Che senso ha una storia degli omosessuali in Italia?
Articolo di Gianni Geraci pubblicato sul Bollettino del Guado*, n.66, Luglio-Settembre 1998, pp.20-29
“Tra le finalità del Guado c’è anche quella di dare un proprio contributo alla cultura omosessuale in Italia. Ma senza identità non si elabora una cultura originale e senza memoria non c’è identità”. Così presentavo il ciclo di incontri che, con un po’ di enfasi, avevamo battezzato «Progetto memoria». A distanza di un anno è possibile riassumerne i passaggi chiave? Credo di si e con questo lungo articolo ci provo.
Sabato 18 Aprile 1998. CHE SENSO HA STORIA DEGLI OMOSESSUALI IN ITALIA? (Giorgio Bozzo – Germano Maifreda)
Durante uno degli incontri che abbiamo dedicato alla storia degli omosessuali, Mattia Morretta ci ha, fatto questa domanda: «Ha senso una storia degli omosessuali? Ha senso raccontare la storia di una comunità che non c’è? Ha senso cercare nella storia un’identità, che proprio di questa storia è il necessario presupposto teorico?».
Queste le domande le abbiamo passate, al termine del nostro ciclo di incontri, a Giorgio Bozzo (un autore che, da diverso tempo, sta lavorando a un libro dedicato alla «memoria» degli omosessuali italiani) e a Germano Maifreda (lo storico che ci ha aiutato a sviluppare l’idea di un ciclo di incontri dedicati alla storia dei gay). E proprio dagli appunti di quest’ultimo ho saccheggiato gli spunti che seguono, scusandomi con il loro autore per i tagli che» per motivi di spazio, ho dovuto apportare.
«Storia omosessuale. Una storia, o meglio una forma di lettura della storia, a cui si applicano strumenti critici formulati sulla base di una cultura omosessuale».
«Storia dell’omosessualità. In senso letterale presupporrebbe l’esistenza di un comportamento storicamente omogeneo degli omosessuali, cosa storicamente non data. Ragione per cui, in senso stretto, la storia dell’omosessualità potrebbe essere una storia delle pratiche omosessuali».
«Storia degli omosessuali. Storia dei diversi atteggiamenti sociali tenuti dagli omosessuali, in tutti i loro aspetti, anche non strettamente legati all’esercizio della sessualità. È significativo che, secondo le attuali classificazioni storiografiche, la storia degli omosessuali sia considerata una storia della sessualità. Ciò perché non si è ancora costruito un paradigma della omosessualità che non sia sessualità, ammesso che sia possibile costruirlo».
«Capire quale storia si vuole fare è importante, perché qualsiasi storiografia che non sappia inquadrare i problemi di cui tratta nel contesto più generale dei problemi storiografici correnti, è destinata alla marginalità e alla non legittimità. Gli omosessuali non possono permettersi questo».
«Quale storia fare non dipende solo dall’approccio concettuale, ma anche, in primo luogo, dal tipo di fonti che sono a disposizione: fonti che parlano degli omosessuali in quanto tali (le più facili da consultare); fonti documentarie lasciate dagli omosessuali nell’esercizio della vita sociale e privata (le più facili da reperire)».
«A tutt’oggi ci si è occupati principalmente degli omosessuali riconosciuti come tali, della loro sociabilità e dei loro movimenti».
«Ma può servire una storia degli omosessuali? Si, perché la storicizzazione è stata una delle armi più efficaci di tutte le battaglie contro l’oscurantismo, l’assolutismo e, più in generale, contro tutte le forme dell’assolutizzazione o della naturalizzazione dei principi storici (quindi contingenti e arbitrari) di un universo sociale particolare.
Si mostra così come all’origine di ogni rapporto sociale non vi è che il costume, cioè l’arbitrio storico dell’istituzione (che nel caso degli omosessuali è la discriminazione) che tende a far dimenticare le sue origini e a fondarsi in ragione mitica, naturalizzando se stessa e ottenendo in questa naturalizzazione il forte riconoscimento».
«In questo modo si riesce a mostrare come quelle proprietà distintive che la violenza annessionistica porta a considerare carenza legate a una mentalità (primitiva, femminile, popolare…) cioè a una natura (a volte rivendicata come tale dalle vittime di questa stessa naturalizzazione), sono in realtà legate alle particolarità storiche di una storia collettiva e individuale.
Ciò per impedire quanto accade continuamente: che per un semplice rovesciamento delle cause e degli effetti divenga possibile biasimare la vittima, attribuendo alla sua natura la responsabilità degli espropri, delle mutilazioni o delle privazioni che ha subito».
Sabato 4 ottobre 1997. QUANDO SI STAVA NASCOSTI DAL FASCISMO AGLI ANNI ‘60
L’incontro è riuscito, grazie alla presenza del professor Angelo Taschera, a scavare nel passato fino ai primi anni del secolo, quando gli omosessuali si incontravano furtivamente nel buio di sale cinematografiche in cui le dive del muto davano sfoggio della loro espressività aggrappandosi alle tende in improbabili scene d’amore.
Un altro ambiente in cui gay riuscivano a rompere il loro isolamento erano i bagni: si trattava di un servizio che i pubblici mettevano a disposizione della popolazione che, altrimenti non poteva lavarsi. Al bagno singolo più caro e, per questo motivo, non alla portata di tutti, si affiancava anche il bagno doppio che, per motivi di decenza, faceva condividere a due persone, rigorosamente dello stesso sesso, un unico locale con i relativi servizi. Nascevano così, nell’intimità un po’ costretta di questi ambienti, alcune occasioni di incontro che gli omosessuali dell’epoca sfruttavano per incontrarsi.
Il professor Taschera ci ha fatto riflettere sull’importanza che una solida formazione classica poteva avere nel processo di auto accettazione. Il sesso era poi visto come un particolare marginale che non doveva influenzare la vita di una persona nel suo complesso. In questo senso va vista la scelta, che molti omosessuali facevano, di sposarsi: un conto erano le proprie inclinazioni, un conto erano le aspettative che la società aveva e i doveri che da queste aspettative scaturivano.
Diversa, per molti aspetti, la testimonianza di Ferruccio: la Milano che lui ricorda (quella, per intenderci, degli anni in cui a Roma imperava la «dolce vita») era quella di certi alberghi in cui il personale «chiudeva un occhio su certi incontri»; era quella dello Storchino di piazza Diaz, un locale dove chi era alla ricerca di un po’ di compagnia, si sedeva ad un tavolo e aspettava che un altro avventore gli mandasse, tramite un compiacente cameriere, qualche messaggio di simpatia (magari una mignonnette di Champagne); era la Milano dei lunghi giochi di sguardi a teatro; era la Milano dei golden boys che, sedotte le donne in pubblico, preferivano poi essere sedotti dagli uomini in privato.
La Milano gay dei primi anni sessanta era anche la Milano dell’arcivescovo Montini che, con sensibilità di pastore e di padre si era preso a cuore la salute spirituale di un attore assai conosciuto negli ambienti particolari. Chissà cosa si dicevano durante le lunghe conversazioni private che i due avevano? Chissà quali erano i consigli che il futuro Paolo VI dava a un uomo che, chiaramente, mostrava di non poter controllare la propria natura di omosessuale? Probabilmente non lo sapremo mai: di certo la testimonianza diretta di chi era particolarmente vicini al protagonista di questa vicenda, permette di escludere qualunque particolare boccaccesco (con buona pace dei pettegoli che ogni tanto ritornano sull’argomento).
Erano gli anni in cui la letteratura e il cinema parlavano degli omosessuali come di esseri sfortunati, condannati dalla loro natura a un’esistenza infelice, fatta di incontri fugaci e di solitudine affettiva. Erano gli anni in cui Aldo Braibanti (un ex partigiano dai mille interessi che faceva parte del «Comitato centrale» del PCI) veniva condannato per aver plagiato un ventenne di buona famiglia.
Ma erano anche gli anni del Concilio Vaticano II che, finalmente, riconosceva all’amore un posto importante nella valutazione della sessualità umana.
Erano agli anni in cui le opere di Allen Ginsberg, di James Baldwirt e di Gore Vidal venivano tradotte in italiano, offrendo un’immagine meno tetra dell’omosessualità.
Il diritto di ciascuno di cercare la propria felicitàs stava diventando più importante del dovere che ciascuno aveva di rispondere alle aspettative sociali di cui era investito dalla famiglia, dalla comunità civile e dalla Chiesa. Non c’era ancora un movimento capace di dare dignità alla scelta di vivere (e) seguire fino in fondo fa propria natura, ma il clima era ormai maturo per la sua nascita.
