Una scomoda chiacchierata. Il teologo Leandro Rossi e i credenti omosessuali
Trascrizione del dibattito tra il teologo moralista don Leandro Rossi e i credenti omosessuali del gruppo Guado di Milano, tratta da il Guado, bollettino 69, III, 1999
Don Leandro Rossi (1933-2003) è stato uno dei più importanti teologi moralisti italiani, figura molto complessa, non facile da definire, sempre e tenacemente prete fedele al Vangelo. Tra le cause del suo improvviso e spontaneo abbandono dell’insegnamento e della ricerca teologica ci fu anche la sua battaglia contro la discriminazione nei confronti degli omosessuali.
Attaccato aspramente, reagì col silenzio e l’impegno in favore dei poveri. La stampa cattolica lo ha spesso ripagato ignorandone completamente l’impegno. Per ricordarlo pubblichiamo la trascrizione integrale della discussione da lui avuta, nel 1999, con i credenti omosessuali de il Guado di Milano sul tema “Quale castità per le persone omosessuali?“.
Gianni S. L’argomento di questa sera è la castità. Come si può conciliare la castità in un omosessuale con certi aspetti ‘promiscui’ che si osservano nella vita di molti omosessuali come l’andare a battere?
Don Leandro. Si è difficile che la coscienza, il principio dell’amore, il principio della nuova legge e Spirito Santo suggeriscano a qualcuno che l’andare a battere sia un bene. Questo di norma.
Poi ci sono i casi personali di ciascuno: se uno, ad esempio sta morendo di fame, dovrà pur sopravvivere. Ma normalmente no, certe cose non possono essere approvate dalla coscienza di qualcuno. Il problema è che bisogna rientrare in se stessi, vedere cosa dice la voce della coscienza (che è poi la voce dello Spirito Santo se si evitano i termini teologici).
Poi io non posso dire niente di nessuno. Né nel ben né nel male. Non posso mettermi al posto del Padre eterno, o al posto dello Spirito Santo e pretendere di giudicare un fratello. Io credo che chi fa questo compie uno di quei peccati contro lo Spirito per cui Gesù dice che non c’è remissione. Ma forse non ho capito bene la domanda.
Gianni S. Ci sono persone che vivono contraddizioni enormi e hanno portato avanti una sessualità promiscua anche a causa dell’insegnamento della Chiesa che dice che delle relazioni stabili non potranno mai essere approvate.
Gianni G. Sul discorso dell’andare a battere lancio un’idea. A me è piaciuto molto l’intervento di don Leandro perché mi ha chiarito alcune cose che vi racconterò dopo. Ma quando lui ha tirato fuori il discorso del minor male e ha tirato fuori il grande scandalo per cui si permette, in nome del minor male, di uccidere, mentre non si permette di usare il preservativo per non prendere l’AIDS.
Forse lavorando in questa direzione si può vedere una qualche via d’uscita. Nel senso che, pur non essendo delle situazioni ottimali, ciascuno deve però anche confrontarsi con le necessità che ha.
Gianni S. Io non vorrei cedere alla tentazione di dire: “Visto che la coscienza mi dice fallo, allora tutto è all’acqua di rose”
Nunzio R. Ma chi va a battere per il gusto di battere? C’è anche la solitudine che ti spinge a fare certe cose. Naturalmente ci sono anche i ‘viziosi’. Ma tanti sono spinti solo dalla solitudine che spesso c’è dentro di noi.
Gianni G. In realtà, chi vive una sessualità promiscua, non la vive molto serenamente. In genere la sessualità promiscua è legata a situazioni di malessere quali l’estrema solitudine di molti omosessuali.
Ma c’è un altro aspetto che va sottolineato, non è la sessualità promiscua quella che fa più problemi per la chiesa. Perché uno va, fa sesso male (perché certi modi di fare sesso non sono certo dei buoni modi di fare sesso), allora sta male per quello che ha fatto e quando va a confessarsi è realmente pentito di quello che ha fatto e quando il confessore lo invita a non fare più certe cose risponde convinto: “Si, si! Non voglio fare più certe cose!”.
