Essere gay in Sud Africa. Una trappola arcobaleno
Articolo di Dorothee Moisan pubblicato sul mensile Tétu (Francia) nell’ottobre 2014, pag. 51-53, libera traduzione di Marco Galvagno
Perseguitati nei loro paesi centinaia di gay, lesbiche e transgender si rifugiano ogni giorno in Sud Africa. Ma, una volta giunti a Città del Capo o a Johannesburg molti di loro cambiano tono.
Davanti agli insulti, alle violenze sessuali e anche agli omicidi, si rendono conto che nonostante la sua costituzione sia la più progressista al mondo, il Sud Africa, la nazione arcobaleno non è quell’oasi di tolleranza che avevano sognato.
Come la pallina di un flipper la risata di Tiwonge Chimbalanga risuona metallica sui muri di lamiera che ricoprono la sua casa. La trans del Malawi ha la stretta di mano facile e il bacio affettuoso. Sono appena le dieci e già i suoi amici affollano la sua baracca minuscola della township Oliver Tembo, nella periferia di Città del Capo.
Auntie Tiwo ( zia Tiwo) come la chiamano qua si è rifugiata in Sud Africa nel 2010. Alla fine del 2009 è finita sulla prima pagina dei giornali del suo paese dopo essere stata condannata a 14 anni di prigione, insieme al suo fidanzato per avere celebrato il loro matrimonio.
Di fronte alle pressioni internazionali il presidente del Malawi ha graziato la coppia nel maggio del 2010. Mentre il suo fidanzato è rimasto nel paese e si è risposato con una donna.
Tiwonge si è affrettata a raggiungere Città del Capo. Quattro anni dopo appollaiata sulle sue scarpine dorate con i tacchi a spillo, sostiene di essere felice “é cool qui”” è un bel paese, in cui vi è libertà di espressione e libertà in genere per le persone gay e transgender.
Dopo risate compulsive ammette però di non uscire mai dal cortile di casa. E’ stata aggredita e picchiata tre volte da suoi connazionali ed ora ha paura.
Capri espiatori
Sul continente africano il demone dell’omosessualità è condannato in 38 paesi su 54. E se alcuni paesi, come la repubblica democratica del Congo, il Marocco o L’Etiopia, fingono discrezione, anche li perseguitano i gay e i trans….é più facile fare dei gay e dei trans dei capri espiatori, che regalare alla gente riso o idee nuove.
Eccezione continentale
Spesso per vergogna o per paura d’imbattersi in un funzionario di polizia omofobo, i rifugiati non dichiarano il proprio orientamento sessuale e si presentano all’amministrazione come semplici immigrati per motivi economici.
Risulta dunque impossibile sapere il numero esatto dei rifugiati gay e transgender in Sud Africa.
Del resto una grande maggioranza, cioè circa il 99 per cento, non cercano nemmeno di lasciare i propri paesi, perché hanno paura d’emigrare o sono privi dei mezzi economici o del passaporto per affrontare il viaggio. Spesso non parlano altre lingue oltre la propria” ci spiega Neil Grungras fondatore d’Oram, la principale organizzazione che difende i rifugiati.
Solo i più fortunati volano in Europa o negli Stati Uniti, ma la principale destinazione per i rifugiati gay africani rimane il Sud Africa. Bisogna dire che sul continente nero il Sud Africa è una mosca bianca. Ha legalizzato i matrimoni gay ben otto anni prima della Francia.
Soprattutto dal 1996 è stato il primo paese a condannare nella sua costituzione ogni forma di discriminazione legata all’orientamento sessuale delle persone.
“Eravamo consapevoli d’avere ottenuto una grande vittoria”, ricorda Edwin Cameron, militante gay, oggi giudice della corte costituzionale di Johannesburg. “Ma sapevamo che era solo l’inizio di un lungo cammino , dato che la riforma legislativa ha preceduto l’evoluzione della mentalità. Tuttavia” assicura il magistrato “non vi è alcun dubbio che la situazione di una persona dello Zimbawe, d’un ugandese o di un nigeriano sia mille volte migliore che nel suo paese. Qua l’omosessualità non è un crimine , non arrestiamo nessuno perché è gay.
