Caro vescovo ecco il mio cammino sinodale di cristiano LGBT+
Lettere inviateci da Roberto B.
Domenica 17 ottobre 2021, in tutte le Diocesi si è aperto solennemente il Sinodo fortemente voluto da Papa Francesco. Un “camminare insieme” per interrogarsi, discernere, indicare un percorso e dare risposte in questo tempo che, anche a causa della pandemia, ha visto molti abbandonare Cristo e la Chiesa.
Ecc.ma Rev.ma
Le scrivo in privato, sia per la stima che ho per lei, sia soprattutto per poter essere “solo me stesso”, raccontare di me e del mio vissuto. Questo in vista del prossimo Sinodo voluto fortemente da Papa Francesco.
Mi dispiace solo di rubarle del tempo prezioso, ma mi auguro che quanto dico possa essere utile per una riflessione. Le dico subito che, per esperienza, non ho molta fiducia in questi eventi, e preciso.
Alcuni anni fa fu solennemente proclamato un Sinodo che durò, tra preparazione, celebrazione e chiusura, circa quattro anni. Quando in cattedrale ci fu la solenne chiusura, sedeva al mio fianco un signore che mi chiese: “Ma che cosa è il Sinodo?” Questo dopo quattro anni (2003-2007)! Evidentemente si trattava di persona che stava lì per fare “presenza”.
Dopo un po’ di tempo, ad una persona addentrata nel mondo ecclesiale dissi: “Il Sinodo” è servito a “riempire delle carte”. Il tema del Sinodo era “Fare della Chiesa diocesana la casa e la scuola della comunione”.
Altra esperienza diretta, in riferimento al Convegno Pastorale della Diocesi sul tema: “Accogliere, Accompagnare e Guarire”, si diceva di “tre verbi che nel triennio 2016-2019 vogliono aiutarci a pensare e definire un’azione Pastorale che sia davvero l’incontro di ogni uomo con Cristo che Accoglie, Accompagna, Guarisce”. Una occasione che “diventi ogni anno, sempre più, una vera occasione di ascolto e confronto intorno a ciò che si vive nelle nostre Parrocchie”. E si auspicava, con “entusiasmo e passione”, un “lavoro in vista del Convegno”.
Nessuno mi invitò, ma io vedevo – tenendo presente tante sollecitazioni di Papa Francesco che mi davano speranza – una possibilità su quel tema tanto affascinante di mettersi in ascolto diretto delle persone che potevano vivere situazioni come – si suol dire- “difficili”, e poterle accompagnare. Accogliere e ascoltare il vissuto delle persone aiuta a leggere e comprendere ciò che non sempre si conosce.
Seguii i lavori e feci, nei gruppi di lavoro, questo mio intervento. Lo feci con tremore:
Mio intervento al Convegno Diocesano – “Accogliere”
All’inizio del Sinodo sulla famiglia il Papa chiedeva di parlare con estrema schiettezza, in piena libertà. Ritengo che anche in questo Convegno si debba utilizzare lo stesso criterio nell’affrontare le situazioni concrete delle famiglie, individuare quelle “cosiddette” situazioni difficili per tentare di dare risposte pastorali adeguate. Come ha scritto il nostro Arcivescovo “si tratta di privilegiare una pastorale che produca processi”, cioè non fornire frettolose risposte, ma un camminare insieme in un percorso di conoscenza.
Il Papa, nell’Esortazione sulla famiglia, afferma: “Non esiste la famiglia ideale, ma un mosaico di realtà diverse, un poliedro che ci interpella” (Amoris laetitia, n. 57).
E continua l’Arcivescovo: “Non possiamo quindi partire da un’idea astratta del bene, per applicarla nell’impegno pastorale, ma tenere insieme con sapienza ciò che ci chiede la realtà, l’esperienza della carne viva delle persone, e fecondarla con la luce del Vangelo”.
Ci è chiesto dunque di guardare la realtà per quella che è, in tutte le sue sfaccettature. Quando parliamo delle situazioni “cosiddette” difficili facciamo un lungo elenco: i separati, i divorziati, gli immigrati, i senza tetto, le donne e i bambini abbandonati, sfruttati, i senza lavoro, quelli che muoiono in tanti conflitti, i morti nei naufragi, e così via.
Tutti sono presenti nei nostri cuori. O meglio, quasi tutti. C’è un posto, una intenzione di preghiera per tutti, ma non per quelli che, per la loro “diversità”, sono giudicati, emarginati, vittime dell’intolleranza e dell’odio, quelli che in tanti Paesi, particolarmente arabi e africani, vengono perseguitati, incarcerati e anche condannati a morte.
Dice il Papa che per queste persone “va evitato ogni marchio di ingiusta discriminazione, e particolarmente ogni forma di aggressione e violenza” (Amoris laetitia, n. 250).