I problemi vengono fuori quando uno abbandona la sessualità promiscua e inizia ad avere dei rapporti sessuali in cui c’è anche un componente affettiva che integra la sessualità in un contesto più ampio.
Gianni S. È vero! La chiesa mi dice: “Vai pure a battere che poi, se vieni qui a confessarti, ti assolvo purché tu sia pentito”
Gianni G. Non è proprio quello che dice la Chiesa, ma è certo quello che alla fine intendono molti omosessuali. Ma il problema che ha sollevato don Leandro è un altro. Lui dice: “E se invece provassimo ad applicare il principio dell’amore, il principio della coscienza e il principio del della nuova legge dello Spirito a una realtà omosessuale vissuta serenamente cosa salta fuori?”. Questa è la domanda che dobbiamo porci.
Don Leandro. La cosa strana è che se la prendono con le coppie di fatto omosessuali più ancora che contro la pratica della promiscuità.
Nunzio R. Ma la coppia di fatto è un minor male?
Don Leandro. Diciamo pure di si, ma ricordiamo che un male minore è sempre un ‘maggior bene’. Si tratta di una affermazione a cui si arriva per passaggi graduali.
Nel libro di don Domenico Pezzini c’è una nota su cui vorrei chiedere qualche delucidazione in più, perché il teologo che lì viene citato io l’ho conosciuto bene. Si tratta del moralista che aveva presentato il documento Persona humana in cui, nel 1976, si affrontava anche l’argomento omosessualità.
Lui, in quella nota sostiene che l’amicizia stabile tra due persone è un minor male. Non capisco allora perché abbia presentato un documento che stronca questo minor male. Se fosse vero quello che ha detto, si tratterebbe di un atteggiamento doppio che non posso condividere: l’atteggiamento di chi, in privato sostiene certe cose e poi, davanti alla stampa, dice il contrario.
Carlos S. Il relatore ha sottolineato il concetto di coscienza retta. Vorrei chiederle con quale parametro si possa stabilire la rettitudine della coscienza. Poi vorrei sottolineare che non ci si può assolutamente fidare della voce dello Spirito che parla da dentro, anche perché, di locuzioni interiori false, sono piene le cronache.
Don Leandro. Rivolgetevi ai filosofi per risolvere il problema dell’errore. Qualunque azione io faccia, posso cadere in errore. E allora cosa posso fare? Diventare scettico? Oppure mi comporto umanamente e il giorno in cui mi accorgessi di avere aderito a un errore, cambio.
Il papa, in questo tipo di discorsi fa comodo perché è l’elemento risolutorio a cui ci si appella. Ma stare con il Papa non risolve niente, perché ci vuol sempre una coscienza che mi dice: “Credi al papa”. A meno che uno non voglia essere spersonalizzato, decoscientizzato.
Dice il concilio: “Credi e poi, anche allora sei soggetto ad errore: non c’è né una persona, né un macchina che ti possano dire che le cose stanno di sicuro in un certo modo. C’è solo la tua coscienza che elabora e che ti dice cosa vuol dire il principio dell’amore, cosa vuol dire il rispetto dell’altro e così via”.
In questo senso quello di papa Giovanni era un tentativo di soluzione quando sosteneva che l’importante non è stabilire ciò che è vero o ciò che è falso, ciò che è certo e ciò che non lo è, ma valutare gli effetti che ci sono nelle vita di una persona che agisce secondo coscienza.
Se vedo che quella persona ama Dio e ama il prossimo; se vedo che è contenta, che fa del bene e più ne fa più si trova contenta. Allora quando questa persona mi dice qualche cosa è buona cosa crederle, perché la coscienza retta di quella persona può aiutarmi a trovare una norma di condotta a cui riferirmi nel fare le mie scelte.
Carlos S. Quindi alla base di un comportamento retto potrebbero esserci i dieci comandamenti.
Don Leandro. Certo! Certo! Magari!
