A piedi nudi nell’anima. Essere moglie, madre cattolica e scoprirsi lesbica
Intervista di Lidia Borghi pubblicata sul sito Rosso Parma il 27 gennaio 2015
Alessandra, classe 1963, romana per nascita, di origini lombarde, sposata e madre di due figli, laureata in Pedagogia sociale, cattolica, ha accettato di rispondere ad alcune mie domande, con lo scopo di far conoscere il suo percorso di guarigione dell’anima che l’ha portata, oggi, ad essere una lesbica liberata e senza velature.
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Scoprirsi lesbica in età adulta, nel ruolo di donna sposata, madre di due figli. Quando, di preciso, ti rendesti conto di essere innamorata di una femmina?
Ho a lungo pensato al termine scoprirsi e ancora adesso mi ci soffermo quando incontro esperienze simili alla mia. Credo che, in età adulta, non ci si scopra veramente, come invece accade nella fase adolescenziale o giovanile. Si prende consapevolezza, ci si connette al proprio vissuto, dando un nome preciso a ciò che si prova riappropriandosi di qualcosa che, per i più svariati motivi, si era messo da parte, nascosto, cancellato o, se possibile, rimosso. Il rendersi conto è diventato per me un appartenermi profondamente, vicina a ciò che ero e che sono e in cui, alla fine di un lungo percorso e scelte di vita, ho avuto la forza, il coraggio e la trasparenza di potermi finalmente riconoscere. La sensazione è stata quella di un ritorno a casa, non perché io fossi in esilio, ma perché il trovarmi a contatto con quella parte di me stessa che avevo messo da parte, ha rappresentato il darmi la dignità di persona in cui ho sempre creduto e che ho sempre cercato.
Il cammino di consapevolezza è stato per me un percorso a tappe. Il sentore di un orientamento diverso era spesso mascherato o risolto come un sentimento di forte amicizia verso le amiche a me vicine, anche se questa è un’elaborazione a posteriori e non consapevole al momento in cui vivevo certe sensazioni. Non avevo nessuno con cui confrontarmi né condividere il mio vissuto, non ho avuto esperienze corrisposte e quindi il passo verso l’accantonare e il negare la realtà era semplice. Poi le scelte di vita nel solco di ciò che cultura, educazione e formazione richiedeva e presentava come possibile, ma il pensiero ogni tanto si riaffacciava, quando vivevo forti coinvolgimenti verso le donne che incontravo.
Crescendo, la consapevolezza aumentava come la fatica di tenere a bada certi pensieri che, tuttavia, rimanevano solitari, intimi e non condivisi con alcuno. Tutto questo fino a quando sono riuscita a dare un nome preciso al sentimento che provavo verso quella che ora è la mia compagna e con la quale le parti di me, nascoste e messe da parte, hanno trovato una loro integrazione e le tante domande, finalmente, una risposta che, anche se ha richiesto coraggio, ha generato serenità e un senso di profonda dignità di me stessa.
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Alessandra vive e lavora a Roma, città che le ha dato i natali e che la vide laurearsi pochi anni fa. Ti va di approfondire questa mia domanda? Chi è Alessandra? Quale lavoro svolge?
Alessandra è una persona dai tanti interessi e da una vita sempre molto piena di impegni e progetti. È una persona curiosa della vita, in continuo cammino di consapevolezza di se stessa e delle relazioni che vive. È una persona impegnata nel sociale da sempre, sensibile all’ascolto dell’altro, del suo percorso di vita, come anche testimoniano le scelte di studio e professionali operate nel tempo. Tornando a parlare in prima persona, oggi sono una pedagogista sociale e una counselor abilitata e formata alla relazione d’aiuto e faccio dello strumento dell’ascolto la via privilegiata per stabilire un contatto con le persone e la loro vita, offrendo sostegno al percorso di coscienza di sé e di crescita.