Beatrice Brogliato e Damiano Migliorini, nel loro recente libro L’amore omosessuale, ponevano una domanda: “Perché, per la Chiesa, l’argomento ‘omosessualità’ è così fastidioso, imbarazzante, difficile da affrontare?”; e rispondevano: “Perché ci si accorge di quanto il tema possa essere scottante”.
Nel documento proposto (in preparazione) al Convegno, al n. 1 – “Accogliere” si chiede: “Esistono categorie di persone che escludiamo concretamente, e perché? Chiediamoci: come vengono guardate, giudicate queste persone? Quale posto occupano?”.
Il Papa parla “dei tempi che cambiano”, e nella Evangelii gaudium (n. 40) dice: “In seno alla Chiesa vi sono innumerevoli questioni intorno alle quali si ricerca e si riflette con grande libertà”.
Dall’esortazione Amoris laetitia in poi ci sono state varie aspettative, dove tutto si sarebbe voluto chiaro, prefissato, ben definito. Leggo:
– “La necessità di continuare ad approfondire con libertà alcune questioni dottrinali, morali, spirituali e pastorali” (n.2);
– “Non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero” (n.3).
Qui non si tratta di stravolgere la dottrina, ma di saper ascoltare, leggere, discernere, cercare di capire e accompagnare.
Scrive don Valter Danna (Fede e omosessualità), alla luce della sua esperienza pastorale nella diocesi di Torino: “Si tratta di accogliere, ascoltare, comprendere […] creare per queste persone un clima relazionale dove la persona non si sente immediatamente giudicata, né condannata, bensì percepisce un’atmosfera calma e serena, nella quale fare emergere le proprie angosce, difficoltà, delusioni, paure, solitudini, la stessa vergogna e senso di colpa per il solo fatto di essere in questo modo”.
Nelle due sessioni sul Sinodo della Famiglia si sono affrontati molteplici aspetti e difficoltà all’interno della famiglia, e solo marginalmente la dimensione delle persone omosessuali.
Non c’è stato un vero approfondimento, e nel documento finale sono stati omessi, purtroppo, alcuni passaggi della Relazione “post disceptationem” presentata dal cardinale Erdő. Leggo:
“Le persone omosessuali hanno doti e qualità da offrire alla comunità cristiana: siamo in grado di accogliere queste persone, garantendo loro uno spazio di fraternità nelle nostre comunità? Spesso esse desiderano incontrare una Chiesa che sia casa accogliente per loro. Le nostre comunità sono in grado di esserlo, accettando e valutando il loro orientamento sessuale, senza compromettere la dottrina cattolica su famiglia e matrimonio? La questione omosessuale ci interpella in una seria riflessione su come elaborare cammini realistici di crescita affettiva e di maturità umana ed evangelica”.
Il Santo Padre, con la sua Esortazione, invita la Chiesa ad essere “madre che abbraccia, cioè che definisce la propria identità nella capacità di accoglienza, di ascolto, di accompagnamento”, e aggiunge: “Oltre la legge, c’è qualcosa che, compiendola, la supera, una accoglienza […] fuori misura […] Perché è la Misericordia che riscatta la nostra miseria” (Amoris laetitia, n.2).
Dopo un po’ di tempo andai a fare visita al prete che era presente quando lessi il mio intervento – documento che consegnai anche. Gli chiesi se lo ricordava, glielo lessi anche, ma niente! Poi gli inviai questa lettera in data 4.9.2018:
Quando ci siamo incontrati a giugno, Le rammentai del mio intervento (non comune) al Convegno diocesano, cosa che non ricordava, e questo mi sorprese, trattandosi di un intervento pubblico in assemblea; un documento scritto che poi Le consegnai. Un intervento che sarà stato allegato insieme ad altri, magari sarà stato oggetto di riflessione. Perché, se non fosse così, quali sviluppi, quali percorsi si attivano, quale utilità hanno, dopo le relazioni, i dibattiti, che pure vengono richiesti? L’Arcivescovo, in preparazione al Convegno, affermava che bisogna uscire dalle “pastoie del legalismo” per “introdurre processi” di un cammino di fede e pastorale, aggiungendo che “ci vorrà pazienza, costanza, approfondimento, condivisione”.
Sempre a giugno Le raccontai di un mio incontro con un vescovo, che volli incontrare in seguito ad un suo intervento su Avvenire. Un incontro fatto precedere da uno scambio epistolare. Rimasi molto colpito dalla sua paterna accoglienza. Seguì poi uno scambio epistolare, ringraziandolo dell’incontro, dove ponevo riflessioni e domande. Successivamente questo contatto si andò a diradare, fino alla interruzione. Così scrissi un’ultima lettera, ecco alcuni spunti:
“Mi creda, caro Mons., se non fossi fiducioso che prima o poi la Chiesa possa affrontare, in una attenta e serena valutazione, simile problematica, e di conseguenza riformulare nuovi giudizi, io mi sarei fatto circa 900 km (solo andata) per un incontro, certamente bello, ma fine a se stesso?