Ma forse le loro aspettative sono troppo elevate. Forse questi rifugiati pensano di giungere nell’eldorado dell’uguaglianza. Non siamo questo eldorado, siamo un paese in cui vi sono ancora ignoranza, discriminazione e odio”.
Junior Mayenna, giovane attivista gay, che è scappato da Kinshasa nel 2010, può testimoniare, che una volta giunto a Città del Capo ha cambiato idea. La realtà è che le leggi sono scritte solo sulla carta, ma la maggioranza dei sudafricani non accetta l’omosessualità. Pensano che non sia una cosa africana e che sia stata importata dall’Occidente.
Township pericolose
Esorcizzato da un prete su richiesta della propria madre, cacciato dal liceo nella repubblica democratica del Congo, Jean Claude Puati-Bazola si sentiva in pericolo di vita, così nel 2007 ha rubato l’auto del padre, l’ha rivenduta e con il denaro guadagnato ha comprato un visto per il Sud Africa.
Al suo arrivo ha trascorso due settimane a Pretoria per ottenere l’attestato che aveva richiesto asilo politico, nell’attesa del permesso, “apriti sesamo”, ha dovuto sborsare 170 euro di mance a funzionari corrotti, una vera fortuna per un immigrato.
Laggiù ricorda Jean Claude era veramente la lotta per la sopravvivenza, eravamo miglia in coda e la gente faceva a botte per avere il posto migliore. I rifugi spesso non erano adatti ed accoglievano i migranti solo per due o tre settimane, erano situati nelle township, luoghi pericolosissimi.
Per 7 anni il ragazzo, oggi trentenne, passa dai rifugi ai centri d’accoglienza e cambia in continuazione lavoro. Non appena venivano a sapere che ero gay, mi licenziavano.
“Per strada mi lanciavano sassi, urlandomi moffie”, (ndr che equivale all’italiano frocio o checca), addirittura nel 2012 un uomo ha tentato di strozzarmi e mi ha svaligiato.
Oggi Jean Claude ha deciso di voltar pagina e di andare a vivere in Islanda. Poiché afferma tutto ciò che faccio qui è solo sopravvivere, ma io ho deciso d andare a vivere in un altro paese in cui poter avere una vera vita.
Jean Yannick, 27 anni viene dal Gabon, è sbarcato a Città del Capo tre mesi fa, violentato da un gruppo di ladri e sequestrato insieme al suo compagno francese ha abbandonato il ristorante, che aveva a Port Gentil, per rifugiarsi a Città del Capo, luogo in cui aveva trascorso una magnifica vacanza di due settimane.
Ma una volta trasferitosi lì la cartolina colorata che aveva in testa è sbiadita. “Purtroppo non avevo toccato con mano la vera realtà del paese”, afferma nei locali di Passop, un’associazione che lotta contro l’oppressione e la povertà.
Gay razzisti
“Qua la legge mi difende, ma non è facile”, riassume il ragazzo dai modi dolci e raffinati. “Non sono una trans, come vedi ho solo i capelli tinti, ma per la gente di qua sono il diavolo. Sugli autobus attiro più sguardi io che la trans sudafricana seduta di fianco a me, perché sono straniero. Ho constatato che c’è ancora molto razzismo tra i gay. Ho tentato di fare un giro nei night clubs del centro a Città del Capo. Ci sono andato solo due volte, nessuno mi avvicinava, ne mi rivolgeva la parola, perché sono nero. Mi guardavano con l’aria di dire un negro gay? allora ha tutti i difetti del mondo”.
Da qualche anno i depliant turistici pubblicizzano Città del Capo come una destinazione gay friendly con un discreto successo. In centro i bar gay del quartiere De Waterkrant non hanno nulla da invidiare a quelli del Marais a Parigi. Ma basta allontanarsi un quarto d’ora in macchina e recarsi in periferia per rendersi conto che questa pretesa libertà riguarda solo una minoranza di bianchi benestanti. E’ anche quella di cui si occupano i media ogni anno in occasione del gay pride.
