Chi ha ancora paura del Concilio?
Chi ha paura del Concilio Vaticano II? A cinquant’anni esatti dall’annuncio di Giovanni XXIII, lo storico Alberto Melloni e il teologo Giuseppe Ruggieri si misurano con una domanda che non è retorica. La paura sollevata dal Vaticano II, spiegano nel volume collettaneo in uscita da Carocci, ha una lunga storia.
Nacque insieme allo stesso annuncio, accolto il 25 gennaio del 1959 con l'”impressionante e devoto silenzio” dei cardinali. Continuò per tutta la durata delle celebrazioni, manifestandosi attraverso “un ostruzionismo metodico” alle direttive papali.
E la novità era rappresentata anche da una visione della Chiesa non più “organizzazione gerarchica di diseguali” ma “comunione di eguali in dignità”. E oggi, cosa fa più paura?
«Non è un caso, sostiene Melloni, «che il punctum dolens sia ancora la liturgia, cioè il punto dal quale il Concilio cominciò, disincrostando il culto divino dalle superfetazioni devozionali, dal sentimentalismo e soprattutto dall’idea che la celebrazione potesse ridursi a teatro nel quale alcuni assistono ed altri partecipano». La liturgia in sostanza cessò d’essere “rito della separazione castale”, diventando “esperienza e atto di comunione” che regola l’intera vita della comunità. «Per questo ancora oggi la liturgia è il discrimine vero, anche dentro la Chiesa, tra due modi di vivere l’esperienza cristiana.
Da una parte la Chiesa più movimentista, di piccoli gruppi di persone che si scelgono, ispirate dal carisma di un fondatore, persuase della propria qualità superiore: celebrano la messa ma non si definiscono a partire da lì, ma da ciò che fanno e come lo fanno. Dall’altro c’è il grosso delle comunità cristiane, che vivono nell’anonimato della vita parrocchiale, curate da preti che non fanno carriera e nessuno chiamerà mai in Tv». Questo è il grande corpo ecclesiale che il Concilio voleva rivitalizzare, «molto più somigliante alle turbe dei peccatori nelle quali Gesù si mimetizzava».
Oggi la paura del Concilio si annida in chi crede si debba riportare indietro l’orologio della storia. Riproporlo con forza significa dunque invocare un rinnovamento della Chiesa, ossia la capacità di parlare all’oggi, “alla storia che c’è, non a quella che c’era”. Il Vaticano II questo l’ha fatto. L’ha fatto così bene, sostengono i curatori del volume, che rimane lì, cinquant’anni dopo, a misurare la Chiesa di oggi: i suoi desideri e le sue paure.
Non è un caso che fioriscano nel paese anche “iniziative dal basso”, come l’università popolare promossa da Luigi Pedrazzi, storico fondatore del Mulino, proprio per riproporre la parola di papa Roncalli nelle case: letture e discussioni all’interno di abitazioni private per conoscere meglio quel pontefice che rinunciò all’istituto dell’anatema, anche questa scandalosa novità.
Gli oppositori di papa Giovanni confidarono in un concilio che riassumesse tutte condanne: condanna del comunismo, del liberalismo, dell’evoluzionismo, del neomodernismo, del socialismo. Mentre il pontefice impone un concilio di tipo nuovo, che non pronuncia nessun anatema. E costringe a ripensare il modo in cui dire il Vangelo agli uomini contemporanei, interrompendo una routine nella quale ci si era appisolati. «Mezzo secolo dopo», sintetizza Melloni, «c’è chi avrebbe voglia di una pennichella, ossia limitarsi a dire ripetuti “no!” e non impegnarsi nel comunicare il Vangelo come Vangelo».
Quello del Vaticano II è ancora lo “stile” con cui le attuali gerarchie vogliono misurarsi con la modernità? «”Stile” è la parola chiave: c’è una grande opera di Christoph Theobald, un gesuita di Parigi, che insiste sul valore di questa espressione, lo stile appunto, che spiega perché non tutti – e nemmeno tutte le forme della Chiesa che si trovano nella Storia – sappiano esprimere con la stessa forza l’eloquenza del Vangelo».
Melloni A. – Ruggieri G. (a cura di), Chi ha paura del Vaticano II?, Editore: Carocci, 2009, pagine: 150