Attraverso la porta della vita. La mia preghiera di benedizione per la mia transizione

Testo di Joy Ladin* estratto dal suo libro Through the Door of Life: A Jewish Journey between Genders (Attraverso la porta della vita: un viaggio ebraico tra i generi), University of Wisconsin Press (Stati Uniti), 2012, pp.3-5. Liberamente tradotto dai volontari del Progetto Gionata
Ogni giorno recito una benedizione in ebraico per i farmaci che assumo (per la mia transizione) ed è:
«Benedetto sei Tu, Signore nostro Dio, che ci hai mantenuti in vita, ci hai preservati e ci hai fatti giungere a questo momento».
Questa benedizione viene tradizionalmente pronunciata all’inizio delle festività, quando si assaggia un frutto nuovo o in qualsiasi occasione gioiosa in cui le persone ebree vogliono accrescere il proprio senso di gratitudine, diventando più consapevoli dell’unicità dell’istante e della fragilità della vita che ci ha condotti fin qui.
Non si dice quando si assumono farmaci. Anzi, non va recitata per gli eventi quotidiani, ai quali sono riservate benedizioni specifiche, e non viene mai pronunciata per una malattia.
I farmaci che assumo – compresse di progesterone che ingoio intere e dolci pastiglie di estrogeno che lascio sciogliere sotto la lingua – sono versioni sintetiche di quegli ormoni potenti che, in modo naturale, definiscono e regolano molte delle caratteristiche fisiologiche tipiche di un corpo femminile.
Io non ho un corpo femminile normale. Sono nata senza la capacità di produrre più che tracce insignificanti di ormoni femminili, e per decenni il mio corpo ha prodotto invece testosterone, mascolinizzando il mio viso, le ossa, i muscoli, i capelli e la pelle.
Ci sono pochi aspetti della mia fisicità che il testosterone non ha trasformato. Eppure, grazie ai farmaci, questi effetti stanno iniziando a svanire. Per la prima volta nella mia vita, quando mi guardo in uno specchio, vedo qualcuno che sta cominciando a somigliarmi.
Non avrei mai pensato di riuscire a vedermi in uno specchio. Non avrei mai pensato di stringere nelle mani lo strumento per diventare me stessa, di sentirne il sapore mentre si scioglie sotto la mia lingua.
Ogni giorno che prendo questi farmaci mi porta molto lentamente – lentamente, perché il cambiamento è immenso e il mio corpo, dopo tanti anni, è riluttante – a essere la persona che ho sempre, paradossalmente, desiderato diventare e che ho sempre saputo di essere.
In una fase della vita – la mezza età – quando molte persone iniziano a fare i conti con la mortalità, io sto vivendo una rinascita. O, per lo meno, una seconda adolescenza.
Forse è giusto così, visto che ho trascorso gran parte della mia esistenza come un fantasma, intrappolata in un corpo che non mi apparteneva. Invece di riflettere la mia identità, il mio corpo la cancellava, dimostrando che io non esistevo, che non potevo esistere.
Ora, ogni giorno, il mio corpo e io ci avviciniamo sempre di più a una vera appartenenza reciproca.
Questa trasformazione va oltre il fisico. Mentre il mio corpo impara a metabolizzare e distribuire il grasso secondo schemi femminili piuttosto che maschili, io sto imparando a vivere.
Le sicurezze accumulate in più di quarantacinque anni, la disinvoltura, le abitudini automatiche della vita quotidiana – tutto è svanito. Sono divorata dalle insicurezze tipiche dell’adolescenza: timida, impacciata, sempre sull’orlo dell’inopportuno, un vortice di emozioni e desideri, paure ed eccitazione.
La prima volta che ho vissuto questi momenti di crescita e formazione dell’identità ero una bambina, poi un’adolescente, troppo giovane e troppo immersa nei dolorosi processi del divenire per riconoscerli come miracoli.
