Che senso ha vegliare per perdonare chi maledice le persone LGBT?
Lettera a una amica cristiana scritta da Massimo Battaglio
Vedi cara amica: l’idea che si sta affermando con queste veglie è che, più che preghiere per le vittime, siano celebrazioni di riconciliazione con una parte che non vuol saperne di riconciliarsi; o almeno che la ragione stia sempre nel mezzo; che bisogna venirsi incontro e che, in fondo, c’è sempre qualche buona ragione per “non accettare i gay” (sono chiassosi, sono immorali, sono…).
Bella intenzione, quella di venirsi incontro. Ma qui stiamo parlando di vittime di violenza e discriminazione, e di discriminatori e violenti che non hanno alcuna intenzione di ammettere il torto ma, anzi, per giustificarsi tirano in ballo Dio. Concedere loro un perdono non richiesto, equivale a offendere ulteriormente le vittime.
Gesù non ha mai detto che la riconciliazione dev’essere incondizionata. Anzi: ha indicato percorsi anche molto impegnativi. Poco prima di dire a Pietro di “perdonare sette volte sette”, ha detto chiaramente quale sia la strada per arrivare al perdono: “Se il tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all’assemblea; e se non ascolterà neanche l’assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano“.
Oggi, la Chiesa, o meglio una parte di essa, si trova proprio all’ultimo stadio: o decide di chiedere scusa e di farlo in modo estemamente concreto (correggendo il catechismo, sciogliendo i gruppi LOT, condannando le terapie riparative e obbligando i sacerdoti a formarsi e a tenere comportamenti inclusivi), o dovrà prendere atto che i cristiani omosessuali non potranno che voltarle le spalle, non per cattiveria ma per pura sopravvivenza.
A me non importa proprio nulla di “farmi accettare” da ecclesiastici che non fanno un passo verso di me; che, in nome di Dio, mi picchiano, mi discriminano, mi offendono. Chiedo solo che mi rispettino, anche contro voglia, come ogni creatura va rispettata. Nel nome dello stesso Dio, quando vedo un oppresso e un oppressore, se devo proprio scegliere, sto dalla parte dell’oppresso. E se l’oppresso sono io, starò per una volta dalla mia parte. Pazienza. Non è superbia ma pura necessità.
Mai mi piegherò di fronte a chi mi vuole morto o ferito o “da curare” o “casto” contro ogni mia vocazione. Mai disprezzerò il grande dono che Dio mi ha fatto, di amare il mio compagno fino alla morte e di sperimentare con lui il grande amore che pervade la Creazione.
E dirò di più: non sono affatto disposto a essere “più discreto”, meno “provocatorio”, meno fastidioso. Perché il buon Dio mi ha voluto proprio così: sensibile come una donna, casinista come un bambino, vistoso come una checca. Se qualcuno si sente provocato dalla mia diversità, esamini se stesso e i suoi pregiudizi. A un nero non si chiede di sbiancarsi un pochettino per non dare scandalo, nè a un anziano di correre come un ragazzo. A una perla non si chiede di non brillare, nè a un tramonto di non rosseggiare. Si chiede piuttosto a chi guarda, di saper apprezzare le cose brillanti e il variare dei colori del cielo.
E se qualcuno sente minacciata la sua idea di famiglia a causa del mio modo di fare famiglia, esamini anche la sua idea e il modo di realizzarla.
Che la famiglia sia in crisi è verissimo, ma non sono certo io ad aver inventato famiglie in cui non ci si incontra, si fa ciascuno i cazzi suoi, non ci si confronta con gli altri, e si difendono i figli come se fossimo il loro sindacato. Non ho inventato io la disoccupazione e il lavoro precario che costringono i giovani a rimandare all’infinito il momento delle nozze; non ho dissacrato il matrimonio riducendolo a un fatto di vestiti coi pizzi, confetti e “liste nozze”. Queste sono le cose che minano la famiglia; non il mio desiderio di costruire una famiglia anch’io.
Spero almeno che, dopo queste veglie da primi della classe, vogliate partecipare anche al prossimo pride, per confermare la vostra appartenenza alla comunità di tutti, oltre a quella delle persone che pregano. E mi auguro che lo facciate senza porre nessuna condizione, nessuna richiesta di “sobrietà” e robe del genere. Il pride sia per voi un’occasione per capire il senso dell’allegria, della gioia, che è uno dei regali più grandi che io e i miei fratelli abbiamo da fare a questa tristissima Chiesa.