A Milano evangelici e cattolici insieme contro l’omofobia
Testimonianza di Silvia Lanzi, 16 maggio 2013
13 maggio. Fermata Moscova, la via della movida milanese. Non lo sapevo, non essendo, per natura, un tipo festaiolo. Partiamo alle 19,30 da Crema io e quattro altri amici. È presto, ma non vogliamo arrivare in ritardo.
È la prima veglia contro l’omofobia cui partecipo a Milano, la prima volta che entrerò in una chiesa protestante, quella battista di via Pinamonte. Ho un po’ di timore, che si scioglie subito vedendo i volti di tanti amici, e anche di tanti sconosciuti che però mi sorridono calorosamente. Prendo posto insieme agli altri e inizio a pregare.
Mi sembra strano e bello pregare con gente che cattolica non è: ripeto, è la prima esperienza, ma mi trovo subito a mio agio. Siamo in quella chiesa austera, cattolici, battisti, gay, lesbiche, eterosessuali per chiedere a Dio che cessi l’inutile stillicidio di sofferenza che da troppo tempo si riversa su troppi esseri umani, colpevoli solo di non aderire ad uno standard che a volte stringe come un sudario – e come tale sa di costrizione e di morte.
Cantiamo, preghiamo, invochiamo Dio, leggiamo il passo del Vangelo di Marco, quello del cieco Bartimeo, commentato dal pastore Martin Ibarra, che tiene un’omelia particolarmente interessante: è nel dialogo con Gesù, che Bartimeo diventa uomo, la parola, il Verbo, che rende l’umanità a qualcuno che era poco più di “un mobile coperto da un mantello”.
Poi la prima parte delle testimonianze. Quattro negative e piene di sofferenza e di morte. E la fiaccolata, tra drink, chiacchiere e extracomunitari venditori di gadgets. Chissà cos’avranno pensato quelle persone, vedendo il piccolo corteo che scombinava la loro serata.
Ci siamo fermati davanti alla chiesa cattolica di Santa Maria Incoronata. Settecento metri pieni di significato. Davanti all’edificio gotico, fiaccole accese, altre quattro testimonianze – stavolta in positivo. L’ultima, commovente, quella di Andrea padre, divorziato, gay e catechista nella sua parrocchia.
In chiesa ci ha accolto il parroco. Qui la parola di Dio era quella della prima lettera di Giovanni, il cui versetto “Nell’amore non c’è paura” fa, quest’anno, da leitmotiv delle veglie. Nelle sue parole intensità e solidarietà, sprone: anche noi, siamo Suoi figli.
Alla fine indugiamo sul sagrato per i saluti e vedo il pastore Ibarra andarsene via abbracciato a sua moglie. È bello, mi allarga il cuore e mi fa sorridere.