Come “costruire un ponte” tra la Chiesa cattolica e la comunità LGBT secondo il gesuita James Martin
Intervista di Robert Christian pubblicata sul sito per giovani cattolici Millennial (USA) il 21 giugno 2017, libera traduzione di Silvia Lanzi
Nel giugno 2017 padre James Martin ha pubblicato “Building a Bridge: How the Catholic Church and the LGBT Community Can Enter into a Relationship of Respect, Compassion, and Sensitivity“.
Il cardinale Kevin Farrell, prefetto del dicastero vaticano per i laici, la famiglia e la vita l’ha definito “un libro di cui si avevamo bisogno da molto tempo che aiuterà vescovi, preti, operatori pastorali e tutte le persone coinvolte ad avvalersi di una pastorale più compassionevole nei confronti della comunità LGBT“.
Il vescovo di San Diego Robert McElroy ha affermato che questo libro “ci fornisce il linguaggio, la prospettiva e il senso di urgenza per intraprendere l’opera ardua, ma grandiosamente e profondamente cristiana, di sostituire una cultura di alienazione con una cultura di inclusione misericordiosa“.
Christopher White ha fatto un’interessante intervista con padre Martin su Crux, e anche il sito Jesuitical ne riporta un’altra, insieme forniscono un’utile visione d’insieme dei temi centrali del libro. Questa intervista a padre James Martin, su alcuni degli argomenti chiave del libro, è stata curata da Robert Christian, editore di Millennial.
Così tanti millenials – o ragazzi della generazione Y che dir si voglia – sono cresciuti con familiari o amici apertamente gay, perciò è molto importante per loro il modo in cui vengono trattati, come ovviamente lo è anche per i giovani LGBT. A cosa pensi servirebbe “costruire quei ponti”, che descrivi nel tuo libro, ai nostri giovani lettori (in generale) nel loro rapporto con la Chiesa?
Per me, quello che descrivo è una cosa sorprendente anche per me, visto che ho fatto molta esperienza con la pastorale LGBT. Prima di tutto, più le persone saranno aperte riguardo alla propria sessualità e identità, più i cattolici sentiranno l’impatto delle famiglie e degli amici delle persone LGBT. Così, in effetti, questo è un argomento più vasto di quello che avevo pensato.
Ma l’altra sorpresa è precisamente ciò che descrivi: per molti ragazzi la questione dell’accettazione delle persone LGBT, virtualmente è un non-problema. So che dicono: “Certo che li accetto! Certo che li amo! Certo che appartengono davvero alla Chiesa!” e spesso sono inorriditi dal linguaggio usato delle alte sfere ecclesiastiche.
Alcuni di loro mi hanno detto che uno dei motivi per cui hanno lasciato la Chiesa è proprio questo – anche se sono etero. Così il ponte che descrivo – che unisce i cattolici LGBT e la Chiesa istituzionale – per alcuni di loro è l’unica strada che li porta verso l’ambiente ecclesiale. D’altra parte, non vogliono appartenere ad una
Chiesa che sentono in qualche modo omofoba e/o non accogliente.
I vescovi come potrebbero rispondere ai gruppi di estrema destra che danno la caccia agli impiegati gay nelle istituzioni cattoliche e fanno pressione su queste affinché li licenzino?
Prima di tutto, nel libro dico esplicitamente che non penso che le organizzazioni ecclesiastiche debbano licenziare i loro impiegati LGBT. Per il semplice motivo che sembra che la richiesta di adesione agli insegnamenti (moralia) della Chiesa si applichi esclusivamente a loro. Noi non licenziamo i cattolici divorziati e risposati che non abbiano ottenuto l’annullamento, o le donne che hanno avuto figli fuori dal
matrimonio, o chi usa metodi contraccettivi non naturali – tutte cose, queste, contrarie all’insegnamento dellla Chiesa. La questione dell’aderenza a tali principi è usata in maniera troppo selettiva e questo, secondo me, rientra in ciò che il catechismo definisce “ingiusta discriminazione“.
E per quel che riguarda i gruppi di estrema destra che, come ricordi giustamente, “danno la caccia” agli impiegati LGBT? Penso che i vescovi dovrebbero ignorarli. Questi gruppi, spesso molto piccoli in termini di numero di membri, di solito si preoccupano non tanto dell’applicazione degli insegnamenti della Chiesa, quanto semplicemente di stanare e di perseguitare le persone LGBT. Trovo che le loro tattiche siano davvero riprovevoli.
Penso che hai portato avanti in modo molto convincente l’idea che si debba usare parole come gay e lesbica piuttosto che quella più formale di “persone omosessuali”, ma ci dovrebbero essere dei limiti al fatto che la Chiesa – dai suoi ministri fino ai documenti formali – cominci a usare alti termini quali pansessuale e polisessuale? Ad un certo punto un determinato individualismo espressivo, in termini di assenza di confini dell’identificare se stessi, fa a pugni con l’idea che la Chiesa ha della natura della persona umana: ha significato allora distinguere tra i vari termini della comunità LGBT?
