Caro Papa Francesco come parroco ti chiedo “una Chiesa che sappia benedire” l’amore
Lettera aperta inviata a Papa Francesco sul Responsum da Don Dino D’Aloia*, parroco della Parrocchia di Sant’Antonio da Padova del Comune di San Paolo di Civitate (Foggia)
Caro Papa Francesco, sono un prete della tua stessa Chiesa Cattolica che ti scrive, un servitore nella vigna del Signore, uno che ti vuole molto bene, un tuo devoto figlio. Scrivo questa lettera per te, per me e per la Chiesa che tanto amiamo. La scrivo in special modo per le persone omosessuali che conosco e per le tantissime che non conosco che si sentono come noi figlie della Chiesa e che in questi giorni stanno soffrendo molto insieme ai diversi operatori e operatrici pastorali che, come me, li accompagnano nel cammino di fede cristiana cattolica. A loro voglio dare parole di conforto e di sostegno.
In questi anni del suo pontificato abbiamo sentito un’aria nuova entrare nella vita della Chiesa e nelle parole di un papa. Un entusiasmo ci ha colti. Lei ci ha parlato di misericordia e di accoglienza, di bonarietà. Ci ha tante volte ridetto che la Chiesa è madre e che ciascuno dei suoi figli deve essere accompagnato a realizzare la volontà di Dio nella sua vita, nelle concrete sue condizioni.
Lei ha speso per i suoi figli omosessuali parole inedite di incoraggiamento e anche alcuni documenti ufficiali hanno risentito del suo sguardo tenero e positivo verso di loro. La Amoris Laetitia, il documento finale del Sinodo dei Giovani, il documento “Cosa è l’uomo” della Pontificia Commissione biblica ne sono un esempio lampante. Lei si è anche speso per la legge sulle unioni civili perché le coppie omosessuali potessero avere protezione legale e diritti garantiti, conscio com’è che in tante parti del mondo vengono puniti e persino in qualche nazione messi a morte perché ritenuti un errore della natura, dei reietti anche da Dio.
Mentre i sinodi nazionali, in primis quello della Chiesa Tedesca, si stanno cimentando o si cimenteranno anche su queste tematiche dell’accoglienza che le nuove sensibilità del nostro tempo hanno messo al centro del dibattito pubblico intra ed extra ecclesiale, il 15 marzo scorso, come un fulmine a ciel sereno, come una doccia fredda, come una gelata in piena primavera abbiamo letto il Responsum della Congregazione della Dottrina della Fede che ha negato la possibilità a noi pastori di benedire le coppie omosessuali perché il loro amore sarebbe contrario al disegno della creazione divina e dunque “peccato” e quindi male morale. Non oso immaginare il dolore di tanti omosessuali cattolici che “ben conoscono il patire”, la derisione di tanti, l’abbandono dei genitori, la violenza, veder trattare e chiamare con queste parole il loro legame di profondo affetto: un amore che non può essere benedetto perché evidentemente va maledetto. Tertium non datur.
Personalmente sono stato preso dallo sconcerto e quasi dall’incredulità. Certamente gli estensori del Responsum sono persone che amano tanto la Chiesa e cercano di difendere i suoi valori e la verità del Vangelo così come viene interpretata dal Catechismo della Chiesa Cattolica.
Anch’io, anni fa, avrei condiviso in toto le loro parole. Anch’io insegnavo le stesse cose. Anch’io un giorno in un colloquio con un giovane che mi aveva confidato la sua omosessualità appena scoperta ebbi a ripetere che stava vivendo una condizione fuori o contro natura o comunque non prevista dall’ordine del creato.
Ma quando nel tempo successivo vidi che le mie parole drammaticamente gli avevano spento la voglia di vivere, di mangiare, di andare avanti, allora mi fermai, misi da parte e tra parentesi quell’armamentario di giudizio e di verità che in quel caso diventavano pietre e ceffoni e capii che la cosa più importante era di salvare la persona che avevo davanti a me e non “il sabato”, la sua concreta vita prima delle regole, la sua felicità prima di qualunque magnifico canone. E così quel giovane riprese a volersi bene, ad accettarsi e ad intravvedere un Dio che amava anche lui e io ne fui felice.
Da allora il ministero presbiterale mi ha fatto conoscere tante storie di vita, tante persone omosessuali che per il loro orientamento profondamente radicato amano persone dello stesso sesso e vogliono vivere insieme, nella fedeltà, nella tenerezza, nella responsabilità, nella reciproca assistenza, in un comune progetto di vita, nella gioia degli abbracci e dell’intimità. Non sono forse questi tutti frutti buoni da cui si evince la bontà dell’albero? Come possiamo chiamare il loro amore peccato e maledizione senza offendere Dio stesso da cui ogni amore trae origine e sostegno?
Ad oggi ho maturato dunque davvero la convinzione che qualunque affetto che porti gioia, pienezza, realizzazione e felicità profonda e duratura, come in diverse coppie omosessuali che ho conosciuto di persona, meriti la benedizione ecclesiale cioè il riconoscimento del buono che c’è e l’aiuto spirituale della chiesa.
Perciò carissimo papa Francesco rivediamo questo Responsum, integriamolo anche alla luce delle nuove consapevolezze forniteci all’unanimità dalla scienza, andiamo oltre perché se c’è una cosa che fa parte dell’ordine benedetto del creato è proprio la magia di chiunque si voglia bene.
Con stima e ammirazione, don Dino d’Aloia
* Don Dino D’Aloia è parroco della Parrocchia di Sant’Antonio da Padova del Comune di San Paolo di Civitate (Foggia). E’ stato rettore del seminario di San Severo a Foggia e da numerosi anni è impegnato per una chiesa sempre più “ospedale da campo che accoglie”. Scrive don Dino, sono più di “vent’anni che sono prete. In questo tempo ne è passata di acqua sotto i ponti e chissà ancora quanta ne passerà! Ho fatto tante esperienze nel frattempo, belle e brutte, ho camminato tanto, con la pioggia e con il vento. Mi pare di aver vissuto diverse vite. Ho cercato, alcune volte ho trovato, altre no e per questo cerco ancora”, cit. tratta da qui.