Caravaggio al cospetto del Grande Inquisitore
Testo di Ermanno Rea* pubblicato su La Repubblica del 22 febbraio 2017, pag. 35
Questo monologo si svolge, in parte, nella bottega romana di Caravaggio, mentre il pittore osserva, con aria affranta, una grande tela bianca; in parte, in un’aula di un tribunale dell’Inquisizione. È un momento drammatico per il grande artista. In un accesso d’ira ha ucciso un uomo. Deve di necessità fuggire da Roma, abbandonare la casa in cui abita, gli amici più devoti, mecenati e protettori, e tutto questo lo induce a passare in rassegna, dolorosamente, la sua vita sino a quel giorno.
Davanti alla tela bianca sogna. Congettura. Delira. E ricorda. Di essere stato sottoposto, tempo addietro, a una sorta di minacciosa reprimenda da parte di un vecchio Inquisitore, presenti i componenti dell’intera Sacra Congregazione. Ne rievoca la voce, le parole sferzanti che lo invitavano all’obbedienza, all’ossequio passivo a Santa romana Chiesa. Ma si tratta di un ricordo reale? Non si sa. Potrebbe trattarsi di un ricordo immaginario, falso; il ricordo di un evento mai avvenuto. Infatti le cronache dell’epoca non registrano alcun interrogatorio subito da Caravaggio da parte dell’Inquisizione. (…)
(Caravaggio siede al centro dell’aula. Entra l’Inquisitore: claudicante, anziano, volto segnato da rughe profonde. Cammina lentamente, appoggiandosi al braccio del Vicario, un prelato notevolmente più giovane.)
L’INQUISITORE: Annotta presto, fratello, e io temo l’umidità romana come la peste. Spero che ci sbrigheremo alla svelta, anche se oggi l’uomo da interrogare è un osso duro, una di quelle anguille che ti scappano continuamente dalle mani. Ho trascorso una notte terribile, insonne. Il mal d’ossa non mi ha dato pace. Vedi come cammino? Non c’è niente che mi renda molesto il mondo intero come il mal d’ossa. Temo di essere diventato troppo vecchio e stanco per continuare a praticare il mestiere dell’accusatore. È arrivato il momento di passare la mano. Grazie, ci siamo… (Il Vicario lascia l’Inquisitore accanto a un tavolo dietro al quale è collocata un’imponente poltrona.)
Reverendissimi Padri, ecco al vostro cospetto Michelangelo Merisi da Caravaggio, un pittore che gode di vasta fama e soprattutto di protezioni importanti. Noi però non siamo qui riuniti per processarlo (benché non ci mancherebbero gli argomenti per farlo). Siamo qui per interrogarlo e ammonirlo, nella speranza che voglia correggere i suoi orientamenti e porsi sinceramente al servizio di Santa romana Chiesa, senza offenderla fingendo di onorarla. ( Brusii)
Vi prego, fratelli, controllate i vostri malumori. So bene che tra voi c’è chi è particolarmente allarmato dai comportamenti privati e pubblici di questo brusco personaggio, autore di un oltraggioso quadro intitolato La morte della Vergine. Mi è noto quanto vi abbia turbato la visione di questo dipinto, quanto vi abbia indignato la pretesa del pittore di raffigurare la madre di Gesù, la Madonna, con le sembianze di una ragazza di vita, di una prostituta, morta suicida nelle torbide acque del Tevere.
Sono d’accordo con voi: si tratta di una provocazione che mette a dura prova la nostra capacità di sopportazione. E non soltanto, badate, per via dell’oltraggio formale, blasfemo, a una delle nostre più venerate icone, ma anche, se non soprattutto, per il significato simbolico della rappresentazione, che pretende di collocare il divino non fuori dall’uomo, ma dentro di lui, connaturato a lui. Perfino nel caso di una prostituta. Fratelli, quel quadro è di una drammaticità intrisa di peccato.
Il corpo della Madonna – volto tumido, mano pendula, ventre prominente – ha la disarticolazione della morte violenta, del trapasso privo di conforto e assistenza. Dal panneggio della veste emergono i suoi piedi nudi. In primo piano, alla destra di chi osserva il quadro, una donna piange a testa in giù: sembra quasi di udire i suoi singhiozzi. È Maria Maddalena.
Intorno alla Vergine si affollano gli apostoli, a loro volta in lacrime: sono anche loro scalzi, e sono anche loro segnati dalla spiritualità disarmata degli oppressi. È un quadro che sconvolge, non ci sono dubbi. A furia di scrutarlo, finisci pure tu per trovarti in mezzo a quella gente, a piangere con loro, a immaginarti come loro coperto da un logoro mantello e di stare a piedi nudi respirando il rosso pulviscolo di un ambiente dipinto ricorrendo a tutte le sfumature del carminio, il colore della disperazione.
Fratello, ti leggo negli occhi la domanda che ti arrovella. Ti chiedi da chi derivi messer Caravaggio le sue idee ribelli. Non ci sono dubbi: dall’apostata nolano, l’eretico impenitente Giordano Bruno che fu condotto in Campo dei Fiori e qui spogliato nudo, legato a un palo e bruciato vivo, come raccontò a suo tempo il Giornale dell’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato, che non dimenticò di citare neppure le litanie cantate dai “confortatori” che lo invitavano a desistere dalla sua ostinazione. Sono completamente d’accordo con te.
Non affermò forse il Nolano che la Natura, compresa la più degradata, non è altro che Dio nelle cose? Ma non è la sua sola perla! Ne ha dette tante! Per esempio su Maria, negandone la verginità come ora, sulla sua scia, sembra fare anche Michelangelo Merisi, che per rappresentare la madre di Cristo ha assunto come modello il corpo sfatto di una meretrice suicida. Le connessioni tra i due personaggi sono insomma sotto gli occhi di tutti e sarebbe per chiunque un gesto a dir poco temerario cercare di smentirle. Lui però, Caravaggio, le smentisce!
Reverendi Padri, viviamo in un mondo di dissimulatori che ci vengono incontro, immancabilmente, con un gran sorriso ingannatore sulle labbra, che noi però dobbiamo essere capaci di smascherare, rivelandone l’effettiva natura perversa. Ma non al solo scopo di punire.
Dicono che abbiamo punito sin troppo, che dobbiamo mitigare le nostra severità, che dobbiamo piuttosto intimorire, meglio ancora convincere, in ogni caso mostrare tratti di magnanimità… Già! Saremmo poco magnanimi.
* Brano tratto dal libro di Ermanno Rea, La parola del padre, ed. Manni, 20127, pag.96