Come figli della luce (Giovanni 9, 1-41)
Riflessioni bibliche di Fabio del Gruppo Zaccheo della Puglia
Nel 1977 qualcuno cantava “Noi siamo figli delle stelle, silenziosamente insieme ci sentiamo, ci incontriamo per poi perderci nel tempo, avvolti dalle ombre noi ci amiamo”. Dopo anni di ricerca anche gli scienziati arrivano alla conclusione che quasi metà del nostro corpo ha origine cosmica ed è materia che proviene da galassie molto lontane.
Ci piace immaginare che ciascuno di noi sia come un pulviscolo stellare. Il cielo e la terra, il divino e l’umano, il sopra e il sotto, l’eterno e il mortale, la luce e il buio, il fiato e la carne, il tutto avvolto in un dialogo cosmico tra materia visibile e invisibile, impastato con lo sputo in una sola sostanza: la vita.
Gli astrofisici parlano di venti galattici che portano nello spazio molto più materiale cosmico di quanto possiamo calcolare. Ci piace immaginare che questo vento e questo soffio sia davvero il“pneuma”, quello che noi chiamiamo Spirito Santo.
A parte ciò che la nostra fede ci porta a credere o a non credere, tutto ciò sicuramente ci porta a concludere che la nostra origine sia molto più lontana, che la nostra genesi sia meno locale di quanto possiamo immaginare.
E in questa IV domenica detta “in laetare”, San Paolo nella seconda lettura (Efesini 5, 8-14) ci ricorda che siamo “come figli della luce”. Ce lo dice duemila anni fa, lui che non era un astrofisico, lui che non aveva i mezzi tecnologici e le teorie necessarie per sostenere questa verità, lui che solo sotto la luce della fede ci esorta a svegliarci dal sonno del buio: “Svegliati, tu che dormi, risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà”.
Cos’è questa IV domenica in cui il sacerdote si riveste di rosa, se non la domenica della speranza e dell’avvicinarsi della luce? Cos’è questa sfumatura rosea, se non un viola più tenue e delicato che ci fa intravedere l’alba di un giorno diverso?
Cos’è questo colore rosa, se non una declinazione più morbida di quel fuxia così violento e sventolato tra gli indumenti delle parate dei diritti LGBT, se non una esasperata richiesta di speranza e di libertà?
Cos’è questo giorno che viviamo oggi se non il giorno per cui prendere coraggio e venire alla luce, svegliarsi da un sonno e aprire gli occhi da una cecità soffocante?
Cos’è questa pagina rosa del Vangelo di Giovanni (9, 1-41), se non un inno alla luce? Gesù ci stupisce perché proprio Lui che è La Parola, oggi ci parla poco ma agisce tanto: passando vede, agisce ed esorta, sparisce e torna solo alla fine dell’episodio.
GESU’ PASSANDO VEDE
Passando vede un cieco dalla nascita e non lo giudica: Gesù che si definisce “luce del mondo” non dice molto, ma agisce con fango e saliva, e invita il cieco a lavarsi con l’acqua.
GESU’ AGISCE
Il fango, la terra, la polvere ci ricordano che “il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” (Genesi 2, 7). Così il cieco ritorna alla vita, ritorna alla sua origine, alla sua genesi, alla sua natura di terra e cielo, di quel materiale cosmico che gli ridona la dimensione di “essere vivente”: Gesù gli riconsegna la dignità di uomo.
Il cieco non ha un nome e in quel cieco è racchiuso un mondo: uomini, donne, vecchi, bambini, bianchi, neri, omosessuali, transessuali, tutti assieme sotto la sua luce.
Gesù passa nel mondo, cammina tra noi senza giudicare e ci ridona la dignità di essere quello che siamo.
La saliva è ciò che c’è di più riconducibile alla biologia dell’uomo. In questi giorni difficili, in cui ci viene impedito il contatto, in cui ci viene vietata ogni possibilità di relazione, in questi giorni in cui la saliva, il respiro, il fiato sembrano essere la via più semplice di trasmissione di un virus mortale, proprio oggi la saliva di Gesù diventa la trasmissione della vita, il passaggio del suo DNA: la polvere di terra si trasforma in polvere di luce. La sua saliva è guarigione, la sua saliva diventa passaggio necessario dal buio alla luce, dalla cecità alla vista.
GESU’ ESORTA
“Va a lavarti nella piscina di Siloe che significa inviato” e così che il risveglio alla nuova vita, il passaggio dall’ombra alla luce, non può che venire attraverso una purificazione. L’elemento dell’acqua della piscina di Siloe ci ricorda il battesimo in cui siamo tutti chiamati e “inviati” ad essere re, sacerdoti e profeti.
E come “Le acque ritornarono e sommersero i carri e i cavalieri di tutto l’esercito del faraone” (Esodo 14, 8), così siamo chiamati a purificarci, a liberarci della schiavitù, a rendere la nostra fede da romantica a disciplinata, ad accettare per assurdo la nostra condizione di cieco per poter realmente vedere.
Gesù ci esorta a camminare un po’ da soli in questa nostra ricerca, a camminare per le strade senza vedere, ad incamminarci al buio sul ponte della nostra vita, con fango e saliva in faccia: Gesù ci esorta a porre fiducia solo in Lui, che può liberarci dalle nostre paure, dai nostri sensi di colpa, dai nostri faraoni, dalle nostre condizioni di uomini feriti e di donne ferite.
GESU’ SPARISCE
Ed ecco che Gesù esce fuori di scena e il cieco resta solo. E’un atto di responsabilità quello che Gesù affida al cieco: non c’è nessuno se non una folla di farisei che accusa l’uomo cieco, per cui la sua sofferenza dalla nascita diventa sotto gli occhi di tutti una colpa, un peccato da scontare.
I farisei interrogano anche i suoi genitori che rispondono “Ha l’età: chiedetelo a lui”. Neanche i suoi genitori lo accolgono: il classico coming-out di un cristiano LGBT che cade nella trappola del “ora è un problema suo, se la può vedere da solo”.
In una società in cui spesso anche la nostra Chiesa come i farisei ci dice ”Sei nato nei peccati e insegni a noi?”, in una società che spesso ci grida “Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?”, in una comunità che costringe noi uomini e donne LGBT a stare seduti, a stare zitti, a subire, a non reagire, in una realtà che spesso ci regala solo surrogati di felicità, come se ci meritassimo briciole d’amore, proprio in tutto questo Gesù passa, vede, agisce, esorta.
Ma il binomio sofferenza-colpa non rientra nella logica di Gesù, pertanto va via e decide di lasciarci soli perché crescere, risorgere, passare dal buio alla luce comporta dover prendere decisioni: stare nel mondo in una piena libertà, vivere a testa alta, prendere coscienza che la nostra dimensione umana appartiene ad un sistema più grande, in cui stabilire nuove coordinate da vedente e non più da cieco.
Da qui nasce l’esigenza di riscoprire una solitudine intesa come rapporto tra sé e la proprio fede, tra “io” e “Dio”: una quarantena del singolo che diventa specchio di una urgenza planetaria.
GESU’ RITORNA
“Se foste ciechi, non avreste alcun peccato”. Gesù riappare alla fine del racconto e ci mette in guardia che ciò che vediamo non sempre è verità: spesso viviamo nell’illusione di una luce apparente in cