Il mio cammino con le veglie per il superamento dell’omotransfobia e la chiesa cattolica
Riflessioni di Andrea Rubera, portavoce di Cammini di Speranza
Oggi 17 maggio si ricordano in tutto il mondo le vittime della violenza, dell’odio e del pregiudizio connessi a orientamento sessuale e identità di genere. Noi cristiani, da anni, facciamo memoria di questa giornata organizzando delle veglie di preghiera, a volte molto raccolte, a volte pubbliche. Mi piace quest’anno però fermarmi a pensare a come le cose siano cambiate da quel 2001 in cui per la prima volta mi affacciavo timidamente ai gruppi di omosessuali cristiani. In quei tempi, di omofobia non se ne poteva parlare in contesto cattolico. La parola stessa incuteva timore. Era forse associata alla paura, incoscia o meno, che qualcuno (persona o movimento) potesse venire tacciato di omofobia a causa dei pronunciamenti dottrinali della Chiesa. Le nostre serate di preghiera erano o casalinghe (ne ricordo una memorabile con quel santo di frate Arturo Paoli che, quasi novantenne, celebrò a casa di uno di noi) o ospitate dalla chiesa valdese.
Nel 2009, dopo gli episodi di violenza omofobica di Roma, il corteo, organizzato anche dalla diocesi di Roma, era stato appositamente nominato “contro tutte le discriminazioni” e ricordo che, con il collettivo “WHAD” partecipammo vestiti da Fantasmi. Nel 2010 come Nuova Proposta scrivemmo a tutte le parrocchie di Romaproponendo loro di ospitare delle preghiere in ricordo delle vittime di omotransfobia. Ricevemmo solo 2 risposte da altrettanti parroci e, per contro, la diocesi invitò, più o meno informalmente, le parrocchie a non dare seguito alla nostra proposta. Chiedemmo un appuntamento al cardinal Vallini che ce lo concesse e parlammo a lungo.
Da quel colloquio nacque un tavolo di confronto tra Nuova Proposta e la diocesi di Roma, coordinato da monsignor Marciante che, tra i risultati, ebbe quello di far ospitare, per la prima volta, le veglie di preghiera contro l’omofobia presso una basilica cattolica: sant’Alessio.
Il tavolo poi terminò nel momento in cui fu chiaro che la nostra posizione di trasparenza relativa all’affettività e alla vita di coppia non si riusciva a conciliare con la richiesta di aderenza alla dottrina. Ma il punto, noi lo sapevamo, non era quello.
Il punto era come far rimanere i giovani LGBT in comunità, come dare loro uno spazio accogliente in cui potessero raccontarsi anche all’interno del loro orientamento sessuale. Invece la discussione si arenò, mi sembra, sul fatto che eravamo identificati come “promotori dell’ideologia LGBT” semplicemente perché la visione delle nostre vite aspirava a una progettualità completa, come quella di ogni altra persona, inclusa la dimensione affettiva per chi lo desideri.
Nel frattempo veniva eletto papa Francesco. Quasi subito fu chiaro che un vento nuovo (e buono) stava soffiando. L’uso delle parole cambiava, l’atteggiamento cambiava: “Chi sono io per giudicare un gay?” è oramai una citazione storica. La rivoluzione morbida di Bergoglio iniziava dalle parole ma proseguiva con il confronto sinodale sulla famiglia da cui fu chiaro che i tempi per cambiamenti incisivi sulla morale sessuale e sulle “nuove famiglie”non erano ancora arrivati. Ma quelli per ridare dignità alla persona e metterla in primo piano erano arrivati, eccome!
Il cammino è proseguito con la presa di coscienza delle persone LGBT cristiane che era giunto il momento di uscire dalle catacombe e di gettarsi nella vita attiva, dentro le comunità e, soprattutto, producendo contenuti, anche a partire dalle proprie vite che avevamo pari aspirazione a “Verità” e “Bellezza” di ogni altra vita. Nel 2015 nacque Cammini di Speranza, l’associazione nazionale delle persone LGBT cristiane, in coincidenza con il Global Network of Rainbow Catholics. In contemporanea sempre più pastori, religiosi e religiose, e anche parroci, rincuorati forse dall’atteggiamento di papa Francesco, uscivano allo scoperto e avviavano percorsi di pastorale inclusiva.
Oggi, a maggio del 2018, le veglie di preghiera sono sempre di più ospitate in parrocchie cattoliche e, addirittura, con il placet del vescovo che, in alcuni casi (Palermo, Reggio Emilia, …) o è direttamente presente o manda un suo messaggio di supporto.
A Roma la veglia si è tenuta in una parrocchia che ospita dallo scorso anno Cammini di Speranza con il consenso del vicario del Papa per Roma. La veglia è stata molto partecipata, soprattutto dai giovani della parrocchia e dai sacerdoti delle parrocchie della zona. Uno di questi, ha mandato un messaggio a uno dei ragazzi organizzatori, dicendo che era rimasto colpito dalla sofferenza di cui era ignaro e che constatava la normalità delle nostre esistenze, fatte di anima, cuore e corpo, come quelle di tutti.
Dal 9 al 13 maggio, presso una struttura religiosa dei castelli romani, ha avuto luogo la conferenza annuale dello European Forum of LGBT Christians, organizzata e ospitata da Cammini di Speranza e REFO. 150 partecipanti da oltre 20 paesi europei, con workshop (che hanno spaziato dalle nuove famiglie, ai rifugiati, al bullismo, alle benedizioni per coppie dello stesso sesso) e intensi momenti di preghiera ecumenica. In più un programma dedicato specificamente ai giovani, in cui, oltre a fare rete e a conoscersi, hanno potuto elaborare degli stimolanti contenuti sui loro desideri e aspettative verso una pastorale inclusiva che hanno avuto moto di presentare nel corso della conferenza pubblica “Giovani LGBT verso il Sinodo), organizzata presso l’Aula Magna della facoltà valdese di Teologia.
Insomma, a chi ritiene che la Chiesa sia immobile e non possa cambiare, racconto la storia di come, invece, nel corso anche della mia osservazione personale, i cambiamenti ci sono stati eccome. Il lavoro incessante, interno, propositivo e mai antagonista, dei cristiani LGBT sembra ora mostrare i primi frutti. Sono e rimango convinto che il vero cambiamento si realizzi attraverso la partecipazione diretta e che solo i diretti interessati al cambiamento abbiano le risorse e le parole giuste per accendere la miccia.
Una mia amica psicoterapeuta mi raccontavadi come recenti studi sul sistema neurologico ci dicano che il suo funzionamento è centrato sulla narrazione e che senza di essa il sistema vada in tilt o attui dei meccanismi di disgregazione. Mi si conferma l’idea che ho sempre avuto che negare a chicchessia la possibilità di raccontarsi crei un forte impedimento alla realizzazione della sua spinta progettuale e, a volte, arrechi nocumento e frustrazione. Le parole e le storie sono al centro della costruzione del senso di comunità e, in questo, le persone LGBT cristiane devono trovare il loro spazio e il loro modo.