La suora, le trans catanesi e una chiesa che non ti aspetti
Articolo di Enrica Brocardo tratto dalla rivista Vanity Fair del 16 aprile 2008
Nel quartiere San Berillo di Catania, storico luogo che ospita la prostituzione cittadina, una decina di trans sono i protagonisti di una storia che non ti aspetti. Tutto cominciò quando una suorina pachistana dell’ordine di Madre Teresa di Calcutta un giorno chiese ad alcuni di loro: “Ce la facciamo una preghiera insieme?”.
E’ cominciata così una conoscenza reciproca che ha spinto la Caritas di Catania a impegnarsi per dare ai trans del quartiere una possibilità per cambiare vita. Come dice una giovane trans «le suore, con il loro amore, ci hanno cambiate dentro».
Le dissi: “Sorella, attenta, si infanga tutta”. Lei, una suorina pachistana dell’ordine di Madre Teresa di Calcutta, mi rispose: “Non ha importanza”. Passò altre volte, cominciammo a parlare. Si chiamava suor Caterina. Un giorno mi chiese: “Ce la facciamo una preghiera insieme?” Ecco, è cominciata così».
Lillo, capelli lisci raccolti in una coda di cavallo, 58 anni, trans per molti anni in trasferta a Milano, racconta come è diventato il coordinatore del gruppo di travestiti del quartiere San Berillo, a Catania: venti, trenta prostitute — alcune lavorano qui da quarant’anni — che vorrebbero smetterla con questa “amara vita”.
Per raggiunti limiti di età e di sopportazione, per un’oggettiva scarsità di clienti (dovuta a sua volta ai raggiunti limiti di età) e per ragioni di “riqualificazione urbana”.
Ne parliamo nella stanza, trasformata in cappella circa due anni fa, dove si ritrovano a pregare con le suore o con padre Liozzo, della parrocchia lì vicino. Adesso il rischio di infangarsi camminando lungo le stradine non c’è più. Il quartiere è in piena ristrutturazione, c’è una nuova pavimentazione, impalcature ovunque, e vezzosi lampioncini in stile sono già stati sistemati sulle pareti degli edifici. La luce, però, va e viene. Va proprio mentre siamo lì e non si vede a un metro.
Il progetto di ristrutturazione dell’intera zona risale all’inizio degli anni Novanta e prevede che le stanzine dei trans diventino appartamenti, hotel e bed&breakfast. Il punto, per chi oggi lavora ancora nelle stanzine, è dove andare e che cosa fare.
Partiamo da una domanda: voi assumereste Letizia, Franchina, Totino, Giuseppe, Andrea, solo per citare alcune di loro, come badanti? (Per favore, però, non rispondete subito).
Padre Valerio Di Trapani, responsabile della Caritas di Catania, ha provato a scommettere su questa possibilità. Del resto, ogni giorno, al suo centro di ascolto, arrivano non solo i poveri a mangiare, ma anche persone che cercano un’immigrata da trasformare in badante.
Il corso di assistenza base agli anziani per i trans di San Berillo lo ha coordinato Maria Grazia, neolaureata in Scienze sociologiche, che ha buttato giù anche le linee base del progetto di riqualificazione lavorativa vero e proprio, che dovrebbe essere finanziato con i soldi promessi dalla Regione Sicilia, nello specifico dall’assessore alla Famiglia, Paolo Colianni.
«Che cosa avete imparato a fare?», chiedo a Giuseppe, 38 anni, capelli sciolti su spalle importanti. E una delle più giovani del gruppo, composto per la maggior parte da persone tra i 40 e i 60 anni. Mi risponde che hanno imparato a trattare le piaghe da decubito, a mettere il catetere, a fare le iniezioni intramuscolo e ad «allettare gli anziani», nel senso di metterli a letto.
Lo dice senza cogliere la presenza di un doppio senso. «Niente di più di quello che potrebbe fare un parente, una persona cara», poi domanda a sua volta: «Secondo me ce la posso fare a cambiare, sono ancora abbastanza giovane, no?». Il problema, in realtà, non è l’età, come spiega la responsabile del centro d’ascolto della Caritas, Roberta.
«La badante-modello per chi ha un anziano da accudire viene dall’Est, Bulgaria o Romania, deve essere sola, per non avere scocciature di figli, mariti e ricongiurigimenti familiari, e deve avere più di 50 anni». Per non avere scocciature di vecchietti «allettati» (nell’altro senso) in extremis.
«Purtroppo gli uomini di una certa età pensano solo a mangìare e a quell’altra cosa», conferma Daniele Strazzeri, l’infermiere professionale-docente volontario del corso, «io ho cercato di inserire uno dei trans in una casa di riposo, ma la titolare era preoccupata di quello che sarebbe potuto succedere. Non me la sento di darle torto».
