Che colpa abbiamo noi? I limiti della sottocultura omosessuale
Intervista di Gianni Geraci a Mattia Morretta autore di “Che colpa abbiamo noi (editore Viator, 2013)
Mattia Morretta, nato nel 1957 in provincia di Salerno e residente fin dall’infanzia in una paese della bassa Brianza, ha alle spalle una storia di riflessione e di impegno al servizio della comunità omosessuale italiana che dura da circa trentacinque anni.
Già quand’era adolescente partecipava ai Collettivi politici omosessuali e animava le trasmissioni che le radio libere di Milano (soprattutto Radio Popolare) dedicavano all’omosessualità.
Sempre in quegli anni ha promosso un gruppo di auto-analisi a cui ha dedicato la sua tesi di laurea in Medicina. Nel 1985 è stato uno dei fondatore dell’ASA (Associazione Solidarietà Aids) di cui è stato primo presidente, ricoprendo la carica sino alla fine del 1990.
In quegli anni ha avviando la prima esperienza italiana di auto-aiuto tra soggetti Hiv positivi (di questa esperienza ha scritto nella sua testi di specializzazione in psichiatria, nel 1987). A questa attività ha affiancato una lunga collaborazione con la rivista di cultura omosessuale «Babilonia» dando un contributo originale al dibattito sull’identità e un periodo di collaborazione con l’AGEDO (Associazione Genitori Degli Omosessuali) per interventi di sensibilizzazione nelle scuole di secondo grado. Dopo un periodo sabbatico ha ripreso l’iniziativa culturale ideando e curando, dal 2005 al 2010, il sito web «Omonomia, una prospettiva critica sull’omosessualità».
Lavora come sessuologo e psicoterapeuta per il Servizio sanitario pubblico (Centri per Hiv e Malattie a Trasmissione Sessuale), dopo aver lavorato anche in ambito privato, con particolare attenzione all’utenza omosessuale, occupandosi anche di formazione degli operatori. Lo intervistiamo in occasione della presentazione del suo nuovo libro: «Che colpa abbiamo noi. Limiti della sottocultura omosessuale» (Gruppo editoriale Viator, Milano, 2013).
Nel libro dedichi molto spazio alla condizione degli omosessuali in Italia. Come la consideri? Quali sono gli elementi preoccupanti e quali quelli positivi?
Preferisco focalizzare l’attenzione sulle mancanze, nell’ottica di mobiliare coscienze in vista di un agire motivato, essendo ben pochi gli allori sui quali riposare. Ai superficiali piace mostrarsi ottimisti, perché non vedere i problemi dispensa dal provare a risolverli.
In primo luogo, abbiamo tuttora a che fare con l’annosa questione meridionale in versione “gay”, più che “mezzogiorno” un’area depressa e di sottosviluppo, gravata da arretratezza e povertà a tutti i livelli (sociale culturale spirituale).
Da un lato c’è un apparente progresso (industrializzazione, circuiti commerciali e web, campagne informative aggressive), dall’altro lato permangono atavismo e immobilismo da «Cristo si è fermato ad Eboli».
In secondo luogo, nessuno lavora per la res-publica omosessuale, cioè per il civismo nelle relazioni interpersonali tra omosessuali, essendo quasi tutti gli sguardi e gli sforzi rivolti all’esterno, vuoi per sovvertire vuoi per assimilare i modelli imperanti.
Al contrario, siamo succubi di “cosa nostra” e della “casta” gay, non esiste una comunità degna del nome e neppure una lobby, però abbondano i faccendieri, gli affaristi e i manipolatori che sfruttano le esigenze e le sofferenze degli omosessuali. Insomma, tanti padroni fomentatori di licenza, ma pochissima libertà di pensiero e di espressione.
La dimostrazione è il linguaggio allusivo e non comunicativo (coming out, omofobia, etc.), fatto di parole selezionate da altri, usate con criteri pubblicitari e “mediatici”, una politica con due o tre punti programmatici di pura facciata. D’altronde, come ha detto la poetessa polacca Wislawa Szymborska: «Le persone si istupidiscono all’ingrosso, e rinsaviscono al dettaglio».
Gli stessi che protestano per le discriminazioni e i pregiudizi, accettano supinamente il rigido codice di comportamento e di interazione del cosiddetto “mondo gay”, da cui dipendono l’invivibilità quotidiana e l’assenza di progettualità, e che andrebbe considerato la minaccia più insidiosa e grave alla nostra realizzazione.
Nella premessa sostieni che agli omosessuali italiani mancano figure di “padri” e “profeti” capaci di rimproverarli e di richiamarli avendo a cuore la loro umanità. Possiamo dire che cerchi di riempire questo vuoto in prima persona ?
Il libro è stato scritto per senso del dovere, per dare voce ad istanze di giustizia e verità intessute con la mia esperienza personale, sociale e professionale in una fase di maturità che prelude al passaggio del testimone. Pertanto il tono è da “padre fondatore” e la lingua è “profetica”, infuocata perché la severità è d’obbligo quando si prende sul serio la vita in una veste ufficiale.
Mi rivolgo direttamente agli omosessuali quali interlocutori e destinatari privilegiati, valorizzati e concepiti come capaci di assumere responsabilità, cambiare ed evolvere, soggetti forti e non “deboli”, uomini e non “ragazzi” o minori; sullo sfondo tutti gli altri sono convocati quali testimoni e uditori. La critica è sistematica e rigorosa, in alcuni passi una paternale comprensiva di rimprovero, che è in realtà una forma e un’occasione di “soccorso” da parte di uno tra i migliori avvocati della causa.
Di fronte alla provocazione e allo schiaffo morale i superficiali si limiteranno al primo acchito, chi ha orecchie per intendere ascolterà il messaggio sostanziale, che è l’appello a dare il massimo e il meglio delle proprie risorse. Sarebbe più facile e gratificante fare il diplomatico, il morbido e l’indulgente, è molto alto il costo dell’atteggiamento pedagogico e giudicante che esige la funzione pubblica connotata dalla coerenza.
Ad essere sincero, fossi negli altri, rubricherei la mia figura di “moralista omosessuale” tra le specie da proteggere, a prescindere dal contenuto delle perorazioni. Perché criticare con attenzione è partecipare con generosità, astraendo da motivazioni private politiche economiche mondane.
Non sono pochi, nel libro, i riferimenti critici al modo in cui il movimento LGBT ha vissuto il problema dell’integrazione sociale delle persone omosessuali. In particolare lo accusi di autoreferenzialità e di omologazione a modelli di consumismo sessuale, disattendendo la maturazione di una vera consapevolezza della condizione e i bisogni profondi degli omosessuali.
Non trovi, però, che vi siano state anche esperienze positive che hanno favorito la nascita di alcuni “mondi vitali” in cui l’omosessualità si è integrata in maniera soddisfacente con la vita quotidiana della comunità civile nel suo insieme?
Non dubito vi siano situazioni di dialogo costruttivo e convivenza pacifica, ma proprio il clima di “tolleranza” o permissività dovrebbe spingere a lavorare con un rinnovato impegno sull’omissione culturale e sugli stereotipi che immiseriscono gli omosessuali, perché senza una seria messa in discussione del copione di erotizzazione e trasgressione non si creeranno mai le condizioni per un’effettiva evoluzione.
Anzitutto, andrebbe valorizzata l’omo-filia temperandone la componente sessuale, perché serve più dell’aria contare su opportunità di immedesimazione volontaria in contesti amicali e di gruppo, nei quali sperimentare normalità e rielaborare il male e il dolore associati all’omosessualità.
In effetti, considerando l’isolamento patito nella fase dello sviluppo e dell’adolescenza, più che occasioni sessuali o sentimentali, l’omosessuale ha bisogno dell’esperienza del gruppo per la socializzazione dell’identità psicosessuale e della corporeità; un’esigenza basilare indispensabile per fortificare l’Io e far maturare la personalità, cui dovrebbero provvedere le organizzazioni sociali e la comunità gay, non certo la società, la Legge o lo Stato.
Si sottovaluta che l’identificazione gay è una posizione spirituale non meno che materiale nel vissuto dei singoli e del “movimento”, per questo esistono i caduti della resistenza partigiana gay e i martiri della fobia (invece che delle foibe). Per reazione alla supposta ostilità viene ipostatizzato qualunque aspetto ed elemento della sotto-cultura strutturatasi nel tempo, quasi si trattasse di una fede in un’etnia minoritaria.
Il motto è “resistere resistere resistere”, il che significa conservazione del passato sotto le espressioni esteriori contingenti, nonché assunzione passiva e inconscia delle colpe dei predecessori. Infatti, la spiritualità degradata è il lato occulto e dark della promiscuità e della sacrificalità sessuale degli omosessuali.
Gli omosessuali credenti possono offrire un contributo originale che possa essere utile alla comunità omosessuale nel suo complesso?
Quanto agli omosessuali credenti, se insisto nell’analisi critica è perché attribuisco loro compiti di importanza “cruciale”, a cominciare dalla promozione dei valori cristiani nei rapporti interpersonali, invece di optare per chiusura tra le mura di conventi o chiese ad hoc.
