“Comanda una parola e il mio ragazzo sarà guarito” (Lc 7, 1-10)
Riflessioni Bibliche di Fabio Trimigno del Gruppo Zaccheo, cristiani LGBT di Puglia
Il Signore riesce a seminare anche lì dove tutto sembra ormai perduto e abbandonato, proprio come “un seminatore tra i più spregiudicati”, che non si stanca mai. Penso al centurione del Vangelo (Lc 7, 1-10) e poi al suono del mio violino, perché oggi il Vangelo non era a caso, ed io ero proprio lì, ad ascoltarlo.
Io amo questa pagina del Vangelo, perché in realtà parla molto di me e di tanti altri come me. La parola greca “pais” che il centurione romano usa nel Vangelo per descrivere l’uomo malato, è la stessa parola usata in greco che poteva significare “figlio o ragazzo”, “servo”, “l’amante maschio del suo padrone”. E fin da piccolo la frase “ma dì soltanto una parola ed io sarò salvato” (poco prima di ricevere l’Eucarestia) mi ha sempre rimandato alla storia del centurione e del suo servo: forse il suo amato? Chi lo sa?
Quando il centurione parla dei suoi schiavi, usa la parola “doulos” che è il termine “schiavo”, ma quando parla del suo schiavo prediletto usa solo “pais”. Alcuni teologi possono essere tentati di dichiarare semplicemente che i Vangeli non potevano aver utilizzato il termine “pais” nel senso di “amante maschio”: fine della discussione, come spesso succede con molti sacerdoti e molti bigotti destroidi e conservatori.
Ma questo sarebbe cedere a un pregiudizio. Pertanto mi piace pensare con più libertà e con meno catene, mi piace pensare che la parola di Dio parli per sé stessa, anche se ci porta ad una conclusione scomoda: è come credere che la Parola semina anche lì dove ci può sembrare assurdo, dove può sembrarci più scomodo, dove tutto può sembrarci perduto e abbandonato.
Ed ecco che mentre il prete legge il Vangelo di oggi, proprio accanto a me, magari starà pensando, torturandosi in un’altra sede, se darmi l’Eucarestia o no, se è sacrilegio darmela pubblicamente, o se io sono o non sono un buon esempio di vita cristiana, o se la mia condizione di cristiano non sia una condizione per una sana morale della comunità, o se l’Eucarestia come medicina può aiutarmi a guarire in quello che è il mio intrinseco disordine.
Senza preoccuparsi che probabilmente l’intrinseco disordine ce l’abbiamo negli occhi, in quella cecità che sta proprio quando si legge il Vangelo, perché gli occhi restano sulla carta e non incontrano la carne di Gesù viva nella Parola, viva negli orecchi dei propri fedeli e dei propri parrocchiani.
Io ascolto il Vangelo e penso: “quando questo amato servo si ammala, il suo amato centurione non si ferma davanti a nulla per salvarlo”.
Mi ricorda Roberto nel giorno del mio infarto respiratorio: 9 flebo al giorno per 10 giorni, con braccia tumefatte e bombola d’ossigeno, e lui al mio capezzale, solo lui e della mia famiglia neanche l’ombra.
Forse qualcuno ha raccontato al centurione delle dicerie sui poteri di guarigione di Gesù; che è un giovane uomo aperto agli stranieri, ai peccatori, agli ultimi, ai ladri, alle prostitute, un uomo che insegna ai suoi seguaci ad amare i loro nemici, anche i soldati romani. Così il centurione decide di darsi una possibilità. Gesù è la sua sola speranza.
Mi piace pensare che mentre se ne va da Gesù, probabilmente teme la possibilità che, come gli altri Rabbi ebrei, abbia una cattiva opinione della sua probabile relazione col suo servo, un po’ come spesso mi è capitato di pensare anche a me quando andavo a confessarmi da alcuni sacerdoti.
Forse pensa di mentire come, a volte, anche io sono stato tentato fare. Potrebbe semplicemente usare la parola “duolos” per parlare del suo schiavo, sarebbe precisa, a quanto sembra.
Anche io avrei potuto continuare a convivere con Roberto, mentendo alla società e alla Chiesa, senza legittimare e tutelarci a vicenda, in una società fatta di leggi, di diritti e doveri.
Ma il centurione è come me, si immagina che se Gesù è potente abbastanza da guarire il suo amante, è potente abbastanza anche per guardare al di là delle mezze verità, aldilà delle attività dei nostri genitali, aldilà dei nostri orientamenti profondamente radicati per natura, pertanto per mezzo di Dio.
Io a volte mi rivedo in quel centurione quando riconosco le mie debolezze, la mia piccolezza e la grandezza di Dio, altre volte mi sento paralizzato come quell’amato servo, mi sento malato quando sono gli altri a diventare per me una malattia soffocante e asmatica. Eppure senza esitazioni Gesù lo guarisce e poi dice “presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande”.
E dopo che il prete chiude con “Parola del Signore”, io ho la certezza che posso essere testimonianza di vita cristiana, perché le mie orecchie l’hanno appena ascoltato dalle parole del Vangelo pronunciate dallo stesso prete che mi condanna.
Non sono riuscito più a prendere il violino (con cui accompagnavo la messa) tra le mani, dopo l’omelia, perché ero commosso dal Vangelo, da quelle parole e da una serie di coincidenze: non mi sono sentito più degno di far vibrare quelle corde, non mi sono sentito più degno di far vibrare quel legno.
Perché quando senti forte la responsabilità di ciò che hai tra le mani e ne prendi coscienza, poi lo sforzo richiesto è maggiore perché possa quello strumento essere dolce melodia che può aiutare gli altri a pregare e ad avvicinarsi alla bellezza di Dio e del Suo Amore.
Un Vangelo che è una grande metafora di accoglienza e di amore del Padre, per quel centurione e quel servo che non si vergognano di amarsi.