Benjamin Britten. Vita e morte di un gay del secolo scorso
Articolo di Kevin Childs* pubblicato sul blog dei collaboratori dell’Huffington Post in lingua inglese (Stati Uniti) il 22 novembre 2013, liberamente tradotto da Silvia Lanzi
Nel 1974, appena dopo aver subito un’operazione al cuore, il compositore Benjamin Britten scrisse a Peter Pears, suo amante e compagno da trentacinque anni: “Cuore mio (forse un’espressione inadeguata, ma non posso usarne altre)… Ti amo terribilmente, non solo la tua persona meravigliosa, ma il tuo canto… Cosa ho fatto per meritarmi un artista ed un uomo come te per cui scrivere? Ti amo, ti amo, ti amo”.
È una delle più belle lettere d’amore, scritte da un uomo in uno stato di salute disperato, ma determinato a vivere abbastanza da poter posare gli occhi sul suo amato anche solo una volta. Durante i precedenti quattro anni Britten aveva lottato con la composizione della sua ultima opera, Morte a Venezia, un pezzo così intenso, così ridotto all’osso, così viscerale nella sua bellezza, che si consumò letteralmente per crearlo.
Nel centenario della sua nascita (che cade quest’anno [2113] il 22 novembre) l’apprezzamento quasi unanime di uno dei più grandi compositori britannici (che alcuni definiscono il più grande compositore d’opera del XX secolo) è stato scandito da persistenti polemiche, iniziata già da prima che cominciassero i festeggiamenti nel novembre dello scorso anno, con i pettegolezzi gratuiti di certa stampa sulla sessualità di Britten e sul modo in cui questa avrebbe inevitabilmente danneggiato la sua reputazione e la sua popolarità. È stato attaccato per le sue simpatie di sinistra e il suo incrollabile pacifismo, per i suoi talenti musicali e la sua posizione nel pantheon dei geni della musica, e alla fine è circolata persino la voce, piuttosto dubbia, secondo cui la malattia cardiaca di cui è morto sia stata causata dalla sifilide, contratta dal suo partner.
Britten divide come nessun altro compositore: molti adorano l’uomo insieme alla musica; alcuni, per ragioni tutte loro, vogliono farlo diventare un mostro, e così facendo denigrano la sua arte. Questo atteggiamento, in altre parti del mondo dove si celebra il suo genio, risulta incomprensibile; sembra che solo gli Inglesi siano incapaci di riconoscere la brillantezza di uno di noi senza cercare di frugare nella sua vita alla ricerca di qualcosa di innocente che possa essere trasformato in una colpa incommensurabile, di qualcosa che, dopo tutto, confermi quanto fosse mediocre. In effetti, questo suona vagamente omofobo, come se non potessimo avere un tesoro nazionale gay, soprattutto considerando che l’omosessualità era al centro della sua arte.
L’omosessualità di Britten è stata, praticamente per tutta la sua vita, un crimine; piuttosto che metterlo in guardia, questo sembra avergli permesso di anatomizzare aspetti della sua persona come l’alienazione, la crudeltà, il desiderio sessuale e l’infatuazione (che poi sono rimaste latenti e inappagate) in opere musicali, proprio per questo tanto più psicologicamente avvincenti e brillanti. Il conflitto tra la sua omosessualità e la società ostile in cui viveva diventò la fonte della drammaticità della sua musica, più palesemente di quanto non sia il caso, diciamo, di Ciajkovskij. Molti intrecci delle sue opere parlano di persone solitarie, estranee e disadattate in ambienti che li segnano a dito, e non è un mistero che tendesse a gravitare intorno a collaboratori come W. H. Auden e E. M. Forster, anche loro gay. Forse per lui era una squisita agonia sviluppare questi temi (l’esplorazione di questi “lividi emotivi” potrebbe anche averlo portato a una morte prematura), eppure questo faceva parte del processo creativo tanto quanto l’apprendimento dell’armonia e del contrappunto. Senza di essa Benjamin Britten non sarebbe stato Benjamin Britten.
Quel che è notevole dell’omosessualità di Britten è il fatto che non si diede eccessivamente pena di nasconderla. Era discreto (sia lui che Pears stavano attenti a non mostrarsi troppo affettuosi in pubblico), ma lo sapevano tutti. Ricevette anche una visita della polizia nel 1953, quando migliaia di uomini gay furono perseguitati come “invertiti” dell’alta società, per usare il gergo del tempo; caddero vittime di ricattatori e agenti provocatori della polizia, ma non venne accusato di nulla.
La cosa più notevole è il fatto che, in occasione del suo cinquantesimo compleanno nel 1963 (la notte in cui arrivò la notizia dell’assassinio di John F. Kennedy), la BBC gli dedicò un tributo in cui non si faceva mistero della sua vita con Pears, mostrandoli insieme mentre facevano passeggiare i cani e si preparavano per l’Aldeburgh Festival, che avevano fondato nella loro città sulla costa del Suffolk nel 1948, e mentre sorridevano timidamente alla telecamera.
Quando Britten morì, la Regina mandò una lettera personale di condoglianze a Pears, trattandolo esattamente nello stesso modo in cui avrebbe trattato qualunque altro coniuge importante.
Quindi, la risposta alle critiche su Britten è semplice: non era un santo, ma non era nemmeno un peccatore; era un grande artista, veramente un grande artista, un artista gay.
Poteva essere tagliente e meschino, ma anche leale e caloroso, e al centro della sua vita c’era una relazione amorosa intensa e coraggiosa, che è durata decenni in un’epoca in cui un tale amore era quasi impossibile per la maggior parte degli uomini gay.
Quando ricevette la lettera di Britten, Peter Pears era al Met di New York, e cantava nel ruolo di Gustav von Aschenbach in Morte a Venezia. Quest’opera, il suo regalo finale a Pears, fu anche il “Liebestod” di Britten, l’ultimo atto d’amore che l’avrebbe ucciso.
Pears gli rispose scrivendo “Tu sai che l’amore è cieco, e quello che i tuoi cari occhi non vedono è che tu mi hai dato tutto, fin dall’inizio… Sono qui come tuo portavoce, e vivo nella tua musica”.
* Kevin Childs è un conferenziere e scrittore freelance che si occupa di arte e cultura.
Testo originale: Benjamin Britten: The Love and Death of a Gay Genius