Che ho fatto io per meritare questo? Quando il cuore e il cinema hanno le ali con Almodovar
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Scheda di Luciano Ragusa con cui è stato presentato al Guado il film “Che ho fatto io per meritare questo?” di Pedro Almodovar il 19 gennaio 2020
Come ho avuto modo di sottolineare in altre schede, il cinema, diventa forma d’arte quando è in grado di veicolare allo spettatore buona parte della sua capacità semiotica. Tale prerogativa, articolata in segni, significanti, teorie della rappresentazione, ecc., possiede la forza non solo di narrare uno stato di fatto, ovvero documentare attraverso il linguaggio scenico una serie di eventi, ma di preludere, o addirittura inventare, spazi e sottospazi sconosciuti alla coscienza collettiva.
Pedro Almodóvar, il più importante regista spagnolo vivente, ha mostrato, in una carriera che sfora quattro decenni, com’è possibile creare un immaginario visivo che, a beneficio di quello sociale, sfonda il tessuto di uno schermo cinematografico, cambiando il modo di pensare di un’intera comunità. Mi rendo conto che il passaggio andrebbe meglio articolato, ma credo che chiunque possa intuire come alcuni film del regista abbiamo alterato nel profondo il costume degli spagnoli, se non addirittura agevolato l’iter legislativo che ha consentito al governo Zapatero di approvare i matrimoni gay.
Dunque un cineasta che, grazie ad un lavoro di dissacrazione costante, registri narrativi che vanno dal melò alla commedia, umorismo sferzante che disarciona la violenza dell’esistenza, humor che ci difende dall’ipocrisia, ha saputo farsi profeta in patria di un avvenire tangibile, dove nessuna “persona” è esclusa per principio dal meccanismo tragicomico della vita.
Non esistono per Almodóvar tendenze proibite, tutti possono aspirare al piacere e all’amore, compresa la strana fauna che popola le sue pellicole: emarginati, pornostar tossicomani, toreri serial-killer, magistrati transessuali, spacciatori quattordicenni, viados sieropositive che mettono incinte novizie, casalinghe omicide, donne in procinto di crollare, padri che hanno rapporti sessuali con figli, terroristi omosessuali, fuggiaschi da ospedali psichiatrici, ninfomani, prostitute, tutti descritti con indulgenza e compassione, senza le quali, verrebbe meno la credibilità stessa dei protagonisti.
Ora, ciò che mi interessa sottolineare in questa sede, al di là dei generi e dei soggetti scelti dal regista, è che la sua parabola artistica non è di immediata comprensione: soprattutto se facciamo riferimento ai primi dieci/dodici anni della sua carriera, che coincidono politicamente con il “decennio socialista” della neonata monarchia parlamentare spagnola.
Dopo la vittoria della sinistra alle elezioni del 1982, precedute nel 1981 da un fallito colpo di stato militare, la politica cinematografica di Felipe Gonzáles, presidente del governo fino al 1996, si premurò di riformare l’industria del cinema sia in termini di razionalizzazione dei costi, che di interventismo culturale, inteso come produzione di pellicole con valenza “antifranchista”.
Considerando che il primo lungometraggio del filmmaker, Pepi, Luci, Bom, e le altre ragazze del mucchio, è datato 1980, si comprende come una miope storiografia spagnola lo abbia liquidato, almeno fino alla metà degli anni 90’, come autore, quantomeno eccentrico, che si prefigge di educare alla pratica democratica.
Il problema sta nel fatto che Almodóvar inventa un immaginario visivo che è certamente affine al post-franchismo, ma una Spagna siffatta, in
quel momento, non esisteva ancora! La sua capacità di anticipare i tempi, di sfondare letteralmente i decenni fino ai giorni nostri, fanno sopravvivere le sue pellicole all’attacco del tempo, perché prive di intenti didascalici che caratterizzano il cinema spagnolo degli anni 80’.