Roberto C. Se fossero tradotti correttamente, perché ci sono anche traduzioni errate.
Gianni G. Direi che i dieci comandamenti sono dei criteri a cui occorre riferirsi per fare poi le scelte. Ma pretendere che diano sempre e comunque una risposta è un assurdo.
Il problema, infatti, non è se uccidere o meno, il problema è decidere cosa va fatto in un determinato momento, in una determinata situazione che drammaticamente unica. E allora le scelte le dobbiamo fare noi in prima persona con gli strumenti che abbiamo.
Va benissimo fare riferimento ai dieci comandamenti anche se non si risolve di molto il problema di valutare la bontà di una scelta: una scelta che ciascuno di noi è chiamato a fare in base alle mediazioni che fa in un determinato contesto.
Alla luce di quello che ci ha detto prima don Leandro, io credo che i parametri su cui fondare questa mediazione siano tre, traducibili in tre semplici espressioni: “Quanto amo?”; “Cosa penso che sia veramente giusto fare?”; “Signore se sbaglio aiutami tu a cambiare strada”.
Ecco allora che, quando dovrò decidere se dare uno schiaffo a un bambino che ha attraversato malamente la strada, sarò cosciente del fatto che mai potrò cogliere tutti i fattori che sono in gioco (la violenza, il dovere di correggere l’altro che sbaglia, le responsabilità ediucative che ho nei suoi confronti e così via).
Solo Dio non sbaglia mai. Noi invece, pur agendo in buona fede, siamo sempre soggetti al rischio di sbagliare.
Carlos S. Si tratta di chiedere il dono del consiglio.
Gianni G. Che non a caso è un dono dello Spirito Santo il cui primato ha, in questo tipo di discorsi, una grande importanza.
Carlos S. Vorrei fare un’altra osservazione a proposito della coppie di fatto. Il relatore mi sembra voler irreggimentare anche quella che io considero una assoluta affermazione della propria libertà.
Come fa lei a pretendere di attribuire dei diritti e dei doveri a persone che in nome della libertà hanno deciso di non formalizzare la loro unione?
Nunzio R. (rivolgendosi a Carlos) Io non ho capito. Tu sei contro o sei a favore delle coppie di fatto?
Carlos S. Io sono contro qualunque tentativo di irreggimentare le coppie di fatto.
Don Leandro. Qui non si tratta di irreggimentare. Qui si tratta di cambiare la realtà per fare un po’ di giustizia!
Gianni G. Don Leandro ha sottolineato un altro concetto che, secondo me, può aiutarci a rispondere alle domande di Carlos. Si tratta del fatto che la realtà non è mai solamente bianca oppure nera, ma che esistono anche infinite sfumature intermedie.
Questa idea è emersa molto bene quando don Leandro ha fatto quel discorso su matrimonio religioso e matrimonio civile. Per tanto tempo si è detto: “O ci si sposa in chiesa o altrimenti si è fuori dalla Chiesa”.
Ma, se si guarda la realtà, ci si rende conto che esistono, tra la situazione ottimale di due persone che osservano in tutto gli insegnamenti della chiesa e la situazione opposta di due che, professandosi anarchici, rifiutano qualunque progettualità nella loro unione ci sono veramente un’infinità di forme intermedie di relazione. Ma allora cosa facciamo: classifichiamo come cattive tutte le situazioni che non coincidono con la prima, oppure cerchiamo di tirare fuori il buono che c’è in ciascuno di quei casi intermedi?
Il problema non diventa più allora quello di dire: “Sono contro o sono a favore delle coppie di fatto”, ma quello di chiedersi: “Fino a che punto siamo rispettosi del positivo che c’è in ciascuna delle unioni che ho l’occasione di incontrare?”.
Mi viene in mente un episodio. Ho conosciuto un uomo che adesso gode di molta considerazione all’interno della chiesa che, quando ancora era giovane e professava il più assoluto ateismo, si era sposato con una sua coetanea e aveva avuto un figlio da lei. Poi ha divorziato e si è risposato qualche anno fa con una donna molto più giovane di lui.