“Mi sono anche chiesto cosa ha pensato del mio incontro e delle mie riflessioni, quale utilità per Lei? Io, liberamente e serenamente, ho affrontato i vari argomenti non con ragionamenti astratti, ma partendo dalla mia esperienza. Il suo è stato un accogliere e mettersi in posizione di ascolto diretto – ho notato con piacere che prendeva appunti –, e mi chiedo: cosa ha significato per Lei? È cambiato qualcosa nella comprensione di un fenomeno penso non completamente conosciuto, e quale giudizi ne ha tratto? Mi confortò ancora sapere che il nostro dialogo sarebbe continuato per posta. Si può dire che ogni giorno ho guardato con trepidazione nella cassetta della posta, sempre in attesa di una sua risposta, di una sua parola. Ho atteso.
“Ho atteso un tempo sufficientemente ragionevole (fra poco quattro mesi), per temere che forse Lei non continuerà il nostro dialogo iniziato, e questo mi dispiace. Comprendo molto bene che le mie domande e i miei quesiti non sono di facile soluzione, e forse l’ho messa in difficoltà”.
Quello che noto è che, pur in un incontro accogliente, di fronte a precise domande, non si sa rispondere. Quello che dovrebbe essere luogo di ascolto accogliente, si traduce in un imbarazzante silenzio.
Le ho anche accennato del mio percorso, sia di fede che di approfondimento, e questo mi procura tanta serenità. Come dice S. Paolo: “So in Chi ho posto la mia fiducia”. Faccio continuamente esperienza della paternità di Dio, che mi ha voluto e mi ha amato anche prima che Lo conoscessi. Ma quanti ragazzi oggi hanno bisogno di ambiti, persone e luoghi di ascolto dove raccontare il proprio dramma, dove poter incontrare la Misericordia di Dio, gente che si è allontanata dalla Chiesa perché la vedono distante, non accogliente?
Quante espressioni sta usando Papa Francesco in tema di ascolto, di accoglienza, di farsi prossimi, di sollecitare una Chiesa in uscita. Espressioni che sono di estremo conforto per me, come per tanti altri.
Le ho anche suggerito di leggere il libro “Un ponte da costruire” del gesuita James Martin, dove in modo preciso vengono indicati i passi che la Chiesa è chiamata a percorrere. Spero che lo abbia letto, ed è un libro che dovrebbero leggere tutti i preti, per poi iniziare a costruire tutti insieme questo ponte.
Padre Martin è stato anche relatore alla Conferenza sulla famiglia a Dublino. Un intervento pubblico che ha avuto molto risalto ed ha affrontato vari aspetti, indicando anche percorsi concreti di ascolto, incontro ed accoglienza. Una novità assoluta, se ne sentiva il bisogno.
Recentemente dai vescovi toscani è uscito, in occasione del 50° dalla morte di don Lorenzo Milani, il libro “La forza della Parola”. È stato come un debito di riconoscenza verso questo sacerdote allontanato, e che in uno sperduto paesino ha inventato una pastorale dell’ascolto, sottolineando l’importanza della parola e della promozione umana. Ecco qualche spunto:
“Un documento che alza il velo su questioni di enorme impatto. Non so se riesce, in tutto, a «saldare il debito di riconoscenza» accumulato, dalle Chiese toscane e non solo, nei confronti di don Lorenzo Milani (forse sarebbe stato bello pronunciare, senza timore, una delle tre parole – la terza – che Francesco indica come il segreto nella relazione di coppia: «Permesso, grazie, scusa»). Ma non può sfuggire l’importanza che tutti i vescovi toscani si ritrovino in un documento come questo.
Adesso la parola, in un testo che si intitola La forza della parola, spetta non solo ai vescovi, ma all’intera Chiesa: spetta certo al clero (provocante ciò che don Lorenzo scriveva all’amico don Ezio Palombo sull’obbligo, per i preti, di «rendersi antipatici, noiosi, odiosi, insopportabili a tutti quelli che non vogliono aprire gli occhi sulla luce»). Ma spetta a ciascuno di noi: sia a chi opera nei complicati mondi della informazione e della formazione, sia a un pubblico (concetto non casuale) ormai vittima di «strategie della distrazione» in cui tutti ci crogioliamo felici.