La laurea, conseguita solo pochi anni fa, dopo scelte di vita di diverso tipo, soprattutto familiari e di madre, ha rappresentato un momento in cui mi sono presa cura di me stessa, ho letto in me le risorse di cui ero portatrice e le ho trasformate in un percorso professionale diretto sempre e comunque alla relazione interpersonale.
La laurea era il cosiddetto sogno nel cassetto, quel cassetto che pensi sia troppo tardi per aprire, sia passato il momento, sia da considerare un discorso chiuso e vissuto senz’altro con rimpianto. Invece il cassetto si è aperto, ma non miracolosamente. Il merito, oltre alla costanza, alla forza e all’appoggio, è stato della mia compagna che ha creduto in me e ha sostenuto passo dopo passo il mio percorso. Devo a lei, alla sua presenza, al suo incoraggiamento, alla condivisione dei tanti momenti del cammino, al suo bene profondo e anche alla pazienza nel sostenere le mie fatiche se quel giorno, entrambe ci siamo laureate. La parola in corsivo è per me molto importante perché reca il senso del nostro camminare insieme. Oggi mi occupo di formazione a vari livelli e di sostegno alla persona, sia singoli che coppie e famiglie. Porto anche il mio contributo e la mia professionalità in varie associazioni LGBT a sostegno del delicato cammino di consapevolezza del proprio orientamento e identità.
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Moglie, madre e lesbica, si diceva, nonché cattolica praticante. Un percorso travagliato che ti ha condotta ad essere, oggi, una persona autentica, liberata, che ha scelto di rifiorire alla vita, in una nuova primavera dell’anima. Quanto è stata dura, per te, librarti in volo, dopo aver abbandonato il bozzolo che ti teneva prigioniera?
Sicuramente si è trattato di un percorso non semplice, una sorta di rinascita, con tutte le gioie e fatiche che comporta. Ho sempre ricercato l’autenticità, il poter guardare me stessa e gli altri in trasparenza, senza nascondersi nulla ed è stato proprio questo il percorso più delicato, non perché io non lo volessi, ma perché non è stato semplice renderlo realtà nelle relazioni che vivevo e che costituiscono la parte profonda di me stessa. È stato duro librarsi in volo ma lo era ancora di più, vivendo la relazione con la mia compagna, rimanere in uno stato di non definizione, di non verità, di scissione interna che mi procurava malessere e creava distanza con le persone vicine e care.
Il costo è stato elevato, tanti i dubbi, i ripensamenti, i passi avanti ma anche quelli indietro, come anche i momenti di stasi in cui mi dicevo che, tutto sommato, potevo continuare senza operare grandi stravolgimenti della mia vita. Ma non stavo bene così e dovevo a me stessa qualcosa di diverso: il potermi accogliere e relazionare alle persone che amavo non malgrado ciò che ero, ma proprio in forza di ciò che sono e della ricchezza che il mio essere rappresenta. Così è venuto il momento del coming out con mio marito, compagno di cammino di tanti anni e con il quale c’è sempre stato un rapporto di affetto e fiducia reciproca. Il padre dei miei figli e del progetto di famiglia costruito nel tempo. Dopo di lui, quando ero pronta a farlo, è arrivato il momento di autenticità con i miei figli, che sentivo profondamente avessero il diritto di guardare alla loro madre in sincerità e verità. È stato sicuramente il momento più difficile, fatto di tante paure e timori di perderli, di esser rifiutata, di rompere quel legame che ci univa da sempre, ma non potevo continuare a mentire, a considerarli piccoli e non in grado di capire, ben sapendo che dovevo lasciare loro il tempo e lo spazio per elaborare il vissuto personale e trovare la giusta strada nel rapporto con me.