Per la chiesa la sua situazione è perfettamente regolare: il primo matrimonio era stato infatti celebrato colo con rito civile e quindi non aveva nessun valore canonico. Io non mi permetterei mai di giudicare quest’uomo, ma non posso fare a meno di osservare che, nella chiesa, la morale viene intesa ancora troppo secondo un approccio di tipo giuridico e questo a scapito del Vangelo.
Carmelo R. Io volevo sollevare un problema, che salta fuori spesso nei nostri gruppi. Si tratta del problema della confessione. Quanti infatti non hanno la possibilità di avere un padre spirituale che conosca bene la loro situazione e sia cosciente del cammino che hanno fatto, si trovano di fronte dei confessori che dicono le cose più strane.
I sacerdoti, infatti, rispetto al problema dell’omosessualità sono veramente impreparati e non riescono a dare valore alla progettualità che ci può essere in un rapporto di coppia stabile. Come dobbiamo comportarci con questi confessori?
Se mi permette di raccontare la mia esperienza che è simile a quella di un missionario che deve aiutare i confessori che si bloccano quando sentono che ho una relazione stabile.
Di recente un sacerdote mi ha detto: “Non preoccuparti, perché dopo due o tre volte che verrai da me ti passerà”. Ma quando gli ho chiesto cosa dovevo fare mi sono sentito rispondere che dovevo buttare via tutte le cassette pornografiche che avevo. Sa qual è stata la sua delusione quando ha saputo che io di cassette pornografiche non ne ho? Poi mi ha intimato di separare i letti in cui io e il mio compagno dormiamo. Peccato che i letti siano già molto separati visto che dormiamo in due case diverse.
Insomma, poiché non rientravo negli stereotipi che lui aveva, mi sono sentito dire che non collaboravo, perché non accettavo di fare quello che mi consigliava lui.
Qui saltano fuori tutti i problemi che i sacerdoti hanno con la fisicità, al punto da esserne ossessionati. E allora cosa posso fare? Se ricorro alla mia coscienza rimango sempre nel dubbio di sbagliare, anche perché non ho davanti a me la testimonianza di qualcuno che è approdato alla santità attraverso il proprio essere omosessuale. Non ci sono strade precostituite.
La strada dobbiamo tracciarla noi, mettendoci in coscienza davanti al Signore e dicendogli: “Aiutaci a capire se le azioni che facciamo, io e il mio amico, ti sono gradite o meno”, E allora, magari, scopriremo che anche nell’amore che ci lega c’è il Signore. Certo. Qualche volta di fronte a un pensiero del genere mi scandalizzo, ma poi mi rispondo che occorre andare in fondo al cuore per vedere cosa, alla fine, rimane.
Quando ero bambino, ho sentito tantissime condanne che mi hanno bloccato. Poi, pian piano, è emerso dentro di me il desiderio di non restare solo, di avere un amico con cui condividere un tratto importante del mio cammino. E secondo me, dietro a questo desiderio c’era lo Spirito di Dio che agiva dentro di me. Allora, il compito che abbiamo è quello di andare incontro agli altri superando la paura. Io ci ho messo trentacinque anni per capirlo, ma adesso mi sento finalmente vivo.
Don Leandro. La situazione penosa dei confessori la conoscevo, ma non è da addebitare a loro, dietro c’è tutto un tipo di cultura. Guardiamo un attimo di capire il significato della confessione.
Detto in parole molto semplici è questo: “Due peccatori che narrano la misericordia di Dio mentre Dio interviene con la sua grazia e con la sua benedizione”.
Ma allora non sono, io sacerdote il giudice e tu penitente, l’imputato! Siamo due peccatori che narriamo quello che facciamo non per il gusto macabro di macerare nel rimorso, ma per dare gloria alla misericordia di Dio che è stata così buona con noi nonostante tutti i nostri sbagli. E vista in quest’ottica la penitenza diventa la prosecuzione, nel tempo, di uno stato d’animo lieto, della riconoscenza per il dono che la misericordia di Dio ci ha fatto.