Intriganti i ripetuti inviti dei vescovi a «cercare parole nuove», a farlo con «coraggio» e «fantasia», a non farsi ingannare dalla «parola che distrae», a «non spegnere ogni scintilla che sprizzi», a «chiamare le cose con il loro nome», a «dominare le parole per capire il mondo», a «osare senza paura nuove forme espressive e nuove sintesi», a «non restare indifferenti al muro che l’ignoranza civile pone», ad «assumere lo spirito libero dei grandi esploratori, non spaventati dal mare aperto e dalle tempeste».
Belli gli inviti sulla «parola che incanta, accarezza, guarisce» e sulla parola che «annuncia». Stimolante, specie per noi sempre connessi in un ambiente di odio e false verità, il difficile invito alla «pratica del silenzio», alla «purificazione del linguaggio», all’imparare a «pronunciare solo parole che nascono dal cuore, leggere e profonde, gentili e assorte, fragili e sincere, parole che fanno bene». Già: che farne, adesso, di questa lettera sulla forza della parola (e della Parola)?
Sarebbe un bel riconoscimento – e ci sono voluti 50 anni per comprenderlo – se questo approccio si attuasse oggi nella pastorale corrente.
Bettazzi in “Ateo a 18 anni”, scrive:
“Non disprezzerai la tua fede, non svaluterai la tua Chiesa: anzi apprezzerai ancor più quanto il Signore ti ha dato e ti dà anche attraverso la Chiesa. Ma ne sentirai tutta la responsabilità: di fronte a te stesso, per una crescita completa e armonica della tua umanità, redenta ed elevata dalla morte e Resurrezione del Signore, e di fronte a fratelli meno credenti, che aspettano d’intravedere nella concreta coerenza della tua vita una traccia più sicura del mondo di Dio. Anche di fronte alla Chiesa, che aspetta, magari inconsciamente, una ventata di rinnovamento e di giovinezza dalla tua presenza e dalla tua azione. Incoraggiaci, stimolaci, stancaci, se necessario; fallo con amore, ma fallo con insistenza e con fiducia. Qualcosa cambierà”.
Dopo il nostro incontro ho, come con il vescovo citato, atteso una qualche risposta che non è arrivata. E me ne dispiace. Ho atteso invano. Silenzio assoluto.
E mi chiedo anche se come Chiesa salernitana non si sa dare alla fine delle assemblee, riunioni, convegni, delle risposte, non si attivano gesti operativi; se alla fine non si indicano scelte pastorali, quale è la loro utilità?
Io me lo sono chiesto ed ho la mia risposta.
Foglietto a parte:
Penso a quanti oggi, vivendo la stessa “condizione”, non hanno un posto, una persona, un luogo dove poter essere accolti e ascoltati. Mi auguro e prego perché questa sia una felice opportunità.
La ringrazio della pazienza. Io prego per lei e per la riuscita del Sinodo.
Roberto
Risposta del vescovo
Gentile Roberto, ho molto apprezzato la sua lettera, ben articolata, ferma nei contenuti e insieme pacata, nella quale mi ha esposto il suo percorso, fatto di sofferenza, delusioni e, negli ultimi tempi, anche di un cammino positivo intrapreso.
Certamente ancora molti passi, a livello ecclesiale, devono essere fatti in tema di ascolto e accoglienza delle persone omosessuali, ma devo confessare che – anche per me – non ci sono ancora chiare indicazioni di strade da intraprendere, se non quella – certamente – di un’accoglienza e valorizzazione che stenta ancora ad essere vissuta nelle nostre comunità e fra il nostro clero.
Da una parte, lo dico sinceramente, non mi piacciono ambiti o percorsi che “selezionino” le persone a partire da una condizione di vita o affettiva permanente (vedovi, single, omosessuali, pensionati, disabili, ecc…), poiché ritengo che la nostra comune vocazione battesimale sia l’aspetto comune più qualificante e integralmente rispettoso della nostra vita e responsabilità ecclesiale.
D’altra parte, allo stesso tempo comprendo che avere magari un sacerdote di riferimento per coloro che vivono una condizione diciamo “particolare” in campo affettivo, possa risultare un aiuto, come avviene già in altre diocesi. Per questo mi riprometto di pensarci con i miei collaboratori, accettando anche suoi suggerimenti.
Un caro saluto
A* B* Arcivescovo
Io rispondo:
Eccellenza carissima, già aver avuto l’attenzione di leggere, e ancor più l’aver risposto, è per me motivo di commovente gratitudine.
Anche io non ho mai pensato a pastorali “per settori” ma, ed è ciò in cui credo, la possibilità di essere accolti per quello che si è. È importante per chi vive una condizione non scelta (parlo in modo particolare per i giovani – uomo o donna -) sapere che esistono ambiti e persone disposti ad accogliere e accompagnare.
Grazie ancora infinitamente e, se lo ritiene, possiamo incontrarci.
Lo Spirito guidi lei e la Chiesa tutta in questo cammino sinodale.