Abdellah Taïa, gay e mussulmano, un paria che ha vinto il pregiudizio
Articolo di Dounia Hadni pubblicato sul sito del giornale Liberation (Francia) il 5 gennaio 2017, libera traduzione di Marco Galvagno
Abdellah Taia è uno scrittore che ha scelto di scrivere in francese e di vivere a Parigi, ma resta attaccato al suo paese d’origine il Marocco, che vieta l’omosessualità. Lo incontro nel suo minuscolo appartamentino di 19 metri quadrati, dove è tornato da poco, dopo che lo aveva lasciato qualche mese fa. Ma lui è fatto così, torna sempre sui suoi passi. Ritorna alla madre, all’infanzia, alla sua lingua madre l’arabo e alla propria sessualità, anche se abita a Parigi da quasi venti anni.
Abdellah Taïa è uno dei primi scrittori arabi e marocchini ad aver rivelato la propria omosessualità, un tema ricorrente nei suoi romanzi. Ha fatto coming out nel 2007, in Marocco dove l’omosessualità è ancora considerata un reato, correndo così il rischio di essere rifiutato dalla sua famiglia, insultato e allontanato dai suoi cari e ci è mancato davvero poco.
Non ci aspettavamo che fosse così autoritario le poche volte in cui l’abbiamo visto in tv. “Un dittatore simpatico” lo definisce il fotografo, dopo aver scrutato il suo viso ancora giovane, mentre lo scrittore tenta di guidarlo con un’insistenza affascinante e quasi molesta. “Proprio così” scoppia a ridere lui che lo prende come un complimento.
Ha 43 anni ma ne dimostra una quindicina in meno, nonostante i rari capelli grigi che si diverte a mettere in mostra in modo quasi ridicolo; ci fa accomodare in mezzo a scatoloni stracolmi di libri, film e poster come nella stanza di uno studente, ci offre del tè e dei biscotti e mandarini a volontà. Dal suo modo di fare capiamo perché i suoi amici parlino di lui in termini così dolci e affettuosi, contrariamente alla durezza insita nei suoi libri.
Nel suo ultimo romanzo Celui qui es digne d’etre aimé, il personaggio principale è anche lui un omosessuale marocchino che evoca con parole molto dure la propria madre, la descrive come un tiranno di cui non riesce a sbarazzarsi, nemmeno dopo la sua morte, proprio come lo scrittore. Abdellah Taïa parla di un mondo interiore il suo: il suo Marocco, povero e opprimente, i rapporti tremendi con la famiglia. Penultimo di nove fratelli è cresciuto in appartamento con tre stanze di 50 metri quadrati in un quartiere popolare di Salé, non lontano da Rabat, ma non ha brutti ricordi. La sua infanzia è scandita dal ritmo delle fiction egiziane che guardava con le sue sorelle e che rivede ancor adesso su You tube.
Arriva a Parigi, a 26 anni dopo essersi laureato in letteratura francese a Rabat e si lancia in una tesi di dottorato su Fragonard e il romanzo libertino del XVIII secolo, si improvvisa professore di arabo, guardiano nei musei, lavapiatti nei ristoranti. Dal 2003 al 2010 fa il baby sitter e quell’anno ottiene il premio Flore per il miglior romanzo con Le jour du roi.
“Com’è io che sono un poveraccio, più povero dei poveri francesi, sia riuscito a dar la scalata a Parigi per realizzarmi come Rastignac, francamente non lo so” ammette stupito. Non capisce come mai non ci sia più nessuno in Francia che voglia fare il mestiere di Zola “a parte forse Edouard Louis”. Si chiede anche come qualcuno proveniente da un paesino povero del Marocco e che ha imparato davvero il francese a diciotto anni, si ritrovi ora scrittore nella Ville lumière.
Perché hai voluto scrivere in francese? “Perché era la lingua che i ricchi del Marocco usavano per schiacciarci. Volevo impararla per vendicarmi” mi confessa con una voce stranamente dolce. “Ho sentito l’urgenza di scrivere in questo periodo dopo aver mandato una lettera d’amore, firmata con il mio nome, al professore di matematica del liceo”.“Una lettera che non ha ricevuto risposta, ma è stata il primo passo verso il mio coming out, quando avevo 32 anni”.
Una rivelazione che gli è valsa la prima pagina sul settimanale marocchino francofono Tel Quel e da allora in poi, con la ribalta mediatica, sono giunti anche gli insulti nei denti: “Frocio, puttana, carrierista”. Li sopporta con rassegnazione, se li tiene cuciti addosso, come un anticorpo per difendersene.
Se vive liberamente la propria omosessualità in Francia, si trova però a confrontarsi con un’altra prigione, quella dello sguardo altrui che lo segue anche nelle storie d’amore.
“Mi sento bloccato in una visione colonialista, sento che vogliono rendere asettico tutto quello che è insito nella mia cultura”. Abdellah rimpiange anche il clima culturale attuale “Anche se vesto i panni del bravo arabetto, frocio oltretutto, rimango per alcuni un potenziale terrorista”.
Lo scrittore parla con passione dei marocchini e dei francesi come di due specie distinte. Non sappiamo se lasci cadere nel discorso parole arabe per creare complicità o se sia naturale per lui, dato che la sua apparente spontaneità lascia trapelare anche una certa strategia, ma lui la chiama “strigarsela alla marocchina”.
Volubile, parla di tutto senza vergognarsi, quasi troppo: “Quando ho incontrato lo storico Jean Starobinsky, mi sono sbrigato a toccargli i vestiti, mi avrebbero portato fortuna. Lo trovo una cosa bella, elementare, non è una superstizione, come sostengono gli occidentali. È una specie di abitudine da noi” dice sghignazzando.
Non si lascerebbe scappare la minima opportunità, questa ossessione viene da lontano. “Dato che nostra madre ci faceva vivere con 150 dirhams al mese, circa tredici euro, sono diventato un esperto di tzawig (suppliche), sai come si fa? Quando bisognava baciare una mano, io ad esempio ne baciavo due ad esempio per convincere il droghiere a farci credito.
Facevamo regolarmente ijtma (riunioni) in cui decidevamo quello che ognuno di noi doveva fare per sopravvivere. Ho imparato anche l’arte della seduzione, che rasenta la manipolazione, grazie alla zia Messaouda che faceva la prostituta. Lei era la puttana di famiglia ed io la seconda, in quanto gay”.
E la religione in tutto questo? “Sono musulmano”, “Praticante?”, insisto, “Sì!”. “Digiuno a modo mio, prego in silenzio, invoco Dio quando nomino mia madre”. Non c’è motivo di tergiversare.
Arriviamo a parlare di politica. Lo provoco sul re del Marocco. Pur restando padrone di sé tradisce un po’ il suo pensiero “Come parlare di lui, senza attirarmi grane?” . E in Francia allora? Lei vota? “Non ho ancora mai chiesto la nazionalità francese per pigrizia. Bisogna che lo faccia. Devo confessare che il mio cuore batte sempre più per Macron. Trovo che abbia un lato stendhaliano.”
Nel momento di salutarci ci regala una cartolina che rappresenta la lotta di Giacobbe con l’angelo di Rembrandt. Così, basta non andarsene a mani vuote, e nemmeno il nostro cuore lo è.
Testo originale: Abdellah Taïa: paria gagné