Sabato 15 Novembre 1997. E NACQUE IL FUORI. GLI ANNI ‘70 (Angelo Pezzani)
Per parlare degli anni 70 ci è parso opportuno chiedere ad Angelo Pezzana, uno dei primi personaggi di spicco del movimento omossessuale italiano, di presentarci il suo librò “Dentro e fuori” in cui, in forma di autobiografìa, rievoca la nascita del «Fuori!».
L’occasione – scrive Pezzana nel suo libro – fu un articolo articolo comparso sulla «Stampa».
Un neurologo scrisse una recensione del “Diario di un omosessuale”, un libraccio pubblicato da Feltrinelli. Ne era autore Giacomo Dacquino, che aveva trascritto tutte le sedute di un suo paziente omosessuale, manipolandone la storia e arrivando a cambiarne addirittura la conclusione per dimostrare che, grazie alle sue cure, il paziente si era avviato sulla strada di una matura e completa guarigione eterosessuale.
Scrissi alla «Stampa» una lettera indignata che, oltre che alla mia, portava le firme di autorevoli amici intellettuali di nome e peso nella Torino di allora. La lettera, però, non comparve mai sulle pagine del giornale. Mi rispose, invece, in privato, un redattore che giustificò la mancata pubblicazione con il fatto che dell’argomento si parlava già troppo […].
Nacque cosi l’idea di dare vita a una rivista ispirata alla difesa dei diritti degli omosessuali. Chiudemmo il numero zero nel dicembre del ‘71 e ci parve naturale cercare i nostri lettori nei luoghi dove sicuramente li avremmo incontrati più numerosi: le stazioni, i parchi, i cessi pubblici di Bologna, Milano, Firenze, Napoli, Palermo…
La distribuzione militante durò un mese, ottenendo un risultato che lasciò stupiti: nel giro di una stagione si erano creati una trentina di gruppi legati al «Fuori!». L’esigenza di un’organizzazione omosessuale era evidentemente avvertita con grande urgenza.
Pezzana ci ha poi raccontato del congresso con cui a San Remo, il «Centro Italiano di sessuologia» aveva tentato di proporre l’introduzione, nella legislazione italiana, di norme che punivano i rapporti omosessuali (con pene che arrivavano fino a un massimo di vent’anni di reclusione). Un vero successo per il neonato movimento omosessuale italiano che, per la prima volta, mostrava a una comunità scientifica rozza e ignorante dei pazienti che non avevano nessuna voglia di fare i pazienti, degli omosessuali che si dicevano finalmente orgogliosi della loro omosessualità.
E il naufragio del congresso fu quasi completo: terapie quali «la lesione per via chirurgica di una particolare zona del cervello», oppure la «somministrazione di scariche elettriche ai pazienti che indugiano sulle immagini di nudo maschile per più di otto secondi», venivano smascherati per quello che erano: un colossale imbroglio. Il già citato dottor Giacomo Dacquino era poi costretto a tornare precipitosamente a Torino a bordo della sua spider.
Abbiamo quindi parlato dei momenti cruciali che hanno segnato la vita del «Fuori!»: l’incontro con Mario Mieli nell’aprile del 72 e il suo contributo al movimento, con la fondazione del COM a Milano; il controverso rapporto con la sinistra storica; la federazione con il Partito Radicale e le divisioni che questa scelta provocò; i legami con il mondo della cultura che, proprio negli anni settanta, sì apriva alle istanza della liberazione sessuale e assisteva al dramma della morte di Pierpaolo Pasolini; la sfida, nel 1982, del congresso di Vico Equense quando si decise di approvare una mozione che diceva più o meno cosi: «O troviamo mille iscritti, oppure sciogliamo il Fuori!». I mille iscritti non arrivarono mai e il movimento fondato da Pezzana fu sciolto dai suoi stessi dirigenti.
Sabato 17 Gennaio 1998. GLI ANNI ‘80 (Mario Anelli, Gianni Rossi Barilli)
Mario Anelli è un personaggio importante nel panorama omosessuale milanese e italiano: ha collaborato con il CIG fin dai primi anni ‘80, è stato uno dei fondatori del «Querelle», il primo circolo ricreativo omosessuale della città, è tuttora direttore di «Babilonia», la più completa e la più importante rivista gay e lesbica italiana.