Che ho fatto io per meritare questo? (1984, protagonista della nostra proiezione), Matador (1986), La legge del desiderio (1987), Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988), Légami (1990), Tacchi a spillo (1991), Kika – Un corpo in prestito (1993), sono film che hanno aiutato i propri connazionali ad inventarsi una convivenza fuori da meccanismi oppressivi, e forse, a sentirsi più in sintonia con il proprio continente e con il mondo. E nel frattempo, a consolidare la popolarità internazionale di Pedro, il quale, nel 1999, riceve l’Oscar nella categoria Miglior Film Straniero per Tutto su mia madre, il suo capolavoro in senso assoluto.
CHE HO FATTO IO PER MERITARE QUESTO?
Uscito nelle sale spagnole nel 1984, il film, si inserisce a metà strada rispetto al percorso artistico che porterà il regista a cesellare il proprio stile. Da un lato, perciò, troviamo in esso il carattere tipico “fumettistico” con cui Almodóvar ha sceneggiato e ripreso Pepi, Luci, Bom, e le altre ragazze del mucchio (1980), Labirinto di passioni (1982), L’indiscreto fascino del peccato (1983); dall’altro, invece, gli stilemi che lo consacreranno come il regista spagnolo vivente più importante.
Come sottolineato precedentemente, non si è compresa nell’immediato l’importanza della pellicola, rubricata velocemente dalla critica quale esperimento visivo girato alla bell’e meglio. Ma al suo interno, molto più che allo stato embrionale, troviamo al completo i ferri del mestiere che lo traghetteranno verso la Palma d’oro a Cannes come miglior regista, Tutto su mia madre (1999), il già citato Oscar come miglior film straniero, ed un ulteriore premio Oscar alla migliore sceneggiatura originale per Parla con lei (2002).
Nel 2019, il cineasta ha avuto il privilegio di essere premiato con un Leone d’oro alla carriera a Venezia, mentre Antonio Banderas, protagonista di Dolor y gloria, in concorso al lido, con il fregio di miglior attore protagonista.
SCHEDA DEL FILM:
Soggetto, sceneggiatura, regia: Pedro Almodóvar.
Scenografia: Pin Morales e Román Arango; musica: Bernardo Bonezzi.
Montaggio: José Salcedo; fotografia: Ángel Luis Fernández.
Paese di produzione: Spagna.
Casa di produzione: Tesauro S.A., Kaktus producciones cinematográficas S.A.
Produttore esecutivo: Hervé Hauchel.
Distribuzione in Italia: Medusa distribuzione, 1989.
Interpreti: Carmen Maura (Gloria); Ángel de Andrés López (Antonio); Verónica Forqué
(Cristal); Kiti Manver (Juani); Chus Lampreave (la nonna).
Genere: commedia; anno: 1984; durata: 100 minuti.
TRAMA:
Gloria, casalinga madrilena che contribuisce al bilancio famigliare lavorando come donna delle pulizie, è sposata con Antonio, tassista fedifrago e violento dal quale ha avuto due figli: Miguel, 12 anni, che ha la sciagurata abitudine di andare a letto con i padri dei suoi amici, e Tony, 14 anni, navigato spacciatore di eroina.
A condividere i guai di Gloria ci sono le vicine di casa Cristal, prostituta con il sogno di emigrare a Las Vegas, e Juani, una donna ossessionata dal lusso e dalla pulizia. A scombussolare la pacata infelicità della protagonista è il presunto arrivo di Ingrid Müller, vecchia fiamma del marito, che costringe Gloria a una scelta irreversibile.
ALCUNI SUGGERIMENTI PER MEGLIO COMPRENDERE ALMODÓVAR
Chi è Patty Diphusa?
