Amore gay. ‘Volo ut sis’, voglio che tu sia quello che sei
Lettera e risposta di Umberto Galimberti tratta da D La Repubblica delle Donne, 23 aprile 2005, p.254
Sono un ragazzo di 17 anni, sono di un piccolo paese della provincia di Caserta, e sono omosessuale. Da un paio di mesi vivo una storia con un mio coetaneo che mi appaga e mi rende felice, mi regala una serenità e un senso di completezza che davvero non credevo di poter trovare.
Per strane alchimie di persone e di casi, e per la mia stessa natura, sono cresciuto sempre privo di quei condizionamenti e di quei tabù che sono soliti ossessionare i ragazzi che hanno le mie inclinazioni sessuali.
Mi sono distaccato dalla religione cattolica (“seconda madre” di noi italiani) in età preadolescenziale, e ho riconosciuto e accettato la mia natura con la consapevolezza e la fermezza d’animo fornitemi dalla fiducia che ho nel mio istinto.
Poco tempo fa, spinto da situazioni che si facevano pesanti, per amor del vero e odio della menzogna, ho confessato ai miei genitori la natura e il carattere delle mie pulsioni sessuali. Mi sono sentito in colpa per non poter dare ai miei genitori quello che nel mio piccolo microcosmo di provincia un figlio dà alla madre e al padre.
Mi sono sentito in colpa per aver privato i miei genitori di vanti e discussioni nei salotti abbienti sulla compostezza della ragazza che ha trovato il loro figlio, sulla grandezza della casa che stanno costruendo per lui, sulla graziosità e sull’intelligenza dei loro nipotini.
Piaceri effimeri ma, ahimè, importanti in questi ambienti di bigottismo suburbano. I miei cercano di accettarmi, ma benché facciano discorsi che mostrano quella che qualcuno chiamerebbe una apparente “apertura mentale”, traspare il loro disagio per la strana situazione.
Avverto che sono combattuti tra i canoni e i modelli delle tradizioni, e quelli del “secondo libero amore” della nostra epoca. Le loro parole nascondono una desolazione che mi commuove e mi rattrista.
La nuova morale dell’epoca contemporanea ci impone di fingere di saper mettere da parte i pregiudizi e i vecchi concetti del cattolicesimo bigotto.
In realtà quello che fa la maggior parte delle persone è coprirli di una coltre di menzogna felice, che viene spazzata via dalla prima ventata di vissuto.
Grazie
La risposta….
La colpa è una cosa seria che chiede riparazione, il senso di colpa è una cosa inutile che nasconde una malcelata onnipotenza.
Sottintende infatti che se mi fossi comportato in un modo piuttosto che in un altro, quel determinato evento non sarebbe successo, per cui, in un certo senso, tutto dipende da me. Troppo bello o troppo ingenuo.
Quel che dalla sua storia si evince è che lei ha un sentimento davvero delicato verso i suoi genitori e, da parte loro, non godere di questa delicatezza densa di affetto è una vera e propria perdita di sentimento, sacrificato a una aspettativa non rispettosa della sua identità, a proposito della quale è bene ricordare che il legame affettivo tra persone dello stesso sesso è sempre esistito in tutte le culture, e interpretato in alcune come evento naturale, in altre come evento contro natura.
Siccome la natura, come ci ricorda Eraclito, “ama nascondersi”, l’accettazione o la condanna dell’omosessualità sono fenomeni culturali. Nell’antichità l’omosessualità non era un problema, perché l’attenzione non era rivolta all’atto sessuale ma all’amore tra persone, che trascendeva il sesso, perché includeva dimensioni culturali, spirituali, estetiche.
Questa mentalità proseguì per tutto il corso del medioevo fino al 1500 quando, con la Controriforma e la difesa della cattolicità da islamici ed ebrei, prese avvio la condanna e l’esclusione dell’omosessuale, che a questo punto diventa il sintomo della cultura dell’intolleranza.
Con la nascita della medicina scientifica nell’Ottocento, l’omosessualità da “peccato” divenne “malattia”, e a dar man forte a questa impostazione contribuì anche la psicoanalisi la quale, pur riconoscendo che nessuno di noi è relegato per natura in un sesso, perché l’ambivalenza sessuale, l’attività e la passività sono iscritte nel corpo di ogni soggetto, non esitò a leggere nell’omosessualità un arresto dello sviluppo psichico.
Non più un vizio e quindi un peccato come per la religione, ma un handicap. Quando poi la storia prese a trescare con i deliri della razza pura, con questo supporto scientifico gli omosessuali fecero la fine degli handicappati, degli ebrei e degli zingari.
Adesso siamo in attesa del verdetto della genetica che, quando l’avrà individuata, non mancherà di dire la sua parola, che verrà fatta propria da chiese e legislazioni omofobe, a conferma delle proprie posizioni ideologiche o di fede.
Che dire a questo punto? Che la storia è piena di giudizi e pregiudizi e che a governarla non è tanto la natura dell’uomo, quanto la sua cultura, che non rifiuta il riferimento alla natura quando questo dovesse servire a fondare le sue norme etiche e giuridiche.
Ne consegue allora che ha ragione Platone là dove dice, a proposito dell’omosessualità, che il vero problema non è il sesso, ma piuttosto la democrazia. Scrive infatti Platone nel Simposio (182 d): “Ovunque è stabilito che è riprovevole essere coinvolti in una relazione omosessuale, ciò è dovuto a difetto dei legislatori, al dispotismo da parte dei governanti, a viltà da parte dei governati”.