Chiamami col mio nome. Giacomo Bandini, un youtuber gay e cattolico si racconta
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Dialogo di Katya Parente con Giacomo Bandini, volontario del Progetto Giovani Cristiani LGBT
Oggi è nostro ospite Giacomo Bandini, milanese, che, con altri ragazzi fa parte drl Progetto Giovani Cristiani LGBT ed è anche uno youtuber che parla di fede e omosessualità. Da lui vorremmo sapere un po’ qual è stato e qual è il suo cammino, e come sta vivendo questo momento nella Chiesa (a tal proposito, ecco la sua bella preghiera sulla benedizione delle coppie omosessuali, osteggiata dal Vaticano, ma caldeggiata dai vescovi tedeschi.
Parlaci un po’ di te…
Quando mi hai mandato l’SMS chiedendomi di parlare della mia attività come blogger, youtuber e attivista, devo dire che mi sono sentito per un attimo inebriato da quel senso di fama e popolarità che i social sono capaci, nel bene e nel male, di dare a chi li utilizza.
Poi sono subito tornato in me, e ti ho risposto spiegandoti che probabilmente ti eri fatta un’idea sproporzionata di chi sono: se proprio vogliamo definirmi youtuber, è più per diletto che per costanza; scrivo su un blog improvvisato, e anche in questo caso a periodi alterni; ho frequentato gruppi di cristiani LGBT e attivisti LGBT a Milano e in provincia (per qualche anno, con alcuni ragazzi e ragazze, abbiamo fondato e portato avanti delle attività di sensibilizzazione con un gruppo che avevamo chiamato Altomilanese LGBT), ma è drasticamente diminuito il tempo dedicato a seguire queste realtà.
Se devo guardare alla mia vita oggi, di fatto, vivo la mia quotidianità, e apparentemente nulla più. A dire il vero, registro più video per il canale YouTube della mia parrocchia che per il mio (giocoforza, nel periodo di pandemia che stiamo vivendo), scrivo di più per il mensile parrocchiale che per il mio blog, e ora come ora sono impegnato nella mia comunità cristiana come consigliere del Consiglio dell’Oratorio ed educatore del Gruppo Adolescenti, quindi in fin dei conti faccio più riunioni di quando dedicavo la maggior parte del mio tempo alle attività delle associazioni: diciamo che in questa dimensione si concretizza il mio attivismo oggi, come cristiano a 360 gradi.
Tutti e tutte conoscono la mia storia in parrocchia, conoscono il mio compagno Edoardo, e cerco di camminare in serenità ogni giorno insieme agli altri fratelli e sorelle per provare a capire come rendere vive le parole e i gesti di Gesù. Ecco, questa credo sia la mia vita oggi: molto ordinaria nello straordinario che di per sé richiede vivere da cristiani. Ovviamente, con anche tutti i miei limiti e fragilità.
La tua fede è un retaggio familiare, o l’hai scoperta con un percorso autonomo?
Sono nato e cresciuto in quartiere di periferia, dove al centro svetta il campanile della chiesa parrocchiale e si aprono tra le case popolari i campi dell’oratorio. Il mio essere cristiano è prima di tutto un elemento culturale profondamente radicato nel contesto sociale dove vivo. La religiosità e la ritualità di certi gesti sono elementi aggregativi fondamentali per il tessuto sociale. Per questo la mia famiglia ha deciso di battezzarmi, di accompagnarmi al catechismo e alla messa domenicale.
La fede non so quando è arrivata: credo sia stata un dono. Credo abbia approfittato del cuore di un bambino segnato dalla sofferenza: un dolore originato prima di tutto dalla separazione dei miei genitori, e poi dal mio sentirmi inadeguato e costantemente diverso rispetto agli altri, un conflitto interiore sulla mia identità che di anno in anno si faceva sempre più forte.
In questa dimensione di sofferenza, quella religiosità fatta di gesti, riti e formule ha iniziato a svelare un mistero più profondo: non era facile consolazione, ma radicale inquietudine; non era pronta risposta alle mie domande, ma provocazione che ne faceva nascere di nuove; mi fissai su una frase del Vangelo: “Cercate prima il regno di Dio, e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta” (Matteo 6:30).
