Che cosa fa di me un uomo?
Articolo del 23 gennaio 2013 di Richard Blanco* pubblicato su Huffington Post Italia
Ho sei o sette anni e sto tornando a casa in macchina con mio nonno e con la mia nonna cubana dopo essere stato da mia tía Onelia. Suo figlio Juan Alberto è effemminato, è “un afeminado”, dice mia nonna schifata.
“Ma come mai? E’ così bello. Cos’avrà sbagliato lei con quel niño?”, continua, e poi si gira verso di me, che sto seduto dietro: “Meglio avere una nipote puttana che un nipote pato e finocchio come te. Hai capito?”, mi fa con una voce piena di disprezzo.
Faccio di sì con la testa ma non capisco: davvero, non capisco cosa significhi finocchio. Ancora non so neanche che cosa sia il sesso.
Tutto quello che so che è lei sta parlando di me, proprio di me. E che qualunque cosa io sia, dev’essere qualcosa di brutto, di molto brutto. Venti e passa anni dopo, me ne sto seduto nello studio del mio psichiatra a raccontare questa storia.
Nei mesi successivi, grazie al suo aiuto, comprendo il peso che ha avuto la violenza psicologica e verbale di mia nonna, che io avevo nascosto sotto il tappeto del mio subconscio.
Nel corso degli anni e fino a questo momento, ho sempre continuato a scoprire quanto il mio carattere, le mie relazioni e il mio modo di scrivere siano stati influenzati da quella violenza. Io non scrivo illuminato da Oscar Wilde, Walt Whitman, o Elizabeth Bishop, ma all’ombra di mia nonna, una donna omofoba che aveva a malapena la quinta elementare ma che ha esercitato (ed esercita ancora) l’influenza maggiore sulla mia evoluzione di scrittore.
Ho sette anni, credo. Mia nonna mi dice che mangio nel modo sbagliato: “Non usare la cannuccia. Mai. Los Hombres non bevono le bibite con la cannuccia. Ora butta via quella roba e siediti per bene”. Ho qualcosa che non va: “Dios mío, sei tutt’ossa. Ecco com’è che i ragazzini a scuola ti trattano male. Anche una bimba riuscirebbe a picchiarti. E ora finisci quella bistecca, sennò vedi!”.
Anche tutti i miei amici hanno qualcosa di sbagliato: “Non ti ci riporto mai più a casa di quell’Enrique. È il cocco della sua Mamacita. Non voglio che ci giochi insieme. Non mi interessa cosa dici tu, quei GI Joe che ha lui sono bambole. Vuoi giocare con delle bambole? Eh? E’ questo che vuoi, señorita?”.
Sbaglio quando gioco: “Avevo detto a tua madre di non prenderti quei pastelli per Natale. Dovresti stare fuori a giocare come un hombre, non colorare i tuoi librini da femmina come quel maricón di Juan Alberto”. E sbaglio quando parlo: “Hay Santo, al telefono sembri una niña. Quand’è che cambierai voce?”. Sbaglio pure quando cammino: “E smettila di tacchettare con quei sandali e di sculettare come una ragazzina. Stai un po’ dritto, por Dios! Siamo in mezzo alla gente”. Sono tutto sbagliato (“Farò di te un uomo…”), ho paura di fare o di dire qualunque cosa (“… vedrai…”), troppo terrorizzato per volere o chiedere qualunque cosa (“… mi dovesse uccidere…”) e mi vergogno di essere vivo.
A trentun’anni, sono seduto a lume di candela di fronte all’uomo che vuole sposarmi. Gli racconto di mia nonna e delle tecniche di reazione che ho sviluppato, di come mi abbiano portato in modo naturale a scrivere. Meccanismi che sono diventati parte integrante del mio processo creativo. Essendo diventato timido e introverso, mentre crescevo mi sono trasformato in un osservatore del mondo, piuttosto che in un protagonista attivo.
Per la mia sopravvivenza emotiva ho imparato a leggere con attenzione l’ambiente che mi circondava, creando poi le giuste risposte che mi avrebbero salvato (se tutto andava bene) dalla violenza e dalle prese in giro della mia nonna. Spiego al mio futuro marito che, ogni volta che mi trovo in una stanza piena di gente, torno ad essere quel ragazzo silenzioso e represso che cerca di rendersi invisibile più che può, mentre registra nel dettaglio ogni sensazione ed emozione che alla fine riaffiorerà in una poesia.
La mia opera viene definita spesso vivida e intensa. I miei parenti molte volte si stupiscono di come io raccolga eventi e particolari della famiglia nelle mie poesie. Sono qualità che lego direttamente alle capacità generate dalla mia reazione alle violenze. Ma oltre a questo sono arrivato a capire perché la scrittura e io stiamo così bene insieme. E’ perché mi permette di partecipare attivamente al mondo, di sentirmi vivo pur rimanendo un osservatore invulnerabile, al riparo della mia stanza, della mia scrivania, della mia immaginazione, dove nessuno, specialmente mia nonna, potrebbe farmi del male.
