Caro don a che serve una chiesa che non sa rispondere alle sollecitazioni del suo popolo?
Lettera aperta di Roberto di Gabriel Forum
Carissimo Reverendo, quando ci siamo incontrati a giugno Le rammentai del mio intervento al Convegno diocesano, cosa che non ricordava e, questo, mi sorprese trattandosi di un intervento pubblico in assemblea; con un documento scritto che poi Le consegnai. Un intervento che sarà stato allegato, insieme ad altri, forse sarà stato oggetto di riflessione. Perché se così non fosse quali sviluppi, quali percorsi si attivano, quale utilità hanno le relazioni e i dibattiti che, nella nostra chiesa, pure vengono richiesti? L’Arcivescovo in preparazione al Convegno affermava che bisogna uscire dalle “pastoie del legalismo” per “introdurre processi” di un cammino di fede e pastorale, aggiungendo che “ci vorrà pazienza, costanza, approfondimento, condivisione”.
Sempre a giugno Le raccontai di un mio incontro con un vescovo che volli incontrare in seguito ad un suo intervento su Avvenire. Un incontro fatto precedere da uno scambio epistolare. Rimasi molto colpito dalla sua paterna accoglienza. Seguì poi uno scambio epistolare, ringraziandolo dell’incontro dove ponevo riflessioni e domande. Successivamente questo contatto si andò a diradare, fino alla interruzione. Così scrissi una ultima lettera, ecco alcuni spunti:
“Mi creda, caro Mons., se non fossi fiducioso che prima o poi la Chiesa possa affrontare, in una attenta e serena valutazione simile problematica e, di conseguenza, riformulare nuovi giudizi, io mi sarei fatto circa 900 km per un incontro, certamente bello ma fine a se stesso?
Mi sono anche chiesto cosa ha pensato del mio incontro e delle mie riflessioni, quale utilità per Lei?
Io liberamente e serenamente ho affrontato i vari argomenti non con ragionamenti astratti ma partendo dalla mia esperienza. Il suo è stato un accogliere e mettersi in posizione di ascolto diretto – ho notato con piacere che prendeva appunti – e mi chiedo: cosa ha significato per Lei?
E’ cambiato qualcosa nella comprensione di un fenomeno penso non completamente conosciuto, e quale giudizi ne ha tratto? Mi confortò ancora sapere che il nostro dialogo sarebbe continuato per posta. Si può dire che ogni giorno ho guardato con trepidazione nella cassetta della posta, sempre in attesa di una sua risposta, di una sua parola. Ho atteso.
Ho atteso un tempo sufficientemente ragionevole (fra poco quattro mesi) per temere che forse Lei non continuerà il nostro dialogo iniziato, e questo mi dispiace. Comprendo molto bene che le mie domande e i miei quesiti non sono di facile soluzione e forse l’ho messa in difficoltà.”
Quello che noto è che, se pur in un incontro accogliente, di fronte a precise domande, non si sa rispondere. Quello che dovrebbe essere luogo di ascolto accogliente si traduce in un imbarazzante silenzio.
Le ho anche accennato del mio percorso sia di fede che di approfondimento e questo mi procura tanta serenità. Come dice S. Paolo: “So in Chi ho posto la mia fiducia”. Faccio continuamente esperienza della paternità di Dio che mi ha voluto e mi ha amato anche prima che Lo conoscessi. Ma quanti ragazzi oggi hanno bisogno di ambiti, persone e luoghi di ascolto dove raccontare il proprio dramma, dove poter incontrare la Misericordia di Dio, gente che si è allontanata dalla Chiesa perché la vedono distante, non accogliente?
Quante espressioni sta usando Papa Francesco in tema di ascolto, di accoglienza, di farsi prossimi, di sollecitare una Chiesa in uscita. Espressioni che sono di estremo conforto per me come per tanti altri.
Le ho anche suggerito di leggere il libro “Un ponte da costruire” del gesuita James Martin, dove in modo preciso vengono indicati i passi che la Chiesa è chiamata a percorrere. Spero che lo abbia letto ed è un libro che dovrebbero leggere tutti i preti per poi iniziare a costruire tutti insieme questo ponte.
