preti, come un’insegnate a uno studente.
Ritiene che essere definita “pastorale” sia un complimento: è una parola che anche papa Francesco usa per descrivere il suo invito al rinnovamento della Chiesa. Un sacerdote pastorale, spiega suor Monica, “riconosce di non capire tutto perfettamente – cerca di aiutare la gente ad affrontare le loro sfide, qualunque esse siano”.
Forse non c’è bisogno di sorprendenti cambi di rotta come quello dell’ayatollah Khomeini: forse non c’è bisogno che la Chiesa includa l’ultimissima teoria del gender nel catechismo. Sarebbe sufficiente, forse, che i leader della Chiesa odano e ascoltino con attenzione le voci transgender e agissero come se ci fosse un po’ di verità nella loro esperienza.
Le sue consorelle l’hanno sostenuta fin dall’inizio. Questo tipo di ministero era la ragion d’essere della loro congregazione ed erano fierissime della prima suora ad organizzare il primo ministero transgender a livello nazionale. Ma negli ultimi anni la comunità che serviva, nella quale ha passato la maggior parte della sua vita, ha cessato di esistere; come molte altre congregazioni femminili in giro per il paese, era diventata troppo piccola e troppo anziana per continuare da sola, perciò si è fusa con altri gruppi di suore provenienti da luoghi diversi, con esperienze diverse, che tendono ad essere più caute.
Nei loro bollettini non parlano di ciò che fa suor Monica e non sempre sanno come comportarsi nei confronti dei suoi ospiti transgender. I vescovi l’hanno affrontata apertamente.
Nei loro uffici e nelle loro lettere ha dovuto sopportare delle reprimende su tutto, dalla dottrina alle politiche identitarie, da parte di uomini che insistono che “omosessuale” sia l’unica parola accettabile per descrivere lesbiche e gay. Si sono messi in guardia a vicenda contro di lei. Alcune volte ha dovuto lasciar loro credere di stare svolgendo il suo ministero “solamente” con lesbiche e gay, di cui almeno hanno qualche idea.
I suoi superiori le hanno ordinato di rifiutare di scrivere articoli o di essere citata dai giornalisti perché hanno paura di quello che farebbero i gerarchi se suor Monica diventasse un personaggio pubblico.
Ma la sua comunità trans non necessariamente vuole di più da lei. Per lo più le raccomandano di proteggersi, di fare quello che deve fare per poter essere sempre disponibile per loro. “Una delle cose che la rendono ancora più preziosa” dice Mateo Williamson “è che ha conosciuto la persecuzione per il semplice fatto di occuparsi di persone come me”.
Eppure per suor Monica non è abbastanza. Nell’impossibilità di parlare pubblicamente avverte delle tracce di disforia, la profonda incongruenza che le persone trans avvertono riguardo al genere loro assegnato. Non è solo frustrazione o seccatura: è una sorta di morte.
Il silenzio ha uno strano modo di operare nel cattolicesimo; forse dappertutto. Dopo il discorso di Natale di papa Benedetto nel 2008, suor Monica era così furiosa che ruppe tutte le regole e spedì una lettera direttamente al suo vescovo per dirgli perché il Papa aveva torto e cosa le aveva insegnato il suo ministero.
Il vescovo rispose con il silenzio. Alla fine suor Monica capì che quella era la cosa migliore che potesse fare; il sostenerla avrebbe messo in pericolo entrambi e posto il suo ministero nel mirino dei reazionari.
Il vescovo avrebbe potuto farle chiudere baracca in quel preciso istante, ma non lo fece. Nel frattempo, il silenzio del Vaticano dà ai cattolici transgender il tempo per far ascoltare le loro storie. Suor Monica non può pubblicare articoli sul suo ministero con il suo vero nome, ma James e Evelyn Whitehead hanno scritto sulle persone transgender di sua conoscenza nella stampa cattolica. Non può parlare apertamente con il suo vescovo, ma Mateo Williamson un giorno ha fatto visita al suo vescovo per illustrargli la crisi dei giovani LGBT senzatetto.
La pensione è arrivata troppo presto per suor Monica. È giovane per avere settant’anni, ma è stata colpita da una artrite degenerativa alla mandibola che non ha fatto che peggiorare. Fa male quando parla, rendendole difficile condurre una lunga conversazione. Non può più guidare i ritiri che erano il cuore del suo ministero. Ha dovuto lasciare le più di duecento persone transgender di tutto il paese con le quali ha lavorato.
Dice che è un’opportunità di dedicarsi meglio alla preghiera, al silenzio, alla contemplazione. Dice di volersi fondere con Dio. Ma non sembra capace di farsi da parte come dice di voler fare. E nessuna discepola più giovane – in particolare nessuna suora – si è fatta avanti per prendere il suo posto.
Il dolore alla mandibola è una beffa e una metafora nemmeno tanto sottile dello scandalo che l’ha ossessionata per più di dieci anni: conoscere molto da vicino la sofferenza delle persone transgender senza poter parlare ad alta voce in pubblico dell’amore che Dio nutre per loro.
“Ho pianto tutte le mie lacrime e pregato tutta la vita per trovare l’equilibrio tra i momenti in cui tacere e i momenti in cui parlare” dice mentre sgorgano di nuovo le lacrime. La mandibola fa male. “Ho detto diverse volte a Dio: mi è chiaro – del tutto chiaro, assolutamente chiaro – che tu mi hai chiamato a questo ministero. Ma ci deve essere una ragione per la quale non posso parlare.”
Testo originale: A nun’s secret ministry brings hope to the transgender community