A Palermo abbiamo vegliato “per una Chiesa della misericordia”
Testimonianza di Antonio De Caro tenuta nella Veglia per il superamento dell’omofobia e della transfobia tenuta nella parrocchia “Mater Misericordiae” di Palermo il 18 maggio 2023.
Questa parrocchia, che porta il nome di Maria Madre della Misericordia, è stata dedicata nello stesso anno in cui sono nato. Allora qui intorno era tutta campagna, raccontavano gli anziani. Poi piano piano sorsero pian piano le case popolari e formarono un agglomerato, il “Rione delle Rose”, chiamato così per i tanti roseti, per lo più selvatici, che vi fiorivano in primavera. Ce ne sono ancora, per lo più nei giardini meno curati; un tempo, nel giardino intorno alla chiesa, c’era anche un magnifico cespuglio di rose canine. Fiori liberi e ostinati, un po’ disadorni, ma carnosi e profumati, liberi di essere sé stessi. Non fanno altro che essere sé stessi e fiorire, e semplicemente così rendono più bella questa via e il quartiere.
Questa parrocchia, nata dalla primavera del Concilio Vaticano II, ha una forma rotonda, per raccogliere i fedeli intorno alla mensa della Parola e del pane eucaristico; ma la forma richiama anche il mantello della Madre della Misericordia, la cui immagine sorride da sempre sui fedeli nell’interno dell’edificio.
Una Madonna che non piange ma sorride, finalmente, e un manto che vuole avvolgere e includere tutti: davvero una chiesa profetica, se pensiamo alla sensibilità di papa Francesco per il tema della misericordia e per il cammino sinodale. Una chiesa dove abita una comunità capace di accogliere, per pregare e crescere insieme, senza escludere e senza giudicare. La Veglia contro le discriminazioni non poteva non svolgersi qui, almeno una volta.
Sono stato invitato a portarvi la mia testimonianza perché questa è stata la mia parrocchia da bambino. Da ragazzo ho abitato qui davanti con i miei genitori. Qui ho frequentato l’asilo e la prima elementare, ho giocato, ho fatto la prima Comunione. Qui ho pregato e ho affidato a Maria gioie e affanni della vita. Qui abbiamo celebrato tanti eventi lieti e tristi della nostra storia familiare. Qui ho imparato una fede fatta di gioia e speranza, di consolazione e di rispetto: una fede adulta, consapevole e sensibile.
La Chiesa Cattolica per me è stata davvero annunciatrice e maestra dell’amore di Dio. Ma proprio l’intensità di questo messaggio ha provocato la mia confusione e il mio dolore. In lunghi anni di tormento non capivo perché mai in questo amore sconfinato trasmessomi dalla Chiesa non ci fosse posto per la mia omosessualità, che era ed è chiamata alla pienezza dell’identità e alla pienezza dell’amore.
Nella Chiesa non sono stato mai insultato né respinto: ma ciò che lacerava la mia anima era esattamente questo contrasto fra l’amore che mi veniva offerto di vivere e la condanna della dottrina. Non riuscivo a capire quale fosse il vero volto di Dio per me.
Durante una confessione, una volta, un sacerdote si mise a spiegarmi le norme del Catechismo sull’omosessualità, esortandomi ad accettare sottomesso le disposizioni della “Chiesa nostra madre”. Insisteva molto su questo volto “materno” della Chiesa, ma ad un certo punto lo interruppi. Prima di andare via, rifiutando l’assoluzione che mi offriva, gli dissi queste parole: “Io non so di quale madre lei sia figlio, ma la prego non offendere mia madre, che non mi direbbe mai: se vuoi puoi venire a casa, ma non puoi sederti a mangiare a tavola con noi; devi restare in un’altra stanza, o sulla soglia”.
Un altro sacerdote, invece, che spesso celebrava messa in questa parrocchia ed era anche un valido teologo, una volta ascoltò la mia storia e poi mi disse: “Tu sei libero di fare, di fronte a Dio, la sintesi di cui ha bisogno la tua anima. Provaci! Se la tua sintesi nascerà da una coscienza sincera e responsabile, il Signore non ti respingerà”.
Sintesi, riconciliazione, unità che crea armonia: era ciò che poteva guarire la frattura della mia anima, come poi è avvenuto molte volte, grazie a Dio, e sta avvenendo anche qui stasera. Qui, davanti a questo altare che mi ha visto bambino e ragazzo, e dove Dio torna ad accarezzarci tutte e tutti. Ma per questo la Chiesa deve comprendere che il “deposito (para-theke) della fede” non può rimanere un immobile macigno, da cui venire schiacciati; il messaggio di Gesù, se mai, è il dono di un’alleanza (dia-theke) che attraversa la storia, ascolta gli uomini e dialoga con loro, entra nelle loro vite e annuncia una salvezza rivolta a tutti, come facevano gli apostoli quando incontravano gli eunuchi in viaggio sulle strade polverose del mondo.
«Per non vedere il mondo come una serie di “atti impuri” non basta combattere la impurità, ma occorre anzitutto purificare lo sguardo» (A. Grillo).
Alcuni anni fa, qui a Palermo, è accaduto un fatto singolare e bellissimo. La chiesa valdese ha messo a disposizione il suo tempio per la celebrazione di un matrimonio. Sono stati uniti in matrimonio due uomini e la celebrazione è stata officiata da una donna, sacerdote della Chiesa Vetero-cattolica, che ha seguito pienamente la propria liturgia. Io c’ero, e ho ammirato con commozione, allora, la generosa e saggia accoglienza dei fratelli valdesi che hanno offerto il proprio spazio di culto senza pretendere che venisse celebrato il proprio culto.
E oggi siamo qui, in una chiesa cattolica, per un incontro di preghiera interconfessionale che – anche grazie all’arcivescovo Corrado Lorefice – segue il ritmo del culto riformato. Non posso dire di essere un esperto di ecumenismo, ma noto con stupore che quando le chiese accolgono le persone LGBT+ ritrovano un impulso alla concordia in cui sembra risuonare il desiderio di Gesù ut unum sint, ut unum simus.
Sarebbe un balsamo straordinario, per me e per noi tutti, sperare che le nostre sofferenze – tutte le volte che come persone LGBT+ siamo stati afflitti nella Chiesa – possano giovare alla riconciliazione e alla pace fra tutti coloro che credono, poiché l’unica vera normalità è l’apertura all’amore.