Avere a cuore. L’ingrediente segreto della… suocera
Riflessioni di Paolo Spina de La Tenda di Gionata
La liturgia di questo mercoledì proponeva un brano del vangelo di Luca, dove leggiamo: “La suocera di Simone era in preda a una grande febbre e la pregarono per lei. [Gesù] si chinò su di lei, comandò alla febbre e la febbre la lasciò. E subito si alzò in piedi e li serviva” (Luca 4, 38-44)
In parallelo, lo stesso giorno, leggo in un volantino di una residenza per anziani, anche con disturbi psicocomportamentali: del progetto “L’ingrediente segreto della nonna”, volto a un’attività in cucina dove “le mani in pasta” stimolino la socializzazione, la scoperta, il mettere in circolo idee, sentimenti, energie, cura, vita.
Com’è possibile mettersi alla tavola di una famiglia e, allo stesso tempo, ignorare qualcuno che in quella casa sta soffrendo? Col Vangelo ancora in mano mi domando: com’è possibile stare al tavolo della comunità, alla mensa dell’Eucaristia, e ignorare qualcuno che nella Chiesa sta soffrendo?
Sembrano parole scontate, eppure tante volte anche io sono sbadato, vado di fretta o, peggio, divento miope di fronte alle esigenze e ai desideri degli altri. È facile prendersi la parte migliore e vincente del gruppo – vale per un gruppo, per la Chiesa, per la società – dimenticando però la priorità indicataci da Gesù: quelli che più hanno bisogno di vita.
È bello frequentare un gruppo di persone amabili, con interessi omogenei, attivi e vivaci; più difficile è investire (o perdere?) tempo con chi fa più fatica, per le più disparate ragioni. A tutti piace avere amici con famiglie felici; in pochi si domandano cosa si potrebbe fare per le famiglie ferite e spaccate, per bimbi e anziani in difficoltà, in quelle case dove si consumano drammi spesso in silenzio.
Gesù ci insegna che c’è sempre posto per la suocera di Pietro nel nostro essere Chiesa come casa per la vita di tutte e tutti.
Questo lo dovrebbe sapere a memoria – che in alcune lingue si dice “per cuore”, come se vi fosse inciso – chi si dice cristiano; più ancora, due volte, lo dovremmo sapere noi, persone della comunità LGBT+, che conosciamo la lontananza di chi viene tenuto ai margini, di chi volutamente è dimenticato e messo da parte.
È per noi un dovere al quadrato, una chiamata nella chiamata, spingerci verso tutte le periferie, non solo la “nostra”, che bene conosciamo e nella quale ritagliamo zattere di conforto per noi e per gli altri, consapevoli di non dover fare del nostro margine un nuovo centro, ma andando sempre più in là, dove ancora in troppi sono gli esclusi perché diversi.
Quando ero animatore in oratorio, un Natale organizzammo uno spettacolo per i bambini, e una canzone diceva così: “Mischia tutto insieme agli altri, e dividi in giuste parti, ma per dare più calore, usa come forno il cuore”.
Una ingenua ma immediata filastrocca mi ricorda che anche oggi ci è chiesto di essere cristiani così, sapendo che la guarigione da tante malattie, non solo del corpo, non consiste prioritariamente nell’eliminare il problema, anche perché spesso non possiamo farlo o non siamo capaci di farlo, ma consiste piuttosto nel farlo smettere di essere una prigione.
Farsi prossimo – l’altro nome dell’essere discepole e discepoli del Vangelo – significa togliere dalle prigioni della solitudine: la nostra vicinanza, che rende presente anche quella di Gesù, guarisce e libera chi è prigioniero di quella febbre che è l’infelicità dell’essere ignorati e discriminati.