Ciò implicherebbe pure un differente approccio alla visibilità dell’identità e non del comportamento sessuale, perché la testimonianza è parte integrante del cristianesimo (simbolicamente la disponibilità a versare il sangue), anziché preoccuparsi di reputazioni, mormorazioni, pettegolezzi. Penso che troppo spesso ci si dimentichi di avere una sola vita sprecandola per falsi scrupoli ed eccessiva viltà.
Parrebbe naturale che gli omosessuali cristiani fossero tutori delle anime dei “fratelli”, lanciando l’SOS nei luoghi di naufragio e disperazione, promuovendo una concezione umanizzante della sessualità, un atteggiamento rispettoso nei confronti del corpo e del sesso, il rigetto della mercificazione e della pornografia.
Essi potrebbero e dovrebbero mostrare di aver fame e sete di giustizia dentro i contesti gay, magari organizzando sit in di protesta davanti ai postriboli e ai centri di corruzione, poiché il silenzio è uguale alla morte spirituale prima che fisica.
Più che sull’omofobia, servirebbero veglie e marce per le vittime di certi “ambienti gay”, superando il lamento sulla non accoglienza nella Chiesa e la richiesta di elemosine umilianti. E ancora, sarebbe opportuno mostrarsi poveri in spirito in spregio all’estetismo, alla mondanità griffata e alla ricchezza esibita tanto diffuse nella categoria.
C’è un capitolo che mi trova molto in sintonia, quello in cui parli dell’affettività gay. In particolare quando sostieni che le unioni omosessuali non rappresentano la maturità o un grado più evoluto di omosessualità. Il rischio, infatti, è quello di pensare solo in termini di un certo tipo di intimità sessuale, senza tener conto che la consapevolezza dell’omosessualità può realizzarsi nelle situazioni più diverse.
Si tratta di un’idea che non è facile sostenere in un paese in cui buona parte delle attività costruite per le persone omosessuali hanno la finalità di favorire la ricerca di un partner. C’è un modo per far capire agli omosessuali che il loro orientamento sessuale ha un valore che va al di là del successo che incontrano in questa ricerca?
Oggigiorno la “carriera” omosessuale prevede solo due passi: il primo è dichiararsi gay e il secondo, a breve distanza, far sapere di avere il compagno, quindi il percorso è finito. Eppure, la vera conquista di ogni essere umano è arrivare ad essere “in relazione” e non avere una relazione, non fosse che perché nessun individuo, per quanto straordinario, può esaurire o sostituire l’umanità per un altro.
La coppia è sovente non una cellula sociale bensì un ripiego asociale, esattamente il ripiegamento narcisistico di cui si parlava un tempo, con assolutizzazione dell’egotismo sotto le mentite spoglie della reciprocità.
Reputo la sua affermazione sulla scena mediatica una scorciatoia e una via di fuga dalla strada maestra del confronto tra omosessuali ed eterosessuali. È sconfortante che nominare il compagno di questo o quel personaggio appaia il riassunto di tutto quel che di omosessuale possa venir detto e fatto (vedi il figlioccio di Lucio Dalla che “compare” durante la cerimonia funebre a siglare l’iconografia di partito sull’argomento).
Un esempio paradigmatico è la vicenda della nota lettera di Wilde ad Alfred Douglas, declamata, tra applausi “politici”, da Benigni sul palco di Sanremo, barando sul significato, perché è soltanto trasfigurazione artistica e non riproduzione veritiera del loro rapporto, tant’è vero che Douglas è stato la rovina di Wilde, un Attila dopo il quale non è più cresciuta l’erba, uno psicopatico che ha per giunta rivendicato, per il resto dei suoi anni, di non essere omosessuale!
Per me i contenuti fondamentali dell’esperienza omosessuale sono quelli descritti da Michel Foucault ed Edmund Withe, quando parlano di: «amicizia come modo di vita» e di «archetipo del migliore amico».
Amore amicale e amicizia amorosa sono altra cosa dal legame sentimentale privato, il Noi (con la maiuscola) dei partner “fissi” esclude il prossimo, rendendolo coreografico o tappezzeria, ospiti buoni per tappare i buchi (pure sessualmente), per lo più è un chiudersi dentro lasciando e tenendo fuori tutti gli altri.
Sappiano dunque che non parlano a mio nome né potrebbero coloro che chiedono quale massimo diritto il riconoscimento delle loro unioni private, reali o fittizie che siano, credendo di poter spazzar via con un invito a nozze prestampato tutto l’impegno civile della mia vita.