Ero animata e lo sono tuttora, dalla convinzione che tutto ciò che avevamo seminato in un tempo fatto di cura quotidiana, di parole, di gesti, di attenzioni, di presenza continua non sarebbe andato perso e non ci avrebbe fatto perdere. Sicuramente la relazione avrebbe dovuto essere ridefinita: ridefinire non è perdere ciò che c’è ed esiste fortemente nel cuore e nella vita delle persone, ma solo ampliare l’orizzonte, guardarsi per ciò che si è e decidere di continuare a camminare insieme nell’autenticità. Un’autenticità che come madre dovevo ai miei figli e alla loro dignità di persone. Oggi in queste relazioni c’è chiarezza, c’è legame vissuto ognuno dal proprio punto di vista e con le proprie capacità di comprensione e accoglienza, c’è un guardarsi negli occhi consapevoli della realtà e non oppressi da ciò che non c’è. Non più messaggi contraddittori e ambigui che minano il legame, ma un affetto che riesce a fluire più libero e sereno; negli ultimi tempi, invece, poco prima del coming out, le paure e i timori mi facevano leggere ogni loro atteggiamento o sguardo come giudicante e rifiutante. Questa era la vera prigione.
Oggi sono serena con loro e credo che questa serenità sia un dono che ogni giorno ci facciamo nello sceglierci nella verità.
Non rinnego nulla delle mie scelte passate, erano i passi che allora potevo compiere con gli strumenti che avevo in mano e la conoscenza di me stessa forse più limitata. Tutto è parte di me e nulla voglio perdere, perché mi ha condotto oggi ad essere quella che sono.
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Nell’ambito del III Forum dei Cristiani Omosessuali Italiani, tenutosi a Roma durante la prima fine settimana di ottobre del 2014, si è svolto un incontro a tratti toccante, durante il quale si è potuto parlare in profondità di coming out in famiglia da parte di una madre o di un padre, di maternità surrogata per le coppie omosessuali maschili che vogliano affrontare la sfida della paternità, nonché di omosessualità e fede; è ancora vivido in me il ricordo del tuo intervento e, in particolare, di una frase che mi ha colpita per l’amore che contiene: “Ho parlato al mio parroco, avevo necessità di un rapporto autentico per me e per lui; perché la chiesa della strada è orizzontale e perché comprendere significa ‘prendere con sé.’”Vorresti approfondire tutto ciò, Alessandra, per le lettrici ed i lettori di Rosso Parma?
La fede – e non la religione – ha sempre fatto parte del mio percorso di vita. Tengo a ribadire la distinzione, in quanto fede è per me relazione che parla di un Io ed un Tu, mentre la religione è apparato di leggi e codici che, troppo spesso, allontanano le persone piuttosto che renderle vicine. Capisco che potrebbe sembrare contraddittorio pensare ad un’integrazione tra fede e omosessualità, soprattutto all’interno della Chiesa Cattolica: ho sempre creduto e ancora oggi fortemente credo nella chiesa orizzontale, la chiesa della gente, della strada, dei rapporti tra persone al di là di ogni catalogazione, dei rapporti con i tanti sacerdoti che, giocando tutto se stessi, non hanno paura di mettersi dalla parte delle persone che manifestano vissuti particolari e delicati, rischiando in prima persona. Ne ho conosciuti tanti di sacerdoti così e continuo a conoscerne e questa è la mia grande forza. È questa chiesa che riesce a comprendere nel senso più profondo del termine. Comprendere non cognitivamente, non con la mente, ma prendere con sé la storia dell’altro, chiunque esso sia, qualsiasi colore abbia, qualsiasi declinazione conosca.
Prendere con sé come assumere su di sé la vita dell’altro, in un cammino di sostegno reciproco in cui non ci sia falsa accettazione ma piena accoglienza e libertà di essere. È il credere in tutto questo che mi ha portato necessariamente a parlare con il mio parroco, perché non era possibile per me stare davanti a lui in un rapporto di menzogna e falsità. Ho trovato ascolto, mai un giudizio, mai un pregiudizio, ma una persona che si faceva compagno di cammino senza avere verità preconfezionate in tasca. Oggi lo posso guardare in viso in autenticità e, quando entro in chiesa, ognuno di noi sa quali responsabilità assumersi nei confronti dell’altro e quale percorso faccia parte della vita di ognuno. Un’esperienza di grande liberazione e serenità. Non cercavo legittimazione o riconoscimento al mio essere ma chiarezza, onestà e dignità. Un continuare a percorrere la strada insieme ognuno così come è. Sono consapevole che la mia esperienza non è la stessa di tante altre persone che non hanno trovato ascolto e sostegno, ma anche la mia esiste e io ne sono testimone.
