A volte si diventa santi, ma per distrazione
Riflessione di don Carlo Nardi pubblicata sul settimanale parrochiale Castello7 del 7 ottobre 2007
“In effetti quel sentire cristiano di grazia, gratuità e gratitudine ci diventa facilmente estraneo. E’ invece una grazia“. Nella “Lettera di S. Paolo ai Romani” se alcuni punti ci sconcertano ed irritano fino alla rabbia, come un cazzotto nello stomaco, è segno che in noi c’è un po’ di vitalità cristiana. Tutto sta ad avere il coraggio di lasciarci inquietare da Cristo morto non per le persone perbene, ma “quando eravamo ancora peccatori …“, allora Cristo è morto per noi.
Sentii dire, non ricordo da chi, una frase un po’ provocatoria, ma molto bella e per vari aspetti molto vera: “si diventa santi per distrazione“. Il detto mi ricorda il Vangelo secondo Luca di questa domenica ventottesima del tempo ordinario: «Siam dei servi buoni a nulla: s’è fatto quel che s’avea da fare», come lo tradurrei volentieri non so se in italiano letterario o in toscano nostrale: forse un po’ in tutti e due. Come dire: “S’era in ballo e si è ballato“, tra l’altro con un’altra immagine evangelica, quella dei bambini che stanno o non stanno al gioco, nel senso che si doveva o si poteva fare un po’ di bene e si è fatto.
E’ questione di “povertà in spirito“, ma anche di semplicità di stile, semplicità che mette a proprio agio, stile ben diverso da una contabilità affettiva nei confronti del prossimo e di computo di “meriti” in rapporto al Padre Eterno.
In effetti quel sentire cristiano di grazia, gratuità e gratitudine ci diventa facilmente estraneo. E’ invece una grazia che nei prossimi mesi con tutta la diocesi si sia invitati a prendere in mano la Lettera di S. Paolo ai Romani. Se alcuni punti ci sconcertano ed irritano fino alla rabbia, come un cazzotto nello stomaco, è segno che in noi c’è un po’ di vitalità cristiana.
Tutto sta ad avere il coraggio di lasciarci inquietare da Cristo morto non per le persone perbene, ma “quando eravamo ancora peccatori …“, allora Cristo è morto per noi.
La Lettera ai Romani inquieta e non poco. Ci fa capire la differenza tra una umiltà vera e un umilismo di maniera, tra la schiettezza dello stare alla pari, che nella maggior parte dei casi è più umile che mettersi al di sotto di qualcuno, con quella punta di orgoglio di essere riusciti a farlo, ma senza quella distrazione, la sola “che accetto il don ti fa”.
La Lettera ai Romani, come quella ai Galati, ci può aiutare nelle vie della grazia, della gratuità, della gratitudine. Ma c’è un sunto di questi testi di s. Paolo, ed è la parabola del fariseo e del pubblicano, quest’ultimo non certo uno stinco di santo, eppure il solo a uscire dal tempio giustificato, ossia “fatto giusto” da Dio, come racconta Luca, per l’appunto discepolo di Paolo.
E se uno vuol farsi accompagnare nella lettura di Paolo, non c’è che da chiamare in aiuto sant’Agostino, che ha preso sul serio, – talora anche troppo -, la Lettera ai Romani.
Tantissime volte Agostino ci parla con le parole di Paolo di quell’«amore di Dio riversato nei nostri cuori dallo Spirito santo che ci è stato donato». Chi ci pensa spesso e volentieri sposta la sua attenzione dal proprio io ingombrante di orgoglio, anche se pieno di pie pretese, per volersi fidare di quell’amore di Dio, e questo gli basta.