In Botswana un grande passo per i diritti delle persone trans in Africa
Articolo di Carl Collison* pubblicato sul sito del settimanale Mail & Guardian (Sud Africa) il 16 febbraio 2018, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
Thato Moletsi fa una pausa e rimugina sulla mia domanda: ma cosa lo ha convinto, lui uomo transgender, a portare il governo del Botswana in tribunale per cambiare l’indicazione del genere sulla carta d’identità? L’insegnante ventottenne riprende: “Sai, prima ero depresso. Ho tentato il suicidio. Ma alla fine ho capito che, se fossi morto, agli occhi della legge sarei morto da donna, perciò mi sono detto ‘O muori da donna, o vivi e combatti per farti riconoscere come uomo’. E non era assolutamente possibile continuare a vivere senza realizzare questo sogno. Non c’era via di scampo”.
Non è stato facile. Moletsi (non è il suo vero nome) ha fatto causa nel 2011: “Quei sette anni… è stato un cammino duro, molto duro. C’erano dei momenti in cui pensavo ‘E se non ne esco vivo?’. Ma non avevo una risposta, perciò non facevo altro che pensare ‘Questa volta andrà come voglio io’”. Il suo accanito ottimismo lo ha ripagato. Lo scorso settembre l’Alta Corte del Botswana gli ha dato ragione, facendo di lui la prima persona transgender del Paese ad avere modificata la propria carta d’identità. La sentenza, emessa dal giudice Nthomiwa Nthomiwa lo scorso 29 settembre, recita: “Il riconoscimento dell’identità di genere del richiedente sta al centro del suo fondamentale diritto alla dignità. [Lo] Stato ha il dovere di rispettare e tutelare il diritto individuale alla dignità umana, anche quando sostiene punti di vista diversi e opposti riguardo l’identità di genere del richiedente”. La Corte ha fatto notare preoccupata “il continuo stress e disagio vissuti dal richiedente ogni volta che gli viene richiesto di fornire dettagli intimi della sua vita a degli estranei per poter accedere ai servizi di base”. Questo sfocia in “intromissioni e disagi arbitrari e alla violazione della privacy del richiedente, [i quali] potrebbero essere evitati o alleviati dallo Stato, permettendo al richiedente di modificare l’indicazione del genere sui suoi documenti d’identità”.
Un bambino normale
“Ho sempre cercato di schivare i proiettili” dice Moletsi, ma non ha sempre dovuto lottare per il suo riconoscimento: “Ho avuto un’infanzia felice” dice sorridendo “Ho capito di essere un uomo a quattro o cinque anni. Credo che stessi frequentando l’asilo. Mi ricordo ancora la mia cotta di quando ero bambino. Cercavo sempre di proteggerla quando giocavamo nella sabbia” dice ridendo. “Ero un bambino molto normale, mi arrampicavo sugli alberi e correvo dappertutto a torso nudo. Era il mio marchio di fabbrica: ogni giorno, dopo la scuola, mi toglievo la maglietta e facevo casino con i ragazzi del quartiere. Ero fatto così. La gente ci scherzava su e diceva ‘Questa qui doveva nascere maschietto’. I miei genitori non hanno mai fatto alcuna resistenza”.
All’arrivo della pubertà, “le cose hanno cominciato ad andare storte. In quel momento ho capito che il mio corpo mi stava tradendo. Mi ricordo che a scuola c’erano delle lezioni sulla salute riproduttiva per noi preadolescenti, e io mi mettevo in fila con i ragazzi, perché quella era per me la pubertà che avrei vissuto, ma poi mi hanno fatto notare, molto gentilmente, che dovevo mettermi in fila con le ragazze. Questo in un certo senso è stato un duro colpo, perché mi ritrovai in un’aula dove dicevano un sacco di cose che non mi riguardavano. Non potevo credere che mi aspettasse davvero quello. Quello che volevo e mi aspettavo era la pubertà maschile. Ero devastato”.
