“Accoglietevi gli uni gli altri come Cristo ha accolto voi” (Rm 15,7)
Meditazione biblica della teologa Serena Noceti* su Romani 8,35-39 tenuta nella preghiera online nella Settimana di preghiera per le vittime dell’omofobia e della transfobia del 13 maggio 2021
Noi che siamo i forti abbiamo il dovere di sopportare l’infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi. Ciascuno di noi cerchi di compiacere il prossimo nel bene, per edificarlo. Cristo infatti non cercò di piacere a se stesso, ma come sta scritto: gli insulti di coloro che ti insultano sono caduti sopra di me. Ora, tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture teniamo viva la nostra speranza. E il Dio della perseveranza e della consolazione vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti ad esempio di Cristo Gesù, perché con un solo animo e una voce sola rendiate gloria a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo. Accoglietevi perciò gli uni gli altri come Cristo accolse voi, per la gloria di Dio. (Romani 15,1-7)
Il brano biblico che abbiamo ascoltato questa sera, che – come dice Paolo – ci è dato per la “nostra istruzione, consolazione, perché alimenti la nostra speranza”, ci pone davanti a dinamiche che segnano il volto della comunità cristiana. Ci sollecita a ripensare lo stile delle nostre relazioni ecclesiali e il modo in cui pensiamo noi stessi e guardiamo agli altri.
La vita della chiesa è spesso segnata dalla compresenza difficile tra “deboli” e “forti”; da tensioni che oppongono “deboli” (persone immature nella fede, maggiormente preoccupate dalla ottemperanza di leggi e dell’adeguamento a regole di purità, quelli che Paolo presenta nel cap. 14 della Lettera ai Romani) a “forti” (quei credenti che sperimentano la libertà del vangelo di Cristo e sanno in questa luce distinguere l’essenziale e il definitivo del mandato dell’amore da ciò che è regola transeunte o frutto di tradizioni ricevute, che alcuni pensano immutabili mediazioni tra Dio e il credente).
Paolo usa per indicare i “forti” la parola dynatoi, “coloro che possono”, che hanno la “dynamis”, quella potenza/possibilità di vita che segna chi è stato liberato da Cristo. I “deboli” sono adynatoi, persone che “non possono”: non conoscono la potenza del vangelo, sono determinati dalla coscienza legalista e cercano sicurezza nei confini della legge che delimita i confini “Noi/voi” – “fuori/dentro”. Si sentono “confermati” nell’adempiere regole, prescrizioni che sanciscono puro/impuro – sacro/profano, e finiscono per imporre gioghi pesanti sulle spalle altrui, in nome di codici immutabili di cui si autodefiniscono custodi e interpreti.
Dobbiamo chiederci: come potremo co/edificarci come comunità? come vivere relazioni comunitarie, deboli e forti insieme? Come essere nella storia quel “Noi di chiesa”, capace di un “sentire unanime” e di una “comune professione di fede” (con una sola bocca) che è segno del Regno di Dio, comunione con Dio e comunione nella differenza?
La lettera ai Romani ci consegna quattro indicazioni:
- Paolo si appella a noi questa sera, a noi che siamo “forti”, che “possiamo” perché la tenerezza forte e leggera del vangelo del Regno ci ha segnato, e ci ricorda che abbiamo un “dovere” (in greco: opheilein). Non è una norma/una legge, ma una diretta implicazione dell’essere cristiani: ci chiede di “portare il peso” (non tanto “sopportare”) della debolezza di chi non può capire, di chi ancora è nel regime ristretto del pregiudizio e della non accoglienza, di chi discrimina, offende, ferisce. Poniamo nella nostra preghiera questa sera un nome, un volto di una persona che si è mostrata “debole nella fede”, con le sue parole e le sue azioni.
- Poi Paolo ci riporta nel profondo della nostra coscienza: molto dipende dalle motivazioni che ci guidano e verso dove orientiamo il nostro sguardo. Non si tratta di operare nei confronti dei deboli con condiscendenza, di autocompiacersi per la nostra libertà interiore o per il grado di maturità che riconosciamo di aver raggiunto (o perché ci pensiamo consapevoli servitori della verità) ma di “piacere a Dio” (Rom 8,8) e di “piacere all’altro per il bene”.
Servire la comunità, servire la chiesa chiede di superare tentazioni narcisistiche, di superare pretese di vanto interiore. Il metro del nostro agire non può mai essere il livello della autocomprensione del “forte”; il punto di partenza sta nel passo possibile nel cammino dell’altro, il debole. Paolo lo chiede ai forti, a chi può, a chi già vive le logiche dell’accoglienza; i deboli non possono …. Vanno accompagnati consapevolmente a un passo previo: scoprire la forza liberante e inclusiva del vangelo nella loro esistenza.
Nessun atteggiamento masochistico né tendenze ascetiche di rinnegamento ingiustificato di chi siamo, delle nostre idee, della nostra identità, ma quelle scelte, quegli atteggiamenti che sono possibili per chi prende come criterio di giudizio e parametro di azione non le proprie capacità, ma il bene possibile e sperato per l’altro.
