Come Dio infrange le regole per accogliere le persone LGBT+ (Isaia 56: 3-8)
Testo di Austen Hartke tratto da “Transforming: The Bible and the Lives of Transgender Christians” (Trasformazioni. La Bibbia e le vite dei cristiani transgender), editore Westminster John Knox Press, 2018, 225 pagine), capitolo 7.1, liberamente tradotto da Diana di Torino, revisione di Giovanna di Parma
A metà novembre 2013 mi sono imbattuto in un brano della Scrittura che ha cambiato la mia vita. All’epoca avevo 25 anni e stavo iniziando il secondo anno di master in studi biblici e stavo per fare coming out come transgender. Da un lato, provavo un senso di sollievo nell’affrontare finalmente qualcosa da cui stavo fuggendo da troppo tempo. D’altro canto ora, che avevo ammesso questa verità su me stesso, era come se stessi nascondendo un segreto pericoloso. La felicità che provavo nel dare un senso a tutti i miei sentimenti più intimi fu rapidamente oscurata dalla potenziale crisi che aleggiava in tutte le conversazioni coi miei genitori.
Infatti, parte dei motivi per cui mi ci era voluto tanto tempo per ammettere che mi sentivo maschio (anche se ero nato donna), era dovuto al fatto che mi sentivo terrorizzato nel doverlo dire alla mia famiglia. Sapevo che dir loro che ero trans sarebbe stato difficile per il modo di pensare di mio padre e per le paure per la mia sicurezza di mia madre. L’idea di mettere alla prova i miei genitori spiegando che volevo subito iniziare la terapia ormonale mi sembrava, in un certo qual modo, meschina. Li avrebbe spinti in un mondo in cui amici e familiari avrebbero puntato il dito sulle loro capacità genitoriali e si sarebbero chiesti perché il loro primogenito non potesse adattarsi al corpo che Dio le aveva dato.
Sapevo che, se avessi detto loro che ero trans, queste conversazioni sarebbe diventate parte della nostra nuova realtà. Ci sarebbe stato chiesto di spiegare come la mia identità trans si conciliasse con la nostra fede e io non avevo ancora delle risposte. Nel mio cuore la mia relazione con Dio non era cambiata, perché io non ero cambiato. Nel fare coming out come transgender a me stesso stavo solo riconoscendo una parte di me che, per quanto mi ricordo, lo era sempre stata e che non aveva mai interferito con la mia fede. Ero cresciuto cantando “Gesù mi ama” e interiorizzando il messaggio che Dio mi conosceva meglio di quanto io conoscessi me stesso. Pensavo che se questo era stato vero per tutta la mia vita così come i sentimenti sull’identità di genere che avevo sempre provato, allora l’amore di Dio e la mia identità di genere non potevano escludersi a vicenda.
Ma avevo questo tarlo nella mia mente – un’eco della teologia conservatrice che avevo interiorizzato crescendo – che mi sussurrava che andava bene che il mio genere fosse un po’ non convenzionale, purché non tentassi di fare qualcosa al riguardo. Assomigliava molto ai messaggi ricevuti da adolescente quando avevo fatto coming out come bisessuale: Dio ti ama ancora, ma non agire in base a questi sentimenti o altro. Ciò significava che terapia ormonale e chirurgia erano fuori discussione, così come cambiare nome e pronomi.
Come studente di testi biblici avevo trovato solo un versetto che aveva qualcosa da dire sul cambiamento del proprio corpo in relazione alle proprie caratteristiche sessuali fisiche. Deuteronomio 23:1 in cui si legge: “Nessuno a cui siano stati schiacciati i testicoli o il pene reciso entrerà nell’adunanza del Signore”. Mi chiedevo se questo versetto si dovesse intendere come un divieto contro qualsiasi tipo di modifica delle caratteristiche fisiche sessuali o se fosse inteso come un vincolo imposto esclusivamente alle persone con quegli organi riproduttivi. In quest’ultimo caso, cosa significava per le donne transgender che sceglievano di rimuovere pene e testicoli durante la transizione chirurgica? Indipendentemente da ciò, questo versetto sembrava creare un preoccupante precedente.