Alla luce di quello che scrivi nel tuo libro si può dire che l’omosessualità serva a qualcosa? E, se sì a che cosa?
Molti intellettuali gay hanno sostenuto l’idea che l’omosessualità veicoli impulsi anti-comunitari, conglobando un’esigenza politica di sovvertimento delle forme sociali ordinarie. Eppure la struttura portante della società è costituita dalle relazioni tra membri dello stesso sesso, quel che Roland Barthes chiamava «le due linee parallele di Sodoma e Gomorra».
Ai rapporti tra i due sessi compete l’onere della riproduzione della specie, ma la sopravvivenza della comunità è legata soprattutto alla collaborazione dei maschi tra loro e delle femmine tra loro. La profonda paura del potenziale destrutturante dell’omosessualità è paradossale e comprensibile al contempo: non si tratta solo del timore di un disordine sessuale in senso stretto, bensì della preoccupazione di veder pregiudicata la socialità stessa a causa della concretizzazione e della trasformazione in specificità della componente omoerotica della vita collettiva.
Qualcosa di analogo a quanto espresso in una lirica di Brecht: «Tutti i vizi hanno le loro utilità / ma non l’uomo che li ha. / I vizi servono, se conosci il tuo scopo».
Da qualche anno sto scrivendo un libro dedicato per l’appunto alle “funzioni” fondamentali dell’omo-filia nell’ambito della sessualità maschile in generale, per dimostrare che l’omosessualità andrebbe dichiarata “patrimonio dell’umanità”, a prescindere dagli omosessuali e soprattutto dalla gay generation.
Se sublimata regge e cementa la trama sociale (un cardine del pensiero freudiano), è fisiologico il passaggio all’atto in una certa percentuale di soggetti (variabile a seconda delle epoche, delle latitudini e del clima culturale permissivo o repressivo); altrettanto fisiologico che sedimenti in una minoranza come preferenza esclusiva o dominante.
La deriva patologica è un’ulteriore logica conseguenza oltre che possibilità implicita, come per tutti i tratti e le predisposizioni. Censori, legislatori, predicatori puntavano a ridurre la quota di atti, cioè l’omosessualità praticata (solo in nazismo si è spinto sino a proibire le fantasie), paventando sfaldamento della famiglia e della struttura sociale. L’omosessualità serve alla sopravvivenza della specie al punto che si selezionano, ad ogni generazione, servitori o addetti; tuttavia, gli individui identificati in quanto omosessuali e organizzati in una comunità costituiscono un supplemento sociale e simbolico da riempire di significati positivi ed evolutivi.
Cosa dovrebbero fare gli omosessuali che ci stanno leggendo per superare le contraddizioni che il tuo libro evidenzia? C’è speranza?
La prima pietra dell’edificio è la struttura identitaria: l’identità di base è quella di essere umano, poi quella del genere maschile e infine quella di omosessuale. La seconda è la distinzione tra bisogni e diritti per giungere a capire che ci sono anche i doveri per configurare la piena umanità e cittadinanza. I muri portanti sono progetti di studio e programmi di buone pratiche, perché per procedere è giocoforza impegnarsi nella comprensione dei molteplici fattori negativi condizionanti e pensare in termini di educazione reciproca.
Se in un famoso scritto sulla sessualità femminile Freud si chiedeva sconsolato: «Cosa vuole una donna?», noi dobbiamo chiederci: «Cosa vuole un omosessuale? Cosa caratterizza il tipo umano omosessuale?» e soprattutto: «Come intendiamo vivere?». Volenti o nolenti, la minoranza è composta da “minori” in senso sociale e psichico, che devono “crescere” e infine diventare adulti assumendo tutte le responsabilità oggettive della propria condizione.
Al collettivismo politico e alla privatizzazione sentimentale o sessuale va opposto un processo cosciente e a lungo termine di costruzione di una comunità culturale che abbia per finalità il superamento del pregiudizio negativo e positivo, il dare orientamento all’inclinazione sessuale, portandola a maturazione e la promozione di relazioni disinteressate, piccole aggregazioni che aiutino a vivere dignitosamente, prescindendo dal momento storico e da criteri materialistici.
Da visionario immagino gli omosessuali italiani che almeno per un giorno formino da nord a sud («Da Trieste in giù») una “catena umana” di silenziosa solidarietà col sorriso sulle labbra, liberandosi da catene ideologiche, erotiche e mercantili, utilizzando il dolore esistenziale, che non porta maschere e mette a tacere, per congiungere le mani.
Mattia Morretta, Che colpa abbiamo noi. Limiti della sottocultura omosessuale, Gruppo editoriale Viator, Milano, 2013