Li ho osservati nei miei figli, ma non avrei mai immaginato – avevo perso la speranza, e forse ero troppo ingenua per averne paura – che un giorno mi sarei ritrovata a guardarmi mentre imparo di nuovo a camminare e a parlare, a salutare gli adulti, a ordinare nei ristoranti, a scegliere i vestiti, a stringere amicizie.
Tutto è tornato a essere nuovo.
Andare al lavoro, prendere la metropolitana, fare una telefonata di lavoro -ogni esperienza è diventata un’avventura: scomoda, imprevedibile, piena di emozioni e scoperte.
Ma questa rinascita è solo l’inizio delle benedizioni che la mia malattia mi ha portato.
Quando mi nascondevo nel guscio del mio corpo prima della terapia – un corpo che per me era mostruoso, ma che agli occhi degli altri appariva normale – mi sentivo estranea alla specie umana, una specie dolorosamente bella e, al tempo stesso, stranamente inaccessibile, formata da creature che appartenevano le une alle altre.
Amavo l’umanità da lontano, con passione ma senza potere, dando poco di me, perché non avevo un vero sé da offrire.
E, in tutta onestà, cosa potevo sapere dell’amore, quando ogni mio gesto e parola nascevano dal presupposto che sarei stata rifiutata all’istante da chiunque avesse intravisto, attraverso il guscio della mia mascolinità, la creatura incompresa e inespresso che si agitava dentro di me?
Il mio sé era fatto di paure e menzogne, un’automatica, riflessa codardia affinata sin dall’infanzia.
Se l’amore è basato sull’autenticità, io ne ero incapace, perché non avevo mai vissuto un solo giorno, un solo istante, come me stessa.
E così è stato uno shock profondo scoprire, proprio nel momento della mia massima vulnerabilità, di essere circondata dall’amore.
Ora che mi sono mostrata alle persone attorno a me -quelle stesse persone dalle quali mi ero sempre nascosta – ho ricevuto, ancora e ancora, compassione, accettazione, tenerezza, una generosità d’animo che sembra non avere limiti.
Alcuni hanno incarnato i miei peggiori incubi di rifiuto.
Ma l’esperienza predominante è stata quella di trovarmi circondata da esseri umani straordinari, i più amorevoli che potessi immaginare.
E, siccome sono di nuovo in quell’età scomoda in cui ogni scoperta porta con sé nuove insicurezze, nuove sfide, nuove possibilità di fallimento, mi sento piccola accanto a queste persone adulte, per le quali amare e donare sono inevitabili quanto respirare.
È troppo tardi per imparare a seguire il loro esempio?
È sicuramente troppo tardi per pormi questa domanda, ma è ancora troppo presto per rispondere.
So solo che sono piena d’amore. Troppo amore. Un amore che spinge contro i confini angusti in cui ho sempre vissuto.
Forse questo è il dono più grande di tutti. Cosa farò mai con tutto questo amore?
Ogni giorno mi avvicina alla persona che non solo può, ma deve rispondere.
E così, ogni giorno, mentre prendo i farmaci che rendono tutto questo possibile, recito la benedizione che celebra lo stupore e il privilegio dell’esistere, il timore e la responsabilità del divenire:
“Baruch atah Adoshem, Elokeinu melech ha-olam, shehechiyanu, v’kiyemanu, v’higeyanu, la-zman ha-zeh.”
* Joy Ladin è una poetessa e saggista statunitense, nota per essere stata la prima docente apertamente transgender in un’istituzione ebraica ortodossa. Ha pubblicato dodici libri, tra cui l’autobiografia “Through the Door of Life: A Jewish Journey Between Genders” (2012) e “The Soul of the Stranger: Reading God and Torah from a Transgender Perspective” (2018). Le sue opere esplorano temi legati all’identità di genere e alla spiritualità, offrendo una prospettiva unica che unisce esperienza personale e analisi letteraria.
Testo originale: A Blessing Spring 2007