Caro Dio tutto è iniziato quando lei mi ha baciata
Lettera a Dio invitaci da Alessia*
Caro Dio, tutto è iniziato, come ben sai, quel dieci di novembre del 2011. Ho preso coscienza, quell’esatto giorno, che c’era qualcosa in me di diverso rispetto a tutte le mie amiche. Quel giorno ho baciato lei. Quel giorno lei ha baciato me.
Avevo appena 18 anni: ho provato tante cose diverse, bellissime, mai sentite, attese, ricercate; e tante altre che non avrei mai voluto provare: schifo di me stessa, terrore, dipendenza tossica, mancanza di respiro.
Ci ho messo settimane per arrendermi all’evidenza che mi fossi innamorata di Elena: per capire che non fosse una cosa indotta da un bacio, perché mi sono resa conto di averlo desiderato anche anni prima, con la stessa intensità con cui poi è avvenuto. Una vita stravolta da un semplice bacio: siamo così suscettibili, noi umani?
Lo sai in che sofferenza sono sprofondata nei mesi a seguire, dopo il suo rifiuto a continuare in quella situazione così ambigua. Lo sai degli attacchi di panico, della paura dell’inferno, del presagio di morte che mi stava davanti agli occhi ogni giorno: come quella ragazza che si suicidò proprio quell’anno, nel mio liceo, e che si diceva fosse lesbica. Cosa impediva a me di fare la stessa fine?
Fortunatamente non ero sola. Amici e famiglia mi hanno aiutata a superare gli attacchi di panico, e allora ho preso il coraggio a due mani e sono partita per Roma, nella speranza pur flebile di un’altra vita, di qualcosa che desse senso al mio dolore inspiegabile. Che era sì, fisicamente quello dell’ansia patologica, ma era più profondo, più spirituale: era il dolore dei senza speranza, di una persona che sa che non c’è spazio nel mondo per quelli come lei. Perché non c’è spazio per quelli come me, no?
A Roma ho imparato che non era così, che non facevo schifo a Dio, ma mi amava così come sono. Mi sono offerta alla guida di Davide, il primo amico ad avermi accettato e amato così, e poi a quella paterna di don Amedeo.
Non mi dissero che non potevo amare: potevo farlo, perché l’innamoramento è dato da un Altro, non me lo scelgo io e posso e devo viverlo come strada verso di Lui. Però c’era anche la clausola della castità. Del disordine intrinseco.
Io, per parte mia, avevo riflettuto per conto mio ed ero convinta di sapere questa cosa: una ferita incolmabile mi squarciava, perché sapevo, vedevo, che un uomo è fatto per una donna e viceversa. La complementarietà dei corpi, la differenza sessuale e psicologica, il modo in cui uomo e donna si completano, letteralmente. «Maschio e femmina li creò».
Lo vedevo, perché era fisicamente così, era chiaramente così, era un’evidenza a cui non potevo sfuggire, se ci pensavo razionalmente: e io avevo solo due possibilità, o accettarlo e rimanere, o fuggire dalla Chiesa e vivere come volevo. Non c’era altro.
«Sarà amaro».
«Verginità».
«Castità».
«È meglio non dirlo troppo in giro, perché il mondo di oggi ti può mandare in confusione».
Mi sembrava ingiusto, ma mi fidavo. Non capivo, ma mi fidavo, perché comunque mi avevano detto per la prima volta che no, non facevo schifo e che sì, potevo amare, solo che non sarebbe stato come mi sarei immaginata io. E già solamente questo mi aveva fatta respirare.
Col tempo, ho imparato ad accettare me stessa. Non solo, mi sono sentita completa per la prima volta; non ero più l’adolescente fuori posto che era diversa da tutti gli altri, che non si innamorava mai come le sue coetanee, che quando si guardava vedeva una faccia che non conosceva e un destino non suo: crescere, trovarsi un bravo ragazzo, sposarsi, far figli, mettere su casa.
Un destino che pensavo mi dovesse appartenere a tutti i costi, ma il cui pensiero già mi soffocava ad appena quindici anni. No, no: io fortunatamente ero lesbica. Io fortunatamente non ero obbligata a rispettare le tappe di tutti, a desiderare figli che non ho mai voluto, a mettermi accanto un uomo che facevo fatica a vedere al mio fianco. Il mio istinto e ciò che ero, per la prima volta, coincidevano. Fu un respiro. Io sono questa così, fatta così, amata così.