Poi ho avuto la grazia di incontrare lungo il cammino sacerdoti, guide spirituali, e soprattutto amici e amiche con i quali condividere genuinamente la fede e cercare insieme di vivere la provocazione del Vangelo. Del resto la fede, come il nostro Dio trinitario, vive necessariamente in una dimensione relazionale. E da mia madre ho imparato ad ascoltare e riconoscere le piccole cose: credo siano stati fondamentali anche questi suoi insegnamenti di vita per predispormi ad accogliere il dono della fede.
Ma non chiedetemi chi è Dio, perché mi piace rispondere come Sant’Agostino: “Si comprehendis non est Deus” (Se comprendi chi è Dio, quello non è Dio).
Il tuo compagno condivide il tuo cammino di fede?
Edoardo, il mio compagno, è cresciuto anche lui in oratorio, ma dopo le medie ha abbandonato di sua iniziativa questi ambienti, e di fatto non ha più continuato un cammino di fede cristiana. Oggi si definisce ateo. Quando ci siamo conosciuti, era incuriosito in particolare dal fatto che io, come omosessuale, continuassi a frequentare la parrocchia e avessi anche un ruolo attivo nelle varie attività proposte.
Ricordo che più di una volta ha criticato l’incoerenza di un’istituzione della quale aveva lontane memorie di bambino, ma soprattutto ricordi più freschi di scandali e dichiarazioni che lui per primo definiva tutto fuorché vicini al Vangelo.
E forse è anche per questo che mi sono innamorato di lui, e che giorno dopo giorno ho deciso di affidarmi e costruire con lui una vita insieme. Perché lui, da ateo, mi parlava e mi parla di Vangelo e di Gesù. E la sua testimonianza alle volte mi sembra molto più vera di tante belle parole che ho sentito pronunciare da chi si fa difensore a spada tratta della religione cristiana.
Negli anni anche lui ha riscoperto, tramite me e i miei amici, un volto di Chiesa che normalmente non appare a chi ne è fuori, e così ha iniziato ad abbassare un po’ le sue difese e ad assecondarmi partecipando (non sempre a cuor leggero) ad alcuni incontri. Ma mi sono messo io per primo il cuore in pace, e non ho più la pretesa di riconvertirlo! Anche se ammetto che ci sono momenti in cui vorrei poter avere al mio fianco una persona con la quale pregare insieme e condividere un alfabeto spirituale comune.
Eppure, alla fine di ogni giornata, non posso non ringraziare il Signore del dono della vita di Edoardo, di quanto lui, con il suo esempio, mi sia da sprone a riprendere in mano il Vangelo, e di come Dio si manifesti anche e proprio nel nostro fragile amore.
Da quanto fin qui detto, deduco che tu sia dichiarato… Come e quando hai fatto coming out? Come hanno reagito quelli a cui l’hai detto?
Penso che potrai condividere con me che nella vita di una persona omosessuale (o comunque di una persona con una identità di genere o un orientamento sessuale non cisgender o eterosessuale) ci sono tanti coming out da affrontare: con gli amici, al lavoro, in famiglia, etc.
Indirizzo la tua domanda focalizzandomi sui due coming out che ho fatto in parrocchia. Il primo nel 2014: un anno fondamentale per la mia vita, dopo la maturità mi ero iscritto all’università cambiando radicalmente le mie abitudini quotidiane, e questo scombussolamento non aveva fatto altro che amplificare il conflitto interiore che stavo vivendo. La domanda su chi ero (e nello specifico quale fosse il mio orientamento sessuale) non poteva più rimanere senza una risposta.
Furono mesi veramente difficili a causa di quella lotta interiore incessante ed estenuante. Due amici, Roberta e Stefano, furono la valvola capace di sfiatare la pentola a pressione che era diventata la mia esistenza, e finalmente iniziai a prendere consapevolezza di chi ero, imparando piano piano ad accettarmi senza pregiudizio.
In parrocchia ero anche educatore del Gruppo Pre-Adolescenti: decisi di parlare al coadiutore, e di confidargli che avevo capito di essere omosessuale. Lui mi rispose che da parte sua non c’erano problemi, a patto che io non decidessi di vivere apertamente la mia omosessualità. Gli spiegai che non volevo più nascondermi, e concordammo che non avrei più proseguito i miei servizi in parrocchia, tra i quali il mio ruolo di educatore, per evitare di creare scandalo tra le famiglie.