Gli anni dell’adolescenza li passò “incasinato e confuso”; ricevette poi una diagnosi di grave depressione e disforia di genere, la condizione in cui una persona transgender vive un conflitto tra il suo sesso biologico e il genere in cui si identifica. Il giorno dopo il suo ventunesimo compleanno, dopo mesi di cure inutili, Moletsi iniziò la sua transizione sotto controllo medico. Fu allora che la sua famiglia (“che mi aveva sempre sostenuto”) volle parlare con lui: “Volevano finalmente capire cosa mi stesse succedendo, la transizione e tutto il resto, in modo da poter essere preparati”.
Ora la sua famiglia non si aspetta più da lui che assuma i ruoli tradizionalmente femminili: “Una mia parente è recentemente mancata. Mi recai al villaggio dove doveva tenersi il funerale e una mattina mi svegliai un po’ tardi, perché avevo dormito troppo. Mia zia entrò nella stanza, mi svegliò, versò acqua calda in un secchio e mi disse di rinfrescarmi e di raggiungere gli altri uomini per scavare la tomba. Questo è ciò che fanno gli uomini tradizionalmente e mia zia mi disse che dovevo essere con loro. È stato davvero rinfrancante sentirle dire questo, avere una persona così vicina che te lo dice in quella maniera, mi sono sentito davvero sostenuto e rispettato”.
Conseguenze a lungo termine
Il processo e la relativa sentenza hanno già avuto un impatto sulla vita di altre persone: in Botswana almeno un’altra persona trans è riuscita a far cambiare il genere sui suoi documenti. Moletsi è stato sostenuto dal Centro Legale dell’Africa Meridionale [un’organizzazione non-profit che sostiene gli avvocati che lavorano per i diritti umani nell’area, n.d.t.]. Il suo rappresentante Tashwill Esterhuizen ritiene che la sentenza potrebbe avere conseguenze a lungo termine per i diritti delle persone trans in Botswana e in tutta l’area: “Il Botswana può essere considerato generalmente conservatore, quindi sentenze come questa possono spingere i Paesi con valori simili (per esempio la Namibia, lo Zambia e il Malawi) a guardare al Botswana per avere un esempio in casi simili”.
La sentenza permette inoltre agli attivisti del Botswana di discutere con il governo, anche se Moletsi ribadisce di non essere un attivista: “Non credo che tutti gli attivisti debbano essere in prima fila: penso che alcuni possano stare alla retroguardia”. Per ora, comunque, al centro dei suoi pensieri c’è la famiglia: “Ho incontrato una donna fantastica e stiamo progettando di sposarci. Eh sì, voglio una famiglia bella grande” dice ridendo. Ora ricorda il giorno della sentenza: “Ci sono stati così tanti rinvii… Quel giorno non potevo essere in tribunale perché non potevo prendermi altre ferie, ma poi mi hanno chiamato dal tribunale e sono riuscito solo a sentire che gridavano ‘Abbiamo vinto… Abbiamo vinto!’”.
Il giorno dopo, era l’anniversario dell’indipendenza del Paese: “Il mattino dopo la sentenza sono tornato nel mio villaggio natale, perché la mia famiglia si riuniva per celebrare l’indipendenza. Quel giorno è stata la prima volta che ho festeggiato l’indipendenza, perché per la prima volta nella mia vita mi sono sentito cittadino a pieno titolo di questo Paese. E perciò eccomi lì, a celebrare l’indipendenza – mia e del mio Paese – con la mia famiglia. Non c’è un modo migliore di festeggiare. Non c’è”. Fissando quasi incredulo la sua carta d’identità, aggiunge: “È sorprendente come cambiare una piccola cosa abbia potuto cambiare tante cose nella mia vita”.
* Carl Collison si occupa di tematiche LGBTI per il Mail & Guardian. Ha scritto per molte testate locali e internazionali. I suoi campi sono la giustizia sociale e l’arte ed è impegnato nel difendere ed ampliare i diritti umani della comunità LGBTI in tutti i Paesi dell’Africa Meridionale.
Testo originale: Trans victory opens the door
ALTRE STORIE E INFO SU> gaychristianafrica.org