All’età di diciassette anni, il futuro regista, decide di trasferirsi a Madrid con la vaga idea di fare l’attore. Nella capitale si adatta a svolgere qualsiasi mestiere, fino a quando riesce a entrare, come impiegato, alla compagnia telefonica nazionale, lavoro che manterrà per dodici anni. È il periodo in cui il giovane Pedro sperimenta, modifica, inventa, gode, della “movida” notturna madrilena, diventandone il portabandiera. Di giorno cambia apparecchi telefonici, di notte assalta la morale dominante scrivendo testi teatrali sfacciati, recitandoli “en travesti”, suonando in una band punkrock che fa la parodia dei Sex Pistols, disegnando fumetti audaci e irriverenti.
Patty Diphusa è il personaggio principale di un fumetto di sua creazione, dentro il quale, la fantasia dell’autore si mescola con la propria autobiografia. La protagonista è bionda, bella, tremendamente puttana, spesso drogata di cocaina. Riesce ad essere tenera, sebbene bizzarra e grottesca, con una visione della vita positiva, e con un’intelligenza pungente, che mostra di rado come conviene ad una battona da gabinetto. A questo si aggiunge un’identità liquida, fortemente transgender, dentro la quale la stessa Patty si chiede se è un uomo, donna, travestito, maschio, femmina. L’importanza di
questa icona camp del fumetto partorita dalla mente del cineasta, si articola almeno in due aspetti:
da un punto di vista tecnico Almodóvar è tra i primi registi spagnoli a capire che il patrimonio iconografico del cinema, sul finire degli anni 70’, stava cambiando, e che anche il fumetto può diventare ispirazione di immagini in movimento. Pepi, Luci, Bom, e le altre ragazze del mucchio (1980), enuclea questa tesi, perché si serve del mondo, fino ad allora parallelo, del disegno, per diffondere la sua idea di rappresentazione scenica.
Col passare delle pellicole, l’aspetto fumettistico, viene smorzato: non in favore della causa del realismo in cinematografia, ma perché inglobato in
una struttura consapevole più ampia, e matura, di un mezzo di comunicazione di massa chiamato cinema. Molti sono i personaggi della maturità artistica del regista i cui tratti sono da fumetto, ma vengono incastonati in uno scheletro descrittivo credibile, meccanismo narrativo che ci fa innamorare di loro (Rossy de Palma è l’archetipo perfetto di questo gioco); il secondo aspetto ha a che fare con la biografia di Almodóvar, infatti, in molte interviste, ma anche libri da lui pubblicati come Patty Diphusa e altre storie (Einaudi, 2004), dichiara che la protagonista è la descrizione più sincera e onesta che lui possa fare di se stesso, dunque un alter ego che ci consente di entrare nelle fantasie immaginative del regista.
Il gineceo di Almodóvar
Inutile negarlo, gli oggetti privilegiati della curiosità creativa del regista sono le figure femminile, donne che, anche se in procinto di esplodere, riescono con i loro gesti estremi d’amore, le loro parole, la solidarietà profonda tra di esse, a permettere alla vita di fluire. Il cineasta racconta spesso della sua infanzia povera nella regione della Mancia, la stessa di don Chisciotte, dove tra mille difficoltà, e uomini che sbraitavano, a risolvere i problemi erano madri e nonne, sorelle e amiche.
Probabilmente è questa la realtà che si è impressa nella memoria e nell’occhio del piccolo Pedro, la quale, riemerge nei suoi lavori con un affetto e una pregiudiziale che non lascia scampo. Le figure maschili sono tutte negative, a volte anche quando si impegnano a diventare donne (vedi Lola, Tutto
su mia madre).
Per l’uomo Almodóvar nel cuore femminile è custodito un segreto, che consente loro di attingere ad una forza e ad una complicità sconosciute all’universo maschile, sempre proiettato all’affermazione del proprio sé, dunque incapace di autentici gesti d’amore. Non importa quanto le donne siano umiliate, povere, oppresse, ricche, borghesi, casalinghe: nelle dinamiche cerebrali del regista conservano un’indipendenza dalla quale in ogni momento può sgorgare libertà.