Da lì a pochi mesi partii per una missione in Albania, e tornai a casa dopo tre anni. Il secondo coming out fu proprio al mio rientro in parrocchia: durante la missione avevo maturato la consapevolezza che non potevo più fuggire da chi ero, e che era giunto il momento di prendere in mano la vita e di realizzare la mia vocazione nel luogo in cui ero nato e vissuto, senza più nascondere a nessuno che ero un ragazzo omosessuale.
Raggiunta questa nuova serenità riguardo la mia omosessualità, parlai al mio parroco, don Giovanni, e lui decise con delicatezza e discrezione di accompagnarmi in questo cammino di fede e di vita, nuovo per me e anche per lui. Quando l’anno successivo, a seguito del trasferimento del coadiutore, ci fu bisogno di riprendere in mano l’organizzazione della pastorale giovanile, fu proprio il parroco a chiedermi di tornare a fare l’educatore per seguire il Gruppo Adolescenti.
Non ho nulla da recriminare al coadiutore che mi disse di non fare l’educatore per evitare di creare scandalo, perché, molto probabilmente senza saperlo, la decisione che concordammo mi fu da sprone per partire in missione, per partire da tutto, da tutti e da me stesso, proprio per ritornare alla fine in me stesso.
La tua parrocchia sembra un’oasi felice. Si tratta di una singolarità, o la Chiesa, quella fatta dagli oratori e dai preti che vivono con e per i propri fedeli, sta davvero cambiando?
Non credo esistano oasi felici, e diffido di qualsiasi luogo che pare essere privo di contraddizioni. La parrocchia nella quale vivo è una parrocchia come tante altre. È un luogo di relazioni, e come in ogni realtà sociale, quando si vivono intensamente rapporti umani con persone anche molto diverse tra loro, non mancano ferite, incomprensioni e pregiudizi.
Non mancano le classiche vecchiette e i (meno classici) giovani bigotti, che facilmente si scandalizzano ancora oggi anche della mia omosessualità. Ci si scandalizza di molte cose e persone, ma forse si permette poco al proprio cuore di essere inquieto davanti al Vangelo. La risposta migliore al chiacchiericcio è la vita stessa: ho imparato in questi anni che ciò che spiazza e sradica di più i pregiudizi di chi vive nella mia comunità cristiana è proprio la mia testimonianza di vita.
La serenità con la quale manifesto la mia omosessualità, senza sbandierarla, ma senza nemmeno nasconderla, semplicemente vivendola, è proprio ciò che mette in crisi anche il fratello e la sorella più conservatore. Gandhi diceva “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”, così credo si dovrebbe vivere anche dentro la Chiesa. Da quando sono “cambiato”, da quando ho raggiunto consapevolezza e serenità nel vivere la vita come Dio mi ha voluto, e quindi anche come ragazzo omosessuale, anche chi è attorno a me cambia. E questa forma di cambiamento è un impegno che dovremmo prenderci tutti come cristiani.
Devo dire che, più che preoccuparmi del chiacchiericcio in parrocchia attorno alla mia omosessualità, mi preoccupo decisamente di più quando la mia vita, e la vita di chi come me si impegna consapevolmente a mettersi alla sequela di Gesù Cristo, inizia a sapere poco di Lui, a parlare poco con le sue parole e a vivere poco i suoi gesti.
In fondo, forse, dovremmo provare tutti una nuova forma di coming out cristiano: la riscoperta del nostro sacerdozio battesimale, di un nuovo protagonismo laico, perché la Chiesa non cambia se non siamo noi per primi a cambiare.
Ci dai le coordinate dei tuoi social?
Volentieri, anche se, come ho confessato all’inizio di questa intervista, ma come potrete vedere anche voi, non sono molto costante nel tenerli aggiornati. Ecco il mio canale YouTube e il mio blog.
Ringraziamo Giacomo per la disponibilità a condividere con noi parte del suo cammino. La sua vicenda è un segno di speranza per tutti noi: un ragazzo che ha trovato la sua strada e la percorre umilmente nel rispetto di chi cammina con lui, o semplicemente ne incrocia la strada.