Ho otto anni, ne sono sicuro. Me lo ricordo perché mia nonna è sconvolta dal fatto che io abbia già otto anni e ancora non abbia imparato ad andare in bici. “Qué barbaridad, non c’è da stupirsi…”, mi dice, lasciando a me il compito di terminare la frase: Non c’è da stupirsi, sono una femminuccia, una checca, un rammollito. Sono abituato alle parole che mi riserva. “Ti insegnerò io”, abbaia. “Infilati le scarpe da tennis”. Trasciniamo la mia bici fino al parcheggio vuoto della chiesa di Saint Jude, dove inizio a pedalare e cado; pedalo di nuovo e alla fine filo via in equilibrio perfetto, lasciandola ad applaudire e a incoraggiarmi: “”¡Andale! Era ora! ¡Andale!”.
Mentre torniamo a casa, vado in bici al suo fianco e lei mi dice che sono stato bravo: “Qué bien. Sei stato grande! ¡Qué macho!”, e mi bacia sulla fronte. Quella sera cucina il pollo in fricassea, il mio piatto preferito, e con delle cosce in più e delle olive apposta per me. Per un attimo riesco quasi a credere che mi voglia bene, che non mi chiamerà mai più frocio, che mi lascerà giocare con i miei Lego da femminuccia e con i miei acquerelli. Ma quella sera stessa caccia via Ferby, il mio gatto, mentre lo tengo in braccio: “Piantala! Sembri una niña, così seduto ad accarezzare quel coso. Ma perché non ti piacciono i cani?”. A quanto pare, anche i miei animali sono sbagliati.
Ventotto anni dopo prendo un gatto, seguendo il consiglio di un altro psichiatra. Dice che mi farà bene, che dovrei farmi un regalo. Lo chiamo Buddha, un randagio maculato che mi segue in ogni angolo della casa. Si fa le unghie sulle mie braccia e sulla mia pancia, mi lecca le sopracciglia. Anche se è solo un animale, il suo “amore” è incondizionato. Non come quello di mia nonna, che mi voleva bene solo se non mi buttavano fuori ai tornei di baseball della Little League; se non oscillavo le braccia quando camminavo; se stavo seduto immobile e mi comportavo come il bambino perfetto in cui mi voleva trasformare.
Da piccolo ero arrivato a credere che tutti amassero nel modo in cui lo faceva mia nonna. E di conseguenza avevo chiuso ogni canale di comunicazione emotiva con gli altri, convinto di non potermi fidare di nessuno. Mi era venuta paura dell’amore, perché credevo che nessuno potesse amare davvero un frocio come me: né mio padre o mia madre, né mio fratello, né i miei amanti. Ma scrivere mi permetteva di connettere le mie emozioni con quelle degli altri, seppur attraverso un surrogato della realtà. In una poesia potevo amare a distanza di sicurezza, amare in modo virtuale. Riuscivo a dire ciò che non potevo nella vita di tutti i giorni, rendermi vulnerabile.
Ho nove anni, forse dieci, sto seduto nel salotto della mia famiglia, mentre getto di nuovo un’occhiata furtiva al catalogo di vestiti della Sears: pagine e pagine di uomini a torso nudo, uomini in mutande attillate, uomini con gli stivali. Voglio toccarli, far scorrere le mie dita sui loro petti lisci, sui loro petti pelosi, sulle loro braccia, sul cavallo. Per finta. E’ bello. E’ terribile. Voglio toccarmi ma non posso perché è quello che mia nonna definirebbe roba da frocio, ormai l’ho capito. Lei sa che io lo so, e che sto combinando qualcosa quando lei entra di colpo in salotto.
Prima che possa reinfilare il catalogo nella pila delle riviste, lei me lo strappa dalle mani, lo lancia attraverso la stanza e grida: “Smettila di fare il mariconcito! Vuoi che ti iscriva a danza classica? E’ questo che vuoi? Cos’hai di sbagliato? Vai a giocare fuori come un bambino normale!”. Io invece mi precipito in camera. Strappo piangendo un foglio dal mio quaderno per i temi e scrivo: Io, Ricardo De Jesus Blanco, giuro di non rifare mai e poi mai quello che ho fatto oggi, altrimenti saranno guai. Dio mi è testimone. Lo firmo e metto la data. Lo chiudo in una busta e lo metto sotto il materasso.
Trentadue, forse trentatre anni dopo, mi viene in mente che non ero neanche riuscito a scrivere che cosa avevo fatto quel giorno, per paura che mia nonna potesse leggerlo e scoprirmi, e che scriverlo significasse una confessione. Una paura che mi sono portato addosso fino ai trent’anni, attraverso il mio primo e il mio secondo libro di poesie, senza mai osare di uscire allo scoperto sulle pagine bianche. Le poesie d’amore che ho avuto il coraggio di scrivere sono in seconda persona, in un “tu” neutro, senza genere; e nelle mie dediche ho usato solo iniziali; per M.K., per C.A.B., per C.S.B. Tutti quelli che ho amato, o quasi amato ― Michael, Carlos, Craig ― ridotti a lettere anonime, acronimi di una sessualità che mia nonna, speravo, non avrebbe mai immaginato. Rimanevo chiuso al sicuro nel mio armadio letterario.