Ottima domanda. La nostra identità fondamentale è quella di essere figli di Dio da Lui amati, cristiani battezzati, e membri della Chiesa cattolica. Tutto ciò precede l’identità e l’orientamento sessuale.
Sull’uso di termini particolari, so che si tratta di una questione spinosa e piuttosto controversa. Sembra che l’acronimo LGBT cambi praticamente ogni settimana. Infatti, proprio l’altra sera ho chiesto spiegazioni ad un uomo gay e ad una donna lesbica, ed entrambi hanno risposto: “Non possiamo stare al passo con tutti i cambiamenti”.
Stiamo assistendo ad una rivoluzione del modo in cui le persone concepiscono se stesse e si identificano. Ma alla Chiesa non dovrebbe essere estraneo nulla di quel che riguarda l’esperienza umana e così essa ha bisogno di meditare a fondo su quest’aspetto dell’esperienza umana. Allo stesso tempo bisogna tenersi stretta la nostra identità fondamentale di figli di Dio, cristiani battezzati e membri della Chiesa cattolica.
Ma sarò onesto: penso di non capirne abbastanza sulla fluidità della sessualità, sui dettagli della psicologia, e sulla terminologia corrente, per essere in grado di pronunciarmi con certezza sull’argomento. Il mio modo di pormi è questo: quando ci si confronta con qualche aspetto della vita di una persona che non si conosce, si è chiamati ad ascoltare le sue esperienze, guardandole alla luce del Vangelo e dell’insegnamento della Chiesa e a giungere in qualche modo a capire come accompagnare questa persona. Prima c’è l’ascolto.
Ora il matrimonio omosessuale è un argomento fondamentale per la comunità LGBT. La posizione della Chiesa a riguardo potrebbe creare un muro che renderebbe estremamente difficile riuscire a costruire determinati ponti?
Non per come la vedo io. Hai ragione nel dire che ciò è una barriera nella costruzione di certi ponti. La Chiesa istituzionale e la maggior parte della comunità LGBT sono su posizioni diametralmente opposte. Lo stesso è vero per la proibizione della Chiesa alle relazioni omosessuali (vale a dire, l’insegnamento della Chiesa sull’attività erotica con persone dello stesso sesso). Per la Chiesa è semplicemente impossibile. Per la comunità LGBT è un dato di fatto irrefutabile.
Per cui è vero: ci troviamo davanti a una barriera. Ma preferisco concentrarmi sulle cose in comune: il desiderio di conformare la propria vita a Cristo, quello di partecipare alla vita sacramentale della Chiesa, il desiderio di far parte della comunità cristiana. E i primi passi che chiedo, “rispetto, compassione e sensibilità”, virtù sottolineate dal catechismo, altro non sono che il principale richiamo all’apertura del cuore. Credo che questa sia qualcosa che tutti possono portare con sé, mentre attraversano il ponte.
Sembra che l’appello alla Chiesa cattolica perché faccia molto di più riguardo alla violenza contro le persone LGBT (per esempio in paesi come la Cecenia e l’Uganda), sul bullismo, la depressione e i suicidi dei gay avvenuti qui negli Stati Uniti (e non solo), siano un punto di partenza critico. Cosa possono fare concretamente la Chiesa cattolica – i fedeli e la gerarchia – su questi problemi?
Prima di tutto, denunciare. Il Vangelo ci costringe a stare dalla parte di chi, in qualunque modo, è perseguitato. Non so come Gesù avrebbe potuto essere più chiaro: lui stava con gli emarginati. La dottrina sociale della Chiesa ci spinge con impellenza a capire il significato del termine “solidarietà”. E il catechismo ci chiede di resistere ad ogni forma di “ingiusta discriminazione” contro le persone LGBT.
Così, in luoghi dove le persome omosessuali sono perseguitate attivamente, la Chiesa dovrebbe stare al loro fianco, pubblicamente. Le altre istanze, si possono vedere chiaramente alla luce dell’insegnamento della Chiesa. Cos’altro è il suicidio degli adolescenti gay se non un “argomento capitale”? Così dobbiamo di fare in modo che le persone LGBT si sentano visibili e preziose.
Dobbiamo far loro sapere che sono figli carissimi di Dio che sono tanto parte della chiesa come il papa, il loro vescovo locale e me. Dobbiamo ascoltarli ed entrare nel mistero delle loro vite. Li dobbiamo difendere quando ne hanno bisogno. Dobbiamo usare loro compassione. E dobbiamo lascare che ci evangelizzino. In una parola, dobbiamo amarli.
Testo originale: Building a Bridge Between the Church and the LGBT Community: An Interview with Fr. James Martin