Si è scoperto, abbastanza di recente, che la confessione, durante il Medio Evo, la si faceva anche davanti ai laici. In sostanza, succedeva che si poteva scegliere la persona con cui svolgere il dialogo penitenziale a cui seguiva l’assoluzione da parte di un prete. Un’assoluzione che diventava pertanto il gesto conclusivo di un percorso segnato dal confronto con un altro laico (scelto per la sua esperienza e per la sua saggezza).
Capisco comunque il vostro dilemma che vi spinge ad allontanarvi dal sacramento della confessione perché avente paura di trovare qualcuno incapace di comprendere la vostra situazione. E allora il rischio è quello di aprire inutilmente una ferita che vi fa soffrire.
Ma, se ve la sentite, andate a confessarvi anche se non sapete chi è il confessore: non andateci con l’atteggiamento di chi dice al prete: “Lei taccia, io sono qui a insegnare a lei”; ma andateci pure convinti delle vostre idee. Perché questi preti qualcuno deve pure aiutarli a capire quelli che sono come voi.
Andate e sentite la disapprovazione che vi da fastidio? Confrontatela con la vostra coscienza, perché ci può anche essere una disapprovazione giusta, da accogliere e da accettare.
D’altra parte ci può anche essere un’approvazione sbagliata, perché l’ultima parola, ricordatevelo, non è mai del confessore che ha il compito di istruirvi e di aiutarvi a cogliere il senso di quanto vi succede. L’ultima parola è sempre della vostra coscienza.
Roberto C. Sono contento che il ministro Balbo sia stato illuminato dallo Spirito santo. Ho apprezzato anche gli articoli che lei ha scritto su Rocca. Volevo sapere se questi articoli hanno provocato, a livello ecclesiale, un certo dibattito.
Don Leandro. Non ho ancora avuto notizia di reazioni. Per quel che so si tende a squalificare una persona puntando sulla forma: perché non porta il doppio petto, perché si lascia scappare una parolina può essere interpretata come non garbata. E allora dicono che quello che scrivi non vale la pena di essere considerato.
Io vorrei avere invece tanta carità e avere tanto coraggio di verità: perché non si può dire che è meglio, per un gay, vivere da solo, accostandosi a tutti quelli che gli garbano, invece si impegnarsi in un percorso comune di fedeltà.
Perché non si deve poter dire ai gay che: l’amore, la fedeltà reciproca, il rispetto per l’altro sono anche per loro un valore? Si vogliono difendere i valori o i disvalori?
Gianni G. Io ho un paio di domande. Alla prima ha appena risposto, quando di ha ricordato l’esigenza di parlar chiaro nella chiesa. Mi hanno molto commosso le parole con cui lei ha esordito.
Sono infatti convinto che uno dei principali problemi che oggi ha la chiesa, una delle piaghe che la feriscono è proprio questa incapacità di vivere con chiarezza il dibattito al suo interno.
E anche noi omosessuali abbiamo le nostre colpe, perché ci arrabbiamo quando certi ecclesiastici dicono stupidate sull’omosessualità, ma poi andiamo dal prete solo per raccontargli che stiamo male e che non ce la facciamo più ad andare avanti, dando loro un’idea completamente negativa dell’omosessualità che si ripercuote poi nei discorsi che fanno.
La seconda domanda si riferisce all’evoluzione che il magistero della chiesa ha avuto, negli ultimi vent’anni a proposito di omosessualità. Nel 1975, la Congregazione per la dottrina della Fede aveva emanato un documento su alcune questioni di etica sessuale in cui gli omosessuali erano trattati con grande rispetto e con grande carità (anche se gli atti omosessuali erano condannati esplicitamente).
Nel 1986, lo stesso dicastero vaticano, dedicava una lettera ai vescovi della chiesa cattolica all’argomento omosessualità in cui, accanto alla conferma della condanna per gli atti omosessuali, già affermata nel 1975, si parlava dell’omosessualità come di una condizione ‘intrinsecamente disordinata’ anche se si stigmatizzava qualunque forma di discriminazione nei confronti delle persone omosessuali.