Anche se dopo sono arrivato a pensare che quello in cui mi stavo nascondendo era più un armadio culturale. Dal momento che non potevo neanche iniziare a godermi il fatto di scrivere sulla mia identità sessuale, concentrai invece il mio lavoro sull’identità culturale e sulla negoziazione che vivevo come Cubano americano. Non che questo non fosse sinceramente importante per me (e continua ad esserlo). Ma in parte era il fatto di vivere all’ombra delle violenze di mia nonna che mi impediva di approfondire e di identificarmi con gli scrittori gay, molto meno dello scrivere sulla mia sessualità o sulle violenze di mia nonna. Semplicemente non ero uno di loro, ma ovviamente lo ero.
Ho ventisei anni quando visito Cuba per la prima volta. Stiamo pranzando dalla tía Mima quando apprendo che suo figlio Gilberto si è dato fuoco a otto anni ed è morto. Sento un’immediata vicinanza con questo bambino che non ho mai conosciuto. In un flash, mi ricordo quello che volevo dire/che sentivo quando scrivevo “o saranno guai”: quella disperata sensazione di voler metter fine alla mia vita anche io; quella tristezza profonda, radicata, che è stata la mia infanzia. Una tristezza che mi sono portato addosso da allora, secondo un altro psichiatra che mi ha diagnosticato una distimia, una forma lieve ma persistente di depressione.
A quarantuno anni ho realizzato che sono stato triste tutta la vita e che ho sempre scritto usando quel punto di vista psicologico. La malinconia che vedo negli altri, nel mondo mi ispira, e lo fanno i modi che troviamo per sopravvivere. Io lotto per catturare la tristezza e per trasformarla, grazie al linguaggio, in qualcosa di significativo, di bello. Anche se, per gran parte della mia carriera di scrittore, non ho mai scritto in modo cosciente per o sulla comunità gay, sento che per le mie tematiche sono sempre stato, senza esserne cosciente, uno scrittore gay: cercando di tirar fuori dai limoni una spremuta, dal fango dei castelli, dal dolore la bellezza.
Sarei diventato un poeta senza le violenze di mia nonna? Probabilmente sì, ma non lo stesso tipo di poeta, e, credo, non avrei prodotto nemmeno lo stesso tipo di opere. Ma nonostante questo, alla fine la sua ultima eredità era stata quella di instillare in me, senza volerlo, la comprensione della complessità dei comportamenti e delle emozioni umane. Avrei potuto tranquillamente concludere dicendo che mia nonna era una brutta stronza malefica, e finirla lì. Ma invece, attraverso di lei, ho capito che ci sono pochi dogmi quando parliamo delle relazioni tra le persone. La gente, me incluso, non è sempre buona o sempre cattiva.
Non riesce sempre a dire quello che pensa e non sempre pensa quello che dice. Mia nonna mi ha amato meglio che poteva, forse nello stesso modo in cui era stata amata lei. Il suo tentativo di farmi diventare un uomo era un’espressione strana, rozza di quell’amore, ma inavvertitamente mi ha fatto diventare lo scrittore che sono oggi. E per questo io mi sento stranamente riconoscente, l’ho capito quattordici anni fa: sono da solo, in piedi accanto al suo letto all’ospedale di Coral Gables.
Lei è imbottita di medicine. I tubi che le passano in gola le impediscono di parlare. Non può più dirmi niente di tremendo. Mentre la guardo, mi tornano in mente tutti i suoni delle sue offese verbali, e inizio a scarabocchiare poche righe di una poesia che provo a intitolare “La sua voce”. La prima poesia che scriverò per lei, su di lei e sulla mia sessualità. La mia prima confessione poetica.
Ho dodici anni, ne ho ventotto, diciassette, trentuno, sono un uomo quando lei si sveglia, spalanca gli occhi per un attimo e mi stringe la mano, poi scivola via silenziosamente, con calma, senza una parola. E io la lascio andare.
Tratto da “Who’s Yer Daddy? Gay Writers Celebrate Their Mentors and Forerunners” (in it. “Chi è il tuo paparino? Gli scrittori gay celebrano i loro mentori e predecessori”), a cura di Jim Elledge e David Groff. © 2012 del sistema direttivo della University of Wisconsin. Riproduzione concessa da The University of Wisconsin Press.
(*) Richard Blanco è stato il primo poeta ispanico, sudamericano e LGBT ed il più giovane ad essere mai stato scelto per l’inaugurazione di un Presidente degli Stati Uniti)