Padre Martin è stato anche relatore alla Conferenza sulla famiglia a Dublino. Un intervento pubblico che ha avuto molto risalto ed ha affrontato vari aspetti, indicando anche percorsi concreti di ascolto, incontro ed accoglienza. Una novità assoluta e se ne sentiva il bisogno.
Recentemente dai vescovi toscani è uscito, in occasione del 50° dalla morte di don Lorenzo Milani, il libro “La forza della Parola”. E’ stato come un debito di riconoscenza verso questo sacerdote allontanato e che in uno sperduto paesino ha inventato una pastorale dell’ascolto, sottolineando l’importanza della parola e della promozione umana. Ecco qualche spunto:
“Un documento che alza il velo su questioni di enorme impatto. Non so se riesce, in tutto, a «saldare il debito di riconoscenza» accumulato, dalle Chiese toscane e non solo, nei confronti di don Lorenzo Milani (forse sarebbe stato bello pronunciare, senza timore, una delle tre parole – la terza – che Francesco indica come il segreto nella relazione di coppia: «permesso, grazie, scusa»). Ma non può sfuggire l’importanza che tutti i vescovi toscani si ritrovino in un documento come questo. Adesso la parola, in un testo che si intitola La forza della parola, spetta non solo ai vescovi ma all’intera Chiesa: spetta certo al clero (provocante ciò che don Lorenzo scriveva all’amico don Ezio Palombo sull’obbligo, per i preti, di «rendersi antipatici noiosi odiosi insopportabili a tutti quelli che non vogliono aprire gli occhi sulla luce»). Ma spetta a ciascuno di noi: sia a chi opera nei complicati mondi della informazione e della formazione, sia a un pubblico (concetto non casuale) ormai vittima di «strategie della distrazione» in cui tutti ci crogioliamo felici.
Intriganti i ripetuti inviti, dai vescovi, a «cercare parole nuove», a farlo con «coraggio» e «fantasia», a non farsi ingannare dalla «parola che distrae», a «non spegnere ogni scintilla che sprizzi», a «chiamare le cose con il loro nome», a «dominare le parole per capire il mondo», a «osare senza paura nuove forme espressive e nuove sintesi», a «non restare indifferenti al muro che l’ignoranza civile pone», ad «assumere lo spirito libero dei grandi esploratori non spaventati dal mare aperto e dalle tempeste».
Belli gli inviti sulla «parola che incanta, accarezza, guarisce» e sulla parola che «annuncia». Stimolante, specie per noi sempre connessi in un ambiente di odio e false verità, il difficile invito alla «pratica del silenzio», alla «purificazione del linguaggio», all’imparare a «pronunciare solo parole che nascono dal cuore, leggere e profonde, gentili e assorte, fragili e sincere, parole che fanno bene». Già: che farne, adesso, di questa lettera sulla forza della parola (e della Parola)?
Sarebbe un bel riconoscimento – e ci sono voluti 50 anni per comprenderlo – se questo approccio si attuasse oggi nella pastorale corrente.
Bettazzi in “Ateo a 18 anni”, scrive: “Non disprezzerai la tua fede, non svaluterai la tua Chiesa: anzi apprezzerai ancor più quanto il Signore ti ha dato e ti dà anche attraverso la Chiesa. Ma ne sentirai tutta la responsabilità: di fronte a te stesso, per una crescita completa e armonica della tua umanità, redenta ed elevata dalla morte e Resurrezione del Signore, e di fronte a fratelli meno credenti, che aspettano d’intravedere nella concreta coerenza della tua vita una traccia più sicura del mondo di Dio. Anche di fronte alla Chiesa, che aspetta, magari inconsciamente, una ventata di rinnovamento e di giovinezza dalla tua presenza e dalla tua azione. Incoraggiaci, stimolaci, stancaci, se necessario; fallo con amore, ma fallo con insistenza e con fiducia. Qualcosa cambierà.”
Dopo il nostro incontro ho, come con il vescovo citato, atteso una qualche risposta che non è arrivata. E me ne dispiace. Ho atteso invano. Silenzio assoluto.
E mi chiedo se come Chiesa non si sa dare, alla fine delle assemblee, delle riunioni e dei convegni delle risposte, se non si attivano dei gesti operativi, se alla fine non si indicano delle scelte pastorali quale è la sua utilità?
Io me lo sono chiesto ed ora ho la mia risposta.
Cordiali saluti.
Roberto