La nostra libertà ci spinge a comprometterci con e per l’altro, per la sua liberazione, per il nostro – migliore – “futuro comune”.
Si tratta di giocarsi con creatività, chiedendosi come interrompere, come rovesciare le prospettive dell’altro, e di farlo assumendo su di noi la responsabilità della sua maturazione di fede. Perché la fede di chi non accoglie attivamente, di chi non pensa con l’altro, di chi mi condanna e mi etichetta … non è ancora segnata dalla logica cristiana.
3. si tratta (terzo passaggio) di “assumere gli stessi sentimenti gli uni verso gli altri”, o meglio di “assumere una forma di pensare unanime” (phroneo; cf. Fil 2,1ss), facendo nostra la logica della reciprocità quella di chi è consapevole che talora si è forti, talaltra deboli; quella di chi sa di essere inter-dipendente all’altro /interconnesso con l’altro / compartecipe della stessa unica, umanità
di chi sa di essere nella condizione di “dare” e di “dover-voler-poter ricevere” (è divino non solo donarsi agli altri, ma anche ricevere)
ri/conoscersi nella reciprocità, cor/risponderci (quel cor/rispondere che a volte è anche tensionale o conflittivo).
Veniamo consegnati gli uni agli altri: ci consegniamo in libertà al Noi comunitario e agli altri (e se dico “gli altri” indico anche la differenza che permane e che si percepisce).
Nella chiesa l’orizzonte ideale non è una prospettiva di unità per uniformismo, ma di richiamarsi tutti alla condivisione di logiche comuni in Cristo e secondo Cristo.
4. Quarto: siamo chiamati questa sera ad “accoglierci l’uno l’altro” e a operare così perché la chiesa di Cristo sia realmente inclusiva, sia spazio di una ospitalità che fa crescere e uscire dal proprio “non potere” del fardello legalista che obnubila la vista e ti impedisce di vedere, cogliere, accogliere l’altro. Sappiamo bene quanto sia arduo e difficoltoso, perché la nostra memoria ci rimanda immagini ed esperienze sofferte di esclusione, marginalizzazione, allontanamento, estromissione, rifiuto.
Nel darsi dell’amore reciproco, nella accoglienza senza barriere, si riconosce che “primo è il legame di amore” che ci fa esistere tutti “forti e deboli”: il primum è la co-appartenenza all’umano.
Paolo ci offre una motivazione di fondo perché questo si dia in noi e per noi:
I – dobbiamo pensare “secondo Cristo Gesù” (greco katà): Gesù è colui che ha sperimentato sulla sua carne oltraggio, rifiuto, offesa, giudizio di condanna (citazione del Sal 68,10 LXX), che ha fatto così sua la causa di ogni escluso, oppresso, scartato, umiliato, e in questo contesto, per tutti –oppressori e oppressi- e con tutti, ha offerto in libertà e amore la sua vita, il suo spirito.
II – lo facciamo “come Cristo” e “siccome Cristo” ci ha già accolto: non è solo un “come” di imitazione (Gesù come modello del nostro stile di vita), ma anche un “siccome” di causa (dal momento che Gesù ci ha accolto): noi accogliamo (noi –forti- sappiamo accogliere) perché prima di tutto Cristo ci ha già accolto tutti, forti e deboli. Lo conosciamo nella fede, lo abbiamo sperimentato negli incontri e nelle relazioni di amore accogliente che ci sono state donate.
La nostra chiesa è sfidata a prendere parola, per svelare l’inconsistenza della posizione di tanti “deboli” che pretendono di imporre gioghi e di determinare confini; noi siamo sfidati questa sera non solo ad annunciare ancora il vangelo, buona notizia di liberazione, ma anche a farlo nello stile di Gesù, nonviolento e ospitale: ciascuno è chiamato a pensare se stesso e pensare l’altro (quel nome, quel volto, quella persona a cui abbiamo pensato all’inizio) nella luce che viene dall’accoglienza che Gesù ha già posto in atto per tutti noi.
Allora ci sarà per noi, per le nostre vite, per la nostra chiesa il dono benedicente di Dio, che è perseveranza (cioè capacità di rimanere in cammino, di tenere la posizione intorno a ciò che vale), consolazione (che nasce sempre da una opera trasformante di Dio), speranza (cioè capacità di guardare la realtà sociale, la realtà ecclesiale sotto il segno del “possibile” di Dio -della potenza impotente rivelata in Gesù- che crea il nuovo). Discepoli/e di Gesù e credenti in un Dio creativo, colui che fa nuove tutte le cose e che tutte le coscienze e le relazioni anima e rinnova.
* Serena Noceti è docente ordinario di Teologia sistematica presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Firenze e tiene corsi presso la Facoltà teologica dell’Italia centrale. E’ socia fondatrice del Coordinamento Teologhe Italiane e vicepresidente dell’Associazione Teologica Italiana.