Mi sono accorta di aver cominciato ad accettarmi veramente nel momento in cui ho cominciato a scherzarci su, con la mia solita attitudine autoironica: lì ho capito che essere lesbica era una parte vera di me.
Senza che me ne accorgessi, sono rifiorita. E dal rifiorire è nato l’amore per Anna. Lo sai bene, cosa è stata, Anna. Penso di non averTi mai lodato e ringraziato di più nella mia vita. Anche se ovviamente era un amore segreto e non corrisposto, lei era amore e dono e lode e attraverso i suoi occhi di ghiaccio passava la più grande grazia che io avessi mai ricevuto.
Amavo liberamente, senza aspettarmi niente in cambio. Amavo in verginità. Amavo serenamente offrendo le gelosie o il dolore. Amavo come non avevo mai amato in vita mia. Su di lei una volta scrissi: «I suoi occhi sono come il cielo attraverso cui la luce del Sole è riflessa e può arrivare fino a me. Quando mi sembra che il Sole non ci sia più, lei continua a testimoniarmeLo. Sarà a questo scopo che Dio glieli ha fatti così azzurri?» e anche «voglio amare tutta la vita come ho amato Anna».
Sì, lo dissi. Scrissi esattamente così. Amare “in castità”, dopo quella esperienza stupenda che io definisco di pura Grazia, non mi era mai sembrato più bello: amavo lei e amavo di più il mondo, amavo le cose che dovevo fare, lo studio, gli amici, e amavo di più Te, Dio.
Se la castità che mi era proposta era davvero vivere così, il centuplo quaggiù, allora era fattibile, era meraviglioso, era perfetto! E il mio amico Davide mi faceva eco: «io e te, io come seminarista, tu come omosessuale, siamo chiamati da Dio ad amare allo stesso modo».
Un privilegio. Una Grazia. E io ci credevo. Era anche amaro, perché avrei sempre lasciato andare le donne che amavo (don Amedeo diceva: «vivi il sacrificio di lasciarla dov’è»), ma ci credevo. Io ci credevo!
Poi lei se n’è andata da Roma, e il mondo si è spento. Ma la promessa di felicità era rimasta. Era come se l’assenza di lei mi dicesse: «Hai voglia di scommetterci Ale? Hai voglia di scommettere che puoi essere felice anche senza di me? Anche se hai una grossa ferita, che è questa nostalgia di me?».
Sì che ne avevo voglia, ma sono stata spenta comunque. Sono caduta di nuovo nel baratro, con una tesi di laurea che faceva fatica a ingranare, a lavoro in gelateria per pagarmi gli anni fuori corso, con crisi di ipocondria sempre più incontrollabili, innamorata prima di una collega stronza dal sorriso perfetto e poi di Francesca, quella che mi ha illuso più di tutte.
Francesca è stata una ragazza che ho desiderato nel più pieno senso della parola, sai bene anche questo. Che mi ha fatto emergere una nuova ferita, che credevo di aver sedato per sempre dopo la scoperta di poter amare nella verginità. Da un diario di quell’anno: «è impossibile, quello che chiedo io è semplicemente, praticamente impossibile: non si può chiedere sia la vita eterna che stare con una ragazza e pretendere di scoparci.
Da qualunque punto di vista la si guardi, la mia è una dicotomia irrisolvibile. Se non voglio tornare (ammesso che si possa) eterosessuale, ho solo due scelte: vivere l’omosessualità secondo la Chiesa, viverla per i cazzi miei. Ma se la vivo per cazzi miei sarò sempre, sempre dannata. Non importa con quanta cristianità vivo, non potrò mai salvarmi. Non esiste una via in cui potrei avere tutto. O l’una o l’altra. Sono incastrata ed è una situazione di merda».
Francesca era così ambigua nei miei confronti che mi ha fatto credere di essere vicina alla mia prima, dolce, relazione d’amore con una donna: e invece mi ha rifiutata. Ovviamente, invece, si è messa subito con un uomo. Era sempre così piccola tra le mie braccia, così bisognosa d’amore e protezione; le avrei dato tutto, le avrei dato tutta me. Avrei voluto davvero prendermi cura di lei.