Anche Gianni Rossi Barilli non ha bisogno di molte presentazioni; pur essendo nato negli anni sessanta milita nel movimento gay dal 1978. È stato per diversi anni redattore del «Manifesto» ed è uno dei più profondi conoscitori della storia del mondo omosessuale italiano.
Due protagonisti degli anni ‘80 che ancora si muovono da protagonisti: più coinvolto emotivamente il primo, più attento alle dinamiche in atto il secondo. Due modi di sentire diversi che ci hanno coinvolto e che hanno modificato il nostro progetto di incontro con la storia degli omosessuali italiani, spingendola oltre all’attualità.
I fatti di cui ci hanno parlato si sono svolti nella seconda metà degli anni settanta e nei primi anni ottanta. Era il periodo in cui in Italia fiorivano numerosi i collettivi omosessuali che, al contrario del «Fuori!» (ormai federato con il Partito Radicale e quindi, in qualche misura, in dialogo con una parte del mondo politico istituzionale italiano), avevano scelto di privilegiare l’autocoscienza e il lavoro culturale (sono di quegli anni numerosi collettivi teatrali), la ricerca su se stessi e un impegno politico «antagonista».
In proposito ricorda Gigi Malaroda: «A partire dalla prima metà degli anni settanta si formarono in diverse città italiane collettivi omosessuali autonomi. Inizialmente essi furono costituiti in buona parte da dissidenti del Fuori! Che non condividevano la scelta di federazione con il Partito radicale; in seguito vi ebbero parte attiva militanti provenienti da diversi gruppi della sinistra rivoluzionaria.
In particolare, dal 1977 e grazie anche a un ruolo di coordinamento svolto dalla rivista Lambda, i collettivi omosessuali svilupparono contatti costanti, anche attraverso convegni e momenti di confronto» (cfr. Myriam Cristallo, Uscir fuori, Milano 1996, pag. 124).
Nella maggior parte dei casi la loro esperienza si esaurì nei primi anni ottanta. Tre sono le eccezioni che val la pena ricordare: il COM di Milano da cui sarebbe nato il «Centro di iniziativa gay»; il «Narciso» di Roma da cui, nel 1983, sarebbe poi nato il «Circolo Mario Mieli»; il «Collettivo frocialista» di Bologna che, ribattezzato «Circolo 28 Giugno», avrebbe poi aderito all’Arcigay che intanto stava nascendo.
Tutto era iniziato con un fatto di cronaca: la scelta di due ragazzini di Giarre, in provincia di Catania, di «farsi suicidare» da un coetaneo, perché l’amore che li legava era deriso da tutti. Lo shock fu enorme, tanto che don Marco Bisceglie, un prete del dissenso sospeso a divinis, attivo in una comunità di base di Lavello e dirigente nazionale del Partito Radicale e dell’Arci, propose, durante un incontro a Palermo, di dare vita a una presenza gay organizzata all’interno della più importante struttura del tempo libero in Italia.
E fu lo stesso don Marco Bisceglie che, il 9 dicembre del 1960, fondò a Palermo il primo circolo Arcigay e che, dopo due anni di lavoro, apri, sempre a Palermo il 20 Marzo del 1982 il «Primo incontro nazionale dei gruppi Arcigay».
Nel frattempo il Comune dì Bologna aveva deciso di aderire a una richiesta del «Circolo 28 giugno» e di dare in affitto agli omosessuali bolognesi i locali del «Cassero di Porta Saragozza». Immediata la reazione della curia bolognese che, sostenendo che proprio a Porta Saragozza avveniva l’annuale incontro tra la città e l’Immagine della Madonna venerata nel santuario di San Luca, aveva presentato un appello firmato da 1600 bolognesi. Fu l’inizio di uno scontro duro in cui, grazie all’appoggio della sinistra bolognese, gli omosessuali del «Circolo 28 giugno» raccolsero più di diecimila firme (tra queste quella dell’attuale sindaco Walter Vitali) per difendere gli spazi che la giunta Zangheri aveva loro assegnato.