Ora, se si guardano i discorsi che si fanno sulle unioni civili, sembra che anche quest’ultimo baluardo di comprensione presente nei documenti della Santa Sede sia venuto meno. E allora le chiedo: “Non le sembra che, al posto di andare avanti, si stia andando indietro?”
Don Leandro. Alcuni santi dicevano: “Quando le cose vanno veramente male, è proprio allora che vanno bene”. Lo dicevano i santi, ma erano santi proprio per questo. Io ho un altro principio molto più terra terra, che dice: “Le condanne diventano tanto più aspre quanto più un’idea si fa strada nella chiesa”.
Guardate ad esempio i discorsi che si stanno facendo sul celibato ecclesiastico, sul conferimento dell’ordinazione sacerdotale alle donne e su altre cose del genere. Più si insiste nel dire certi no, più il no prende piede.
Siamo alle soglie di un secolo che inizia un nuovo millennio. In questo millennio certe cose non le abbiamo mai avute, ma fra meno di un anno siamo nel terzo millennio, quello in cui potrebbero avvenire certi cambiamenti che desideriamo.
E a confortarci c’è un’altra osservazione che il buon senso ci suggerisce. Quanto più forte è la decisione e la forza con cui si difende un’idea, tanto più quell’idea vacilla.
Cinquant’anni fa, nella chiesa cattolica, nessuno si sognava di dichiarare impossibile il sacerdozio femminile. Ora lo si respinge con un’insistenza che si giustifica solo con il fatto che cresce il favore con cui molti cristiani lo considerano positivamente.
Ma forse voi volete sapere se certe cose succederanno presto, per avere la consolazione di vederle di persona. Ma ricordate che noi siamo nella mani di Dio e che, quindi, siamo in buone mani. La provvidenza ci farà arrivare là dove è giusto arrivare. Io credo, tu credi, noi crediamo, che il gioco della provvidenza si farà vivo presto e, per questo motivo, perseveriamo in questa speranza. Se succede dell’altro, domanderemo il perché, ma l’accetteremo offrendo a Dio la nostra delusione.
Domenico. Io dico sempre che i tempi degli uomini non sono i tempi di Dio.
Don Leandro. Ci sono delle volte in cui vorremmo prendere il posto dello Spirito Santo, ma.. Ma permettetemi una domanda su un argomento che mi sta a cuore. Cosa si può fare per educare i preti a fare una confessione che sia da una parte rispettosi della vostra coscienza e dall’altra un vero aiuto per andare avanti nella direzione giusta.
Gianni G. Io un’idea ce l’avrei. Se si facesse un librettino, un testo molto concreto, molto pratico, in cui evitare qualunque espressione che potrebbe scandalizzare il prete che lo prende in mano. Un librettino intitolato, ad esempio: “Cosa dire a un omosessuale che viene a confessarsi?”.
Sarebbe uno strumento che potrebbe aiutare il confessore a maturare un atteggiamento corretto facendo i conti, ad esempio, con il disagio che prova nei confronti dell’omosessualità (un disagio che è abbastanza normale e che però va superato per maturare un atteggiamento corretto). Non so se la cosa si potrà mai fare, ma io ritengo che sia molto utile.
Don Leandro. Il fatto è vero e l’ho raccontato in un libro senza mai essere stato rimproverato (e la cosa mi stupisce ancora). Eravamo al Passo della Mendola, durante un convegno organizzato dall’Università Cattolica e un ragazzo mi ha chiesto di confessarlo.