Da tempo faccio parte di Nuova Proposta, associazione laicale di donne e uomini cristiani omosessuali che condividono il proprio percorso di crescita umana e spirituale attraverso il comune confronto di esperienze di vita e di fede e, oltre a condividere il mio cammino con loro, offro la mia professionalità in sostegno alle persone che a noi si avvicinano. È quella chiesa orizzontale in cui credo.
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Qualche tempo fa hai aderito ad un’associazione che raggruppa persone con le quali hai in comune lo stesso vissuto. Quale appoggio ti stanno dando, quali gli scopi e gli ideali che vi accomunano?
Da quasi tre anni faccio parte di Rete Genitori Rainbow, associazione che riunisce genitori omosessuali e transessuali con figli e figlie da precedenti relazioni eterosessuali. Credo molto in questo percorso e devo ringraziare i fondatori Cecilia d’Avos, Fabrizio Paoletti, Valentina Violino e Alessandro Ozimo, per aver spezzato – come si farebbe con il pane – la propria vita, al fine di metterla al servizio di tanti come me, che avevano e hanno bisogno di accoglienza, ascolto e sostegno. Personalmente l’incontro con Cecilia è stato un momento importantissimo del mio percorso di consapevolezza e di decisione di prendere in mano più radicalmente la mia vita. L’accoglienza e l’ascolto, vissuto e provato fin dal primo momento, fatto di assenza di giudizio, di cura e riservatezza e il cammino di questi anni, mi hanno accompagnata, nel rispetto dei miei tempi e delle mie modalità, a guardarmi più profondamente dentro e a trovare, con l’aiuto e il sostegno dei tanti amici dell’associazione, il coraggio e la forza di affrontare il coming out in famiglia e oggi ad essere una persona più libera e serena.
Come per me è stato fondamentale avere un punto di riferimento, un luogo, un tempo e uno spazio in cui non sentirmi sola, davanti ad una difficoltà percepita più grande di me, come per me è importante il poter condividere la mia esperienza, i dubbi, i timori, come anche celebrare i momenti di gioia e di luce, così sento che l’associazione possa essere uno strumento estremamente valido per i tanti che hanno bisogno di supporto, per uscire dal buio della clandestinità e ritrovare se stessi in relazioni autentiche e libere. È nel servizio all’altro, al suo vissuto e alla sua vita di persona omosessuale e transessuale e, nello specifico, di genitore, che ritengo sia lo scopo e la finalità di Rete Genitori Rainbow, in un clima di ascolto non giudicante e di accoglienza incondizionata; in tale contesto sono stata accompagnata a prendere per mano me stessa e per questo sento di essere profondamente grata a chi, con la propria cura, attenzione, impegno e anche con fatica, ha reso e rende possibile un percorso di serenità e realizzazione personale.
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So che hai una compagna e ti chiedo, quasi in conclusione di questo nostro dialogo, di parlarmi in breve della vostra relazione d’amore di otto anni.
Riassumere otto anni di relazione in poche righe non è facile, soprattutto ripensando al percorso di consapevolezza che questo tempo ha conosciuto e di cui è stato costellato. Tutto è iniziato con una forte amicizia, intesa, sintonia, condivisione l’una della vita dell’altra e sembrava potesse bastare. In me è invece nato un sentimento d’amore quasi subito, ma questo lo posso affermare con certezza solo ora, riguardando il mio cammino, la consapevolezza raggiunta giorno dopo giorno e soprattutto il permesso di essere me stessa e di vivere a pieno questa relazione. Il percorso della mia compagna è stato più lento, infatti lei ancora adesso ha dei nodi da risolvere. Camminare a diverse velocità e modalità spesso non è stato facile e non lo è ancora, soprattutto quando ci si confronta con paure, dubbi, incertezze e, nel nostro caso essendo entrambe madri, con il timore di perdere i figli e di essere rifiutate. Non è facile ogni giorno scegliere il passo giusto e che vada bene ad entrambe, calibrare il ritmo del percorso, mettere insieme diverse vedute sul futuro.