E proprio al Cassero di Bologna, numerosi circoli Arcigay (e non), decisero di dar vita, nel maggio del 1983, a un primo «Coordinamento nazionale». Il 1984 vide l’adesione del «Circolo 28 Giugno» all’Arcigay e la nascita, in netta polemica con il «Mario Mieli» (che invece aveva preferito non aderire), di un circolo Arcigay a Roma (tra gli animatori c’era lo stesso don Marco Bisceglie).
Il 2 e il 3 marzo del 1985, alla presenza di una settantina di rappresentanti dei quindici circoli aderenti all’Arcigay venivano fissati gli obiettivi e i programmi d’azione del nuovo movimento, veniva indetto, per la fine dell’anno, un Congresso nazionale e venivano eletti un Segretario (Franco Grillini), un Presidente (Beppe Ramina) e un presidente onorario (don Marco Bisceglie).
Se uno dei due motivi di scontro che avevano accompagnato durante gli anni ‘70 la vita del «Fuori!» (il conflitto fra una cultura della provocazione alternativa a tutte le parti politiche e una cultura del dialogo con i partiti della sinistra) si era ormai risolta nell’affiliazione a un ente (l’Arci) legato alla sinistra parlamentare (PCI e PSI), restava ancora irrisolto il secondo motivo di scontro che aveva già diviso il movimento omosessuale: quello tra chi optava per un modello organizzativo federalista, dove il gruppo dirigente era formato da un coordinamento nazionale senza poteri di rappresentanza (la tesi di Bisceglie) e chi, viceversa, voleva elezione di una dirigenza dotata di ampi poteri di iniziativa politica (la tesi di Grillini).
Al Congresso di Villa Guastavilleni a Bologna, prevalse questo secondo orientamento e don Marco Bisceglie decise di abbandonare Arcigay e di tornare al suo impegno nelle comunità di base dell’Italia meridionale.
21 Febbraio 1998. GLI ANNI DELL’ARCIGAY (Giovanni Dall’Orto)
In un momento, come quello che stiamo vivendo, in cui il movimento omosessuale italiano, sta attraversando una crisi le cui prospettive sono in massima parte avvolte nella nebbia dell’incertezza, parlare del movimento omosessuale negli ultimi dieci anni è un po’ come dare un giudizio su questa crisi.
Giovanni Dall’Orto si è rivelato la persona più adatta per affrontare questo argomento delicato: con equilibrio ci ha mostrato le tensioni che attraversano la comunità omosessuale in Italia. Per darvi un’idea di quanto ha detto vi propongo i passaggi salienti di un suo scritto (la prefazione del libro “Uscir fuori” che Myriam Cristallo ha pubblicato per la Teti di Milano nel 1996) in cui affronta gli stessi argomenti che ha trattato con noi.
«Sono una persona che ha dedicato vent’anni della sua vita a militare per una causa, quella gay, e sarei un masochista se dicessi che in questi vent’anni la nostra lotta non ha ottenuto nulla. La nostra lotta, quella del Fuori! prima e Arcigay-Arcilesbica poi, è servita».
«Sarei però un bugiardo se dicessi che questi vent’anni sono stati risolutivi. Ci sono nemici, ci sono mentalità, ci sono preconcetti che sono ancora uguali, vitali, attuali adesso come vent’anni fa. Alcuni li conosciamo bene: i veti della Chiesa cattolica o gli anatemi della destra più becera. Altri non riusciamo a distinguerli bene, perché si vestono dei panni dell’agnello».
«I nemici peggiori in assoluto sono però quelli che vivono nella mente delle stesse persone omosessuali. La società italiana in vent’anni è cambiata molto: sono le persone omosessuali, ahimè, che sono cambiate pochissimo. Nei loro occhi c’è ancora la stessa paranoia, la stessa paura, la stessa vergogna di ieri, lo stesso sguardo ferito di cui Alien Ginsberg parlava un quarto di secolo fa».
«Da un certo punto di vista le persone omosessuali sono persino peggiori di venticinque anni fa. Quando ho fatto io il mio coming out mi è stato di grandissimo aiuto il fatto che nella società intorno a me si respirava l’idea secondo cui ribellarsi è giusto, è giusto voler ‘cambiare la società, è giusto lottare per una società più giusta. Me ne sono convinto nel 1976, e non ho più cambiato idea da allora».