Da un’altra riflessione che scrissi: «Ma sarà un male che io non desidero per nulla essere eterosessuale? Anche se costasse mille sacrifici in più, anche se fosse più amaro, accetto tutto, va bene… piuttosto che una vita normale amando un uomo, preferisco una vita dura e amara, anche rimanendo per sempre sola, ma continuando ad amare le donne. Quindi Signore, ti prego, se non è peccato chiederlo, non insegnami ad amare gli uomini, insegnami come vuoi che ami le donne!»
Sono fuggita per la seconda volta da un amore dannato, stavolta verso Milano. Solo per ritrovarmi tra le braccia belle e dannate di un’altra donna, le braccia tanto desiderate di Cecilia. Lei, il mio colpo di fulmine. Lei, la più fredda che io abbia mai amato, ma con quello sguardo dolce che mi ha spezzata in due, facendomi capitolare. Lei, una bellezza tale che non avevo mai visto prima e che quasi veneravo.
Lei, la solita eterosessuale con cui non avevo speranza. Di lei scrivevo: «Quando ‘ste ragazze mi sorridono penso: cavolo! Ma chi è Dio che le fa così belle?»
Lei è stata tutto. È stata un po’ Elena, soprattutto nell’ultimo periodo, poiché ne sono dipendente, ed è stata un po’ Anna, per i miracoli che sono accaduti con lei, che ho chiesto e per cui ho pregato. Iniziata come una cottarella, diventata uno degli amori più forti e completi che io abbia mai provato: anima e corpo.
Per una volta, il corpo non era separato, perché l’ho desiderata tanto, anche fisicamente. E ho capito cos’era l’unica cosa che mancava al mio amore per Anna. Somigliava più a un amore platonico, bellissimo, ma platonico: ma Dio chiede quindi a noi omosessuali di vivere tanti amori platonici? Ora mi viene da dire: non mi basta!
Ovviamente però al tempo di Anna mi bastava, e sono certa che se mi riaccadesse mi basterebbe di nuovo, perché Tu c’eri e vincevi: e Tu basti, questo lo so bene. Ma la vita non è una sequela di Anne. È più spesso una sequela di Cecilie o di Francesche: perché l’amore per le creature è – anche – quello fisico. Anna era la Trasfigurazione sul monte Tabor, Elena, Francesca e Cecilia sono la vita terrena, quella di tutti i giorni. Sarebbe bello porre una tenda sul Tabor e restarci, io, Te e il profeta Elia: sono stata in estasi, lassù, ma poi mi hai chiesto comunque di scendere, di tornare alla quotidianità. È proprio qui che la mia fisicità alla fine ritorna e reclama un diritto per sé.
Agli eterosessuali è dato di vivere entrambe le dimensioni dell’amore, fisica e spirituale, ciò significa che entrambe sono buone: perché io devo invece amputarmi della gioia di amare, carezzare, sfiorare queste ragazze? Amputarmi della gioia di farmi amare, carezzare, sfiorare da una di queste? Io lo desidero. Io desidero un amore completo. Inoltre, Anna era un amore non corrisposto: io desidero e chiedo, finalmente, dopo dieci anni di consapevolezza di me, un amore corrisposto.
Credevo che Tu mi avessi fatto seguire questo lungo percorso per approdare finalmente alla consapevolezza che è la Tua Chiesa che si sbaglia, che l’avrebbe riconosciuto senza scandalo, come è capitato altre volte nella storia: che la Chiesa seguirà un nuovo cammino, e porterà tutti alla consapevolezza che noi non possiamo essere obbligati alla castità, perché quella della castità è una scelta: una scelta che io non sono libera di compiere.
Credevo che ora fossi finalmente pronta a questa nuova… verità. Che io vado bene così tutta, anche con degli atti omosessuali. Che alla fine della fiera essi sono solo atti d’amore, esattamente come per un uomo e una donna insieme.
A quanto pare sembra non essere così. Non ci sarà nessuna benedizione per le coppie dello stesso sesso, no? Mi sono illusa anche stavolta, dico bene? «Non si può benedire il peccato», è giusto?
Mi sto facendo tutti questo problemi pur sapendo benissimo che io da dieci anni vivo tutti amori non corrisposti, vero? Non so nemmeno perché me la prendo così tanto. Non è che io abbia una ragazza: ma il bisogno di essere amata in tutto, anima e corpo, da una donna sta diventando ogni anno sempre più impellente, e sbiadisce sempre di più la bellezza della verità che ho vissuto con Anna.