Ho dovuto lavorare molto cercando di immaginare i modi in cui la mia fede poteva intersecarsi con la mia identità transgender appena compresa. Poiché avevo quella che credevo una relazione forte con Dio, e poiché la mia identità di genere era solo un dato di fatto, la mia domanda non era: “Devo scegliere tra la mia identità di genere e la mia fede?” Invece mi sono chiesto: “E’ possibile abbracciare pienamente entrambe le parti della mia identità ed essere accolto nella comunità cristiana?”
Durante la pausa del Ringraziamento quello stesso anno mi sono trovato a rovistare tra i miei libri per scegliere l’argomento della tesi per il mio master. Una sera ho afferrato la Bibbia da una pila di libri di scuola progettando di cercare i miei passi preferiti e sperando di trovare qualcosa di intrigante. Mi sono seduto per terra accanto alla libreria e ho lasciato cadere la grande Bibbia usata per lo studio completa di note esplicative e appunti evidenziati davanti a me.
Da bambino mi ricordo di aver considerato la Bibbia come una pallina magica. Il nostro pastore diceva che tutte le risposte erano nella Bibbia, stringevo bene gli occhi e mettevo il dito su una pagina a caso per vedere cosa Dio avesse da dire per quella particolare circostanza. La cosa migliore era che se la risposta non mi piaceva o non era comprensibile, ricominciavo tutto da capo!
Non avevo più fatto niente del genere da più di un decennio, ma quella notte particolare ho soppesato tra le mie mani la copertina di questa grande Bibbia e ho lasciato che si aprisse da sola. Ecco, proprio al centro della pagina, sul lato destro ho letto Isaia 56: 3-8 e questi versi sono entrati nel mio cuore:
Lo straniero che si è unito all’Eterno non dica: “Certo l’Eterno mi escluderà dal suo popolo!” Né dica l’eunuco: “Ecco, io sono un albero secco!” Poiché così parla l’Eterno circa gli eunuchi che osserveranno i miei sabati, che sceglieranno ciò che a me piace, e si atterranno al mio patto: Io darò loro, nella mia casa e dentro le mie mura, un posto e un nome, che varranno meglio di figli e di figlie; darò loro un nome eterno, che non perirà più. E anche gli stranieri che si sono uniti all’Eterno per servirlo, per amare il nome dell’Eterno, per esser suoi servi, tutti quelli che osserveranno il sabato astenendosi dal profanarlo e si atterranno al mio patto, io li condurrò sul mio monte santo, e li rallegrerò nella mia casa d’orazione: i loro olocausti e i loro sacrifici saranno graditi sul mio altare, perché la mia casa sarà chiamata una casa d’orazione per tutti i popoli. Il Signore, l’Eterno, che raccoglie gli esuli d’Israele, dice: ” Io ne raccoglierò intorno a lui anche degli altri, oltre quelli de suoi che son già raccolti”.
Sono rimasto senza parole. Avrei giurato di non aver mai letto questi versetti prima, nonostante avessi studiato il libro di Isaia a scuola solo l’anno prima. Ho provato un legame immediato con l’eunuco e con lo straniero. La loro paura per la separazione, di essere dimenticati, di essere tenuti fuori dalla famiglia di Dio – tutto basato su identità non scelte, come il luogo della loro nascita e intrinseche, come la forma del loro corpo. Le loro paure erano le mie. Eppure c’era Dio che parlava tramite il profeta Isaia placando quelle paure e promettendo accoglienza.
Il giorno dopo mi sono recato nell’ufficio del mio relatore della tesi con la mia Bibbia per chiedergli se potevo scrivere su Isaia 56: 1-8. Dovevo sapere se c’era una connessione diretta tra le esperienze degli eunuchi nel mondo antico e le persone transgender oggi e se questo testo poteva essere interpretato come un invito ad una piena accoglienza delle minoranze di genere.
Prima di poter rispondere a tali domande avevo bisogno di contestualizzare. Infatti c’era un collegamento tra Deuteronomio 23:1 – il versetto sulla modifica dei genitali – e il testo di Isaia che stavo esaminando.