«Purtroppo oggi la parabola che dal pensiero forte va al cosiddetto pensiero debole, fino al più piatto pensiero nullo si è quasi consumata, siamo ormai al trasformismo puro e semplice».
«Nato come movimento di opposizione, il movimento omosessuale si trova oggi a vivere una realtà in cui nessuno vuole più fare opposizione, in cui tutti cercano l’accomodamento, il pastone all’italiana».
«Ogni volta che un vescovo attacca i gay, i gruppi di gay cristiani insorgono in sua difesa spiegando che, nel suo documento, ci sono elementi positivi che vanno apprezzati nel contesto e nella dovuta considerazione di quanto il Magistero… Ogni volta che la sinistra sputa in faccia ai gay, i gay della sinistra si affannano a scusarla spiegando che del resto ci sono cose più importanti da discutere (ed è ormai un quarto di secolo che ci sono cose più importanti da discutere!).
Ogni volta che un gay si suicida sono proprio i suoi amici gay che non vogliono che si sappia in giro che si è ucciso perché era gay, per non infangare la memoria del defunto (come se l’omosessualità fosse fango). Ogni volta che un altro gay muore di Aids, sono proprio i suoi amici gay i primi a negare che si sia trattato di Aids. Insomma, ogni volta che sarebbe necessario opporsi, reagire, indignarsi, gridare, magari anche piangere, i gay minimizzano, censurano, coprono, tacciono, mettono a tacere…».
«Ormai nessuno è più capace di dire dove sono i nostri nemici, anzi, peggio, nessuno ha più il coraggio di ammettere che noi omosessuali abbiamo nemici, esattamente come ne hanno le donne, gli operai, i poveri e tutti coloro che non sono trendy e yuppy.
Al più, gran parte della generazione più giovane dei militanti gay, si affanna per rendere trendy anche l’omosessualità, senza capire che affidare i propri diritti civili e le proprie libertà ai capriccio di una moda è masochistico e idiota».
«La prima fase del movimento gay peccò di quello che una volta si definiva avventurismo: si spinse troppo avanti nelle sue teorizzazioni curandosi poco del fatto che il resto della società stesse ancora miglia indietro. Oggi però, venticinque anni dopo, la società è cambiata. Non molto, ma un po’ è cambiata. Ormai si può perciò, anzi si deve, pretendere di più.
Parole d’ordine come visibilità gay, cultura gay, orgoglio gay, tornano oggi al centro del dibattito, dopo che le scommesse fatte sulla partecipazione al dibattito politico dei gay si sono dimostrate illusorie».
«Purtroppo, anche se la tendenza politica prevalente oggi (e non certo nel solo mondo gay/lesbico) è quella dell’ ognuno pensi per sé, resta il fatto che il destino vuole che nessuno di noi si possa salvare da sé, o da solo. Infatti, anche se molti io negano, l’omosessualità è un’esperienza sociale, non individuale.
In altre parole, per vivere felice come omosessuale io ho disperatamente bisogno di un mondo omosessuale in cui, chi mi circonda, sia a sua volta felice e libero da paure, condizionamenti, preconcetti. Coloro che si fanno i cazzi propri giudicando esagerata la voglia del movimento gay di cambiare la mentalità e la società, arrivano prima o poi al momento in cui desiderano, per esempio, una relazione di coppia duratura, ma trovano solo partner nevrotici, terrorizzati all’idea che lo si sappia in giro, o che si svegliano una bella mattina e decidono che vogliono diventare normali, o che riducono l’omosessualità ad un solo atto genitale e nient’altro, o che… ».
«E non parliamo poi di coloro che vivono la propria omosessualità come un’interminabile festa, e quando decidono infine di fermarsi un poco scoprono, magari quando sono avanti con gli anni, o ormai malfermi di salute, di essere soli come cani, rigettati da quegli stessi amici di ieri che vogliono ancora vivere la vita come un’interminabile festa, e rifiutano perciò chiunque rovini la festa, venendo a parlare del suoi problemi. E siccome tutti, prima o poi abbiamo problemi…».
* Articolo recuperato da La tenda di Gionata nell’ambito del progetto di digitalizzazione dell’archivio storico-documentale del Guado di Milano formato da articoli, riviste, foto e dai Bollettini del Guado che, dal 1982 al 2005, hanno raccontato le speranze, i cammini e le vite dei cristiani LGBT italiani.