Nella township di Khayelitsha i gay hanno un basso profilo e ancor di più le lesbiche. Poiché, come conferma Noel Kutuwa di Amnesty International, il Sud Africa è famoso per quello che chiamano “lo stupro correttivo”, fondato sulla superstizione che se si violenta una lesbica la si guarisce dall’omosessualità, riportandola sulla retta via.
Fiuneka Soldaat, 52 anni è una di loro. Una sera di venti anni fa, cinque uomini coperti da passamontagna l’hanno seguita e violentata, minacciandola con una pistola. “Sapevamo che ti avremmo beccata un giorno”, racconta l’attivista lesbica con orrore…
Terrorizzata raggiunge il commissariato dove i poliziotti si rifiutano di riceverla e di trascrivere la sua deposizione. Alla fine si addormenta vicino al commissariato e decide di tornare a casa dove si tappa dentro.
Da allora in poi Funeka ha fondato un’associazione di sostegno alle lesbiche Free Gender, con la speranza di educare la comunità e cambiare le mentalità.
“Gli uomini delle township pensano che le lesbiche vogliano rubare loro le fidanzate e non amano il fatto che si vestano in modo maschile, con lo stupro vogliono provare loro che sono uomini e che le lesbiche sono donne. E’ una competizione stupida”.
Mentre altre se ne sarebbero andate Funeka abita ancora a Kyatelisha. Il giorno dell’intervista, nonostante rida di cuore con la sua amica Bulewa, sgranocchiando una barretta di cioccolato, il suo sguardo rivela ancora un’immensa tristezza.
Ripensa a Noxolo Nogwaza, una lesbica di 24 anni violentata, torturata e assassinata nell’aprile del 2011 per il suo orientamento sessuale. Da allora l’inchiesta non si è mossa di un millimetro.
Inerzia della polizia
Nell’aula calma della corte costituzionale Edwin Cameron ammette l’inerzia della polizia, ma afferma che si tratta di un problema più vasto, non penso che riguardi solo i procedimenti per reati omofobi.
Nel periodo di transizione dopo la fine dell apartheid abbiamo perso molti procuratori e magistrati inquirenti e questo ha causato un rallentamento enorme della macchina giudiziaria. Forse ci vorrebbe un’unità speciale che indaghi tutti i crimini a carattere omofobo.
Il paradosso sudafricano si nota ugualmente sulle scene internazionali: da vari anni il Sud Africa non lesina gli sforzi per fare progredire i diritti dei gay.
Nel 2011 è stato il promotore in sede Onu di una dichiarazione che condannava ogni forma di discriminazione legata all’orientamento sessuale e all’identità di genere. Solo che all’interno del paese le dichiarazioni omofobe abbondano. Lo stesso presidente (sudafricano) Jacob Ziuma ha avuto alcune uscite infelici.
“La nostra costituzione non ha poteri extraterritoriali! ricorda con calma Luvuyo Ndimeni, ambasciatore in servizio al ministero delle relazioni internazionali e della cooperazione. “Criticare apertamente i nostri patner commerciali, quando varano leggi omofobe non è realmente efficace”, raccomanda. “Meglio mediare di nascosto, che una diplomazia armata di megafono”.
Con la giacca bianca e grigia su una bella camicia a quadrettini Tino sembra uno studente americano, ha un sorriso disarmante. A 18 anni ha lasciato lo Zimbawe, “allora pensavo che il Sud Africa fosse il paese ideale per i gay. Mi son detto, che forse avrei potuto esprimere liberamente la mia sessualità.
Facendo un bilancio, 7 anni dopo, ho visto che non è cosi ne al cento per cento, ma forse nemmeno al 90, ma in Zimbawe sicuramente la mia vita sarebbe stata peggiore”.
Titolo originale: AFRIQUE DU SUD: PIEGE ARC-EN-CIEL