Durante la confessione mi ha detto: “Vede, io sono qui con la mia fidanzata. Ci vogliamo bene e non siamo mai andati insieme. L’altro ieri però lei era preoccupata per una cosa che l’angustiava e a un certo punto si è messa a piangere. Io l’ho stretta e alla fine abbiamo fatto l’amore, ma non sono pentito, perché l’ho fatto per consolarla, perché ero preoccupato per lei, solo per lei e il piacere che ho provato non è stato che una conseguenza inaspettata. Di questo non mi confesso. Ma mi confesso di aver ripetuto il giorno successivo la stessa cosa e questa volta per provare nuovamente le sensazioni piacevoli che avevamo provato il giorno prima”.
Sembra che in molti siano rimasti colpiti da questo episodio. D’altra parte era una cosa sincera e poi metteva in evidenza un aspetto importante: “Che il peccato non è all’esterno dell’uomo, ma è nel suo cuore, dentro di lui”.
Invece spesso si vede un automatismo che non tiene conto delle circostanze che accompagnano un determinato comportamento. Un automatismo che vede il Padre Eterno come un computer che fa tutti i suoi calcoli per stabilire se siamo stati cattivi o meno.
Gianni G. Siamo arrivati al termine del nostro incontro e vorrei ringraziare don Leandro. Prima però vorrei condividere con voi una riflessione molto breve che mi pare sintetizzare abbastanza bene le tante cose che sci siamo detti.
“Quale castità per le persone omosessuali?” ci siamo chiesti. E abbiamo scoperto che una persona omosessuale vive la castità, cioè mette la sua sessualità al servizio dell’amore nella misura in cui fa riferimento a tre principi essenziali. Il principio dell’amore che ci dovrebbe spingere a chiederci: “Ma quel che faccio, lo faccio veramente per amore?”.
Il principio della coscienza. Una coscienza che deve però essere retta, capace cioè di interrogarsi con sincerità sulla reale bontà delle scelte che compie.
E il principio dello Spirito, un principio che mi ricorda un suggerimento che, ormai tanti anni fa, un prete di grande santità mi aveva dato in un momento in cui gli avevo confidato la mia incapacità di osservare la continenza. “Guarda – mi ha detto – la tua situazione è veramente un macello (e potete ben immaginare quello che gli raccontavo), ma non preoccuparti troppo della tua sessualità disordinata. Fai quello che puoi, ma non diventare matto. Cerca invece di non mollare mai la preghiera”.
E allora, dire che c’è un primato dello Spirito. Dire che c’è un primato dello spirito significa proprio questo. Non preoccupiamoci tanto della contingenza e cerchiamo di conservare un’intensa vita di preghiera.
Io sono convinto che, se rispettiamo questi tre principi, anche noi omosessuali possiamo dire di vivere la castità.
Una castità diversa da quella a cui sono chiamati i monaci. Una castità diversa da quella a cui sono chiamate le persone sposate. Una castità diversa a cui sono chiamati quelli che, come noi, vivono una loro specifica diversità. Don Leandro mi corregga se ho frainteso il senso della sua relazione.
Don Leandro. Direi che va bene e vi ringrazio per l’attenzione che mi avete prestato. Vi ringrazio anche per le osservazioni che mi avete fatto. Perché è giusto contraddire il relatore. C’è sempre il rischio, quando si parla a un gruppo di persone, di dire: “Io sono il relatore! Io ho studiato, mentre voi che ascoltate non sapete niente!”.
Paulo Freire, a cui ho dedicato volentieri un mio libro, era solito dire che: “Non c’è persona che abbia studiato, che non debba anche imparare, e non c’è persona che non abbia studiato che non abbia qualcosa da insegnare a quelli che hanno studiato”.
Io mi sento come uno che è venuto a dialogare con voi e che è contento di averlo fatto. Perdonatemi se qualche volta mi sono lasciato prendere dall’enfasi dei discorsi: il fatto è che dentro ciascuno di noi si annida l’aspirazione di diventare il tutore unico dell’ortodossia contro il parere di chi non condivide le nostre idee. Si tratta di una cosa che capita spesso di cui occorre essere consapevoli.
Ma prima di finire desidero complimentarmi con voi per il fatto che vi ritrovate insieme. È bello infatti riconoscersi e volersi bene. Andate avanti. Andate avanti pure, che andate bene.