Già, verità. Perché probabilmente quella era la verità, e io ora sono nella tentazione: sono nel peccato già ora. Il mio sogno, il mio amore completo, è peccato, dopotutto. Io non sono prevista nel disegno del Creatore: il mio amore non è ordinato al Suo disegno. Il mio amore è disordinato. Siamo spiacenti, riprovi più tardi. Riprova con un’altra vita, perché in questa ti è andata di sfiga. Come essere umano, sono sottoposta alla legge della diversità biologica: come Alessia, come individuo, le fibre del mio corpo sono fatte “contronatura”.
Quell’angelo caduto che si è inventato uno squarcio simile nel cuore, una sconnessione tale su chi sono in senso lato e chi sono in senso stretto, se la starà ridendo di gusto.
«Sarà amaro».
«Verginità».
«Castità».
Mi lagno per una fidanzata che non ho, sono ridicola. Ma ho 27 anni, quasi 28. Mi vedi, o Dio? Guardami! Il mio bisogno di essere amata da una creatura umana è immenso!
Sto diventando grande, potrei quasi dire che sto invecchiando, ormai, e mi addolora invecchiare senza quell’amore che mi sembra promesso tutte le volte che incrocio lo sguardo di una donna bellissima: e sono un’ingrata, perché so che dovresti bastarmi Tu, ma come faccio?
Come faccio se il momento in cui io Ti ho amato di più coincideva col giorno in cui mi sono innamorata perdutamente di una creatura umana, dagli splendidi occhi azzurri e concreta, vicina, palpabile? Come si ricuce il dissidio eterno tra Te e la donna? L’ha mai capito Petrarca? Posso mai capirlo io? Io che pure l’ho sperimentato, lì, sul Tabor! Guardami!
«Voca me cum benedictis.
Oro supplex et acclinis,
cor contritum quasi cinis:
gere curam mei finis»
Prendi a cuore il mio destino!
Persino i miei fratelli del Movimento non possono arrivare a toccare me fin dentro questa ferita. Non tutti almeno. E non sono nemmeno sicura che quelli che sanno di me e mi accettano capiscano esattamente l’origine della mia sofferenza, in quanto eterosessuali.
Continuano a dirmi che in fondo sono come loro, che il mio desiderio di essere amata è quello di tutti, che provo le stesse cose di tutti: questo è certo, ma alla loro richiesta che esista qualcuno per loro, così simile alla mia, loro non devono aggiungere la clausola «anche se ci fosse qualcuna per me, appena la porterò a letto io sarò condannata, al contrario di loro». Questo non lo sanno. Questo non lo sperimentano.
Don Amedeo ha sempre avuto ragione. «Sarà amaro». È amaro. Costretta a pagare il pegno di un peccato non mio, ma che mi è stato messo sulle spalle: è amaro.
Perché sono stata toccata, squarciata, nel punto più sensibile di tutto l’essere umano: la capacità di amare e di essere amata. Non mi rimane altro. Forse.
* Vi volevo inviare una lettera-sfogo che ho scritto il 15 marzo di quest’anno, scaturita dall’ormai tristemente famoso “responsum” della Congregazione per la Dottrina. È una lettera a Dio triste e arrabbiata, anche se piena di speranza e bellezza in alcuni punti, con un finale amaro che pone domande che riflettono la mia personalissima esperienza di vita, anche se so che qui voi la pensate in modo diverso: e Dio, quanto vorrei avere il vostro coraggio. Ma mi fa anche così tanta paura pensare di discostarmi dalla Dottrina, io che mi sono sempre giudicata una ragazza fedele. Mi reputo una persona in cammino, non arrivata di certo a una risoluzione, che sta cercando, cercando con tutte le sue forze il significato della mia Fede e della mia Omosessualità, da sempre insieme. Questa lettera è solo uno spaccato di un cammino che sono certa continuerà, e non so proprio dove mi porterà. Desidero soltanto che in questo Venerdì Santo Dio porti anche il mio dolore sulla Croce, e lo distrugga, e mi faccia risorgere con Lui, in qualsiasi modo, nella Sua Pasqua.