Niente che non sia comune ad un qualsiasi rapporto di coppia, reso però più delicato dalla paura di essere se stesse fino in fondo e vivere in modo coerente al sentimento che si prova senza occultamenti, finzioni ed ipocrisie, rispetto ad una visione tradizionale dei rapporti in cui l’eteronormatività sembra essere l’unica via possibile e il contesto intorno a noi ci riconosce solo ed esclusivamente in un tessuto familiare eterosessuale e in un modello di mogli e madri. Il percorso non è facile come non lo è vivere in un contesto sociale che rigetta tutto ciò che non appare conforme alle regole universalmente riconosciute ed accettate e rischia di turbare gli equilibri destando paure di ogni tipo.
Le persone accanto a noi, le persone che veramente nutrono per noi un affetto sincero e incondizionato, ci hanno accolte, sostenute, supportate e rappresentano la cerchia di amici con i quali siamo noi stesse totalmente, in cui il nostro legame è pienamente riconosciuto e noi siamo esseri visibili e non clandestini.
Non è stato facile e per alcuni versi non lo è ancora definitivamente, mettere insieme due famiglie, la mia e la sua e le scelte relative a mariti e figli, in un clima più vicino possibile all’autenticità. Per me questo percorso è concluso, essendo io pienamente trasparente e visibile, mentre per lei è una tappa da consolidare. Viviamo una quotidianità molto condivisa e uno starci accanto fatto di amore, presenza, cura, attenzione e responsabilità reciproca, nella consapevolezza che il cammino ancora richiede scelte, decisioni e anche momenti delicati per essere vissuto in modo pieno e autentico.
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Infine, quale messaggio ti senti di far giungere alle tante lesbiche che, per le più svariate ragioni personali, ancora non sono riuscite a liberarsi della paura, che le rende velate, costringendole a condurre una doppia vita, fatta di grande ansia e di sofferenza continua?
Posso solo partire dalla mia piccola esperienza di vita: per me il peso della clandestinità, del sotterfugio, della doppia vita, della scissione interna, che provavo nel dovermi continuamente mascherare e mostrare per ciò che non ero, ha rappresentato lo stimolo per cominciare a lavorare su quei nodi che mi tenevano legata ad una vita non autentica. Il costo che pagavo ogni giorno guardandomi allo specchio e non riconoscendomi era diventato troppo elevato, rispetto alla fatica necessaria per uscire allo scoperto e instaurare rapporti veri, senza finzioni. Nessun costo vale la dignità di se stesse e questo lo pensavo anche quando la difficoltà e la sofferenza erano grandi.
Questa è la speranza che voglio lasciare: il cammino non è facile, ma la posta in gioco vale qualsiasi percorso seppur accidentato in quanto, alla fine della strada, ci attende il premio di essere veramente se stesse e di godere di quella libertà e pace interiore che, se non cancella, mette in secondo piano la fatica del cammino.
E in tutto questo è fondamentale credere che non si è sole. Se si perderanno dei rapporti – ed è fisiologico, in quanto non tutti hanno la capacità e la volontà di comprendere e accogliere – tanti altri rimarranno o nasceranno, diventando la forza su cui basare il proprio cammino. Sarà trovare e scoprire, anche inaspettatamente, compagni di viaggio che, prima di chiederti cosa sei, come vivi la tua sessualità e in quale orientamento o identità ti riconosci, ti chiederanno semplicemente come stai e se sei finalmente serena.