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Quando c’erano le “navi scuola”
Molti degli anziani di Catania, oggi bisognosi di assistenza, ricorderanno senza dubbio gli anni d’oro, quando San Berillo era come il quartiere a luci rosse di Amsterdam. E il comune destino dei due quartieri prosegue ancora oggi, visto che il sindaco di Amsterdam, Job Cohen, ha deciso di spegnere le luci delle vetrine sexy.
Con la differenza che, per motivi anagrafici, le infermierine olandesi potranno continuare ancora per qualche anno a indossare il camice e a prestare assistenza ai loro clienti da qualche altra parte.
Nino Strano, il San Berillo dei tempi buoni, se lo ricorda bene: «Venivano da Roma, da Milano, da Parigi. A chiunque arrivasse a Catania negli anni Settanta, Ottanta, era uno dei primi posti che gli albergatori consigliavano di visitare. Ai tempi le prostitute in strada usavano i “fuoconi”: la legna o il carbone tra le cosce per scaldarsi d’inverno». Ma il posto era zeppo anche di casini, ovviamente molti anni dopo che la legge Merlin ne aveva decretato la chiusura.
Per chi non ricordasse chi è Nino Strano, credo basti un’immagine: è il senatore di An che esibì un fiore di mortadella in bocca per festeggiare la caduta del governo Prodi. L’onorevole Strano, che qui chiamano «Nina la pazza», è il promotore del progetto che dovrebbe aiutare ì trans a ricollocarsi e, in occasione della mia visita, è venuto a salutare.
Seduti con le sedie in circolo si chiacchiera dentro la cappella. Sotto lo sguardo vago della Madonnina, il senatore altalena nostalgie di «navi scuola» che svezzarono generazioni di siciliani, e qualche recriminazione per la criminalizzazione subita (estromesso dalle liste del Pdl alle politiche, poi riammesso, anche se al quattordicesimo posto, troppo in basso per sperare in una rielezione): «Lei, signora, ha davanti il male dell’Italia. Così mi hanno definito per via della mortadella. Ma le pare possibile?».
Poi, insieme all’assessore Colianni, anche lui venuto a salutare e a presenziare, illustra il progetto di aiuto ai trans e lo stato di avanzamento del finanziamento necessario a realizzarlo Colianni parla di: «Progettualità da cui scaturiranno progetti», «momenti di attenzione» e «modelli clonabili e sistemici».
Dice che verrà creato un punto di ascolto, un «power point» lo chiama, «per ascoltare i bisogni dei trans. Come più concretamente ragiona Lillo: «Una soluzione potrebbero essere le borse lavoro. Che sono meglio di una cooperativa di trans, altrimenti si rischia di farne un ghetto».
Qualche settimana dopo il nostro incontro, telefono per sapere se ci sono novità: purtroppo i finanziamenti che avrebbero già dovuto essere «esitati», come aveva detto l’assessore, sono fermi.
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La vita è come una piramide
Alle borse lavoro per dare una mano ai transessuali ricorre da tempo il Gruppo Abele di don Ciotti. «Funzionano abbastanza bene perché sono a costo zero per il datore di lavoro: paga tutto l’ente finanziatore, di solito un’amministrazione pubblica», spiega Ornella Obert, responsabile del progetto «Oltre lo specchio».
«Però si tratta di impieghi a tempo, non più di otto mesi. In teoria dovrebbe servire per far conoscere la persona all’azienda: se funzioni, ti tengo. Ma spesso il rinnovo non arriva, e dimostrare che dipende dalla condizione sessuale non è facile».
Ancora più difficile trovare una sistemazione agli over 50, «che poi sono quelle che, spesso, hanno un passato di prostituzione, perché quando erano giovani non c’erano trans al Grande Fratello o in Parlamento (il riferimento è a Viadimir Luxuria, ndr) e il rifiuto sociale era molto più marcato. Non c’era neppure una legge, la 164 del 1982, che consentisse il cambio di sesso».
Qualcuno, comunque, ci è riuscito, con lavori a termine e con mansioni che vanno dalle pulizie alla manutenzione dei giardini, ma in regola. Difficile che lo stesso accada per un posto da badante. «Lo stipendio da queste parti è di 600 euro al mese in nero, più vitto e alloggio», dice Roberta, «e si tratta di lavorare 24 al giorno, sei giorni alla settimana».
E a fare il trans a San Berillo quanto si guadagna? Dipende. C’è chi dice quattromila euro al mese, chi ormai lavora quanto basta per arrotondare qualche risparmio accantonato, per fortuna, da giovane.
Letizia, 41 anni, continua a prostituirsi saltuariamente. «Ogni tanto “scendo” e mi faccio i soldi precisi per pagarmi i vizietti: le sigarette, il caffè». Letizia ogni settimana dà una mano in Caritas, alla mensa per i poveri («mi serve a tenermi impegnata») e, di notte, in giro con i volontari dell’unità di strada a distribuire cibo ai barboni.
Racconta: «Da ragazzino ho fatto tanti lavori, in un bar, in una pasticceria, in un calzaturificio, in un negozio di giocattoli. Ho iniziato a fare la prostituta a 17 anni.
All’inizio guadagnavo in un giorno quello che prima prendevo in un mese. Soldi facili, ma anche maledetti: se ne vanno subito. Ti compri il vestito, il reggiseno, le mutandine, pensi doma ni è un altro giorno».
Su come funzionano le cose in questo mestiere, Anna, brasiliana, ci ha costruito su una teoria: «La vita», mi spiega, «è come una piramide». Sotto è grande, piena di cose da fare, man mano che sali con gli anni, tutto si restringe.
Quando la vita di Letizia era ancora bella larga, per un certo periodo ha anche confezionato bomboniere. «Mi piaceva mettere i nastrini, i fiorellini… Poi, a 17 anni, è iniziata la mia metamorfosi: ho iniziato a prendere gli ormoni».
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Ormoni e primi amori
Siamo qui per parlare di lavoro. Si finisce per parlare anche di sentimenti, di sesso, di corpi. E nonostante ci si incespichi continuamente tra maschile e femminile (loro per prime parlano di sé alternando i generi nel giro di una stessa frase), l’amore è sempre per un uomo. Che c’è, che si vorrebbe o che c’è stato, ma che poi ha trovato una donna e ha preferito lei: si è sposato, si è fatto una famiglia.
«Da piccolo tutti i maschi della famiglia mi chiedevano continuamente: “Quando ti fai la fidanzatina?”. Mio padre si era accorto che ero effeminato e mi portava al cinema a vedere i film porno. Per stimolarmi, credo. Io, invece, mi vergognavo per lui, per me stesso».
Franchina, diploma di liceo classico, hobby della lettura, ha 49 anni e fa la prostituta da 25. «È facile, non devi fare tirocini. Ma a cinquant’anni uno cambia, certi valori vengono fiori, e cominci a sentire tutta la stanchezza di questa vita. I clienti non sono sempre facili, molti hanno richieste particolari… Siamo usa e getta».
Come nei romanzi di un secolo fa, Franchina ha avuto un solo amore vero. Come nei film scollacciati di qualche decennio fa, ha rovinato tutto perché «ero un po’ buttana, avevo l’ormone. Lui non voleva che facessi la prostituta, ma io, se non lavoravo, mi sentivo depresso. Essere ricercata ti gratifica».
Piacere agli uomini, per molte di loro, non è solo una questione professionale. Se da ragazzi hanno cominciato a iniettarsi gli ormoni che il farmacista «amico» forniva senza ricetta, se alcuni di loro hanno facce devastate non si sa bene da quali filler, siliconi e impianti, non è solo per tirar su più soldi.
Anzi, sì, ma perché il denaro è l’unica prova della loro desiderabilità, che inseguono fin da ragazzi, lottando con un fisico che si modifica in direzione ostinata e contraria: cominci a sentirti femminile quando ti spunta la prima barba, ti innamori del tuo amichetto mentre la tua voce scende di tono.
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Sono il vestito e sotto là pelle
«Loro sono così, ce l’hanno nel sangue. E se ce l’hai nel sangue vivi e guadagni meglio». Andrea, 37 anni, è la più silenziosa, perennemente affacciata alla finestra della sua cameretta a piano terra, e terrorizzata dall’idea che il fotografo la riprenda di nascosto. «Qualsiasi lavoro, credimi», mi dice, «fare le pulizie, per esempio, andrebbe benissimo, basta che sia un posto sicuro e che arrivo a coprire le spese a fine mese.
Pago 350 euro per l’appartamento dove vivo, più 300 per l’affitto della camera dove lavoro». Quella dove parliamo, sedute sul letto, con al centro una montagnetta di preservativi.
«Sono stanca», continua, «ho paura delle malattie e di trovare qualcuno che mi faccia del male. Mi piace cucinare, potrei lavorare in una trattoria, in cucina, oppure servire ai tavoli». Andrea sembra la più decisa a smettere. Dirlo con certezza, però, è difficile.
«Attenta alle polpette», mi avevano avvertita, ovvero alle bugie, alle esagerazioni. Sono certa di averne mangiate parecchie, ma sono anche convinta che il bisogno di cambiare vita ci sia davvero. Un po’ anche perché, come dice Lillo, «Siamo deviati dalla vita, ma tutti credenti, e le suore, con il loro amore, ci hanno cambiate dentro».
Quel dentro che, a chi non conoscono, lasciano intravedere per pochi attimi, più per distrazione che per scelta. Strazzeri, l’infermiere del corso, racconta che molte sono state buttate fuori di casa dai genitori, che non avevano scelta. Le solite cose, insomma.
Ma poi se ne esce fuori con una di quelle frasi che, da sole, bastano a spiegare tutto: «Se gli dai poco, ti restituiscono tanto», dice, «ma se gli togli quel poco, crollano».
Voi assumereste una di loro come badante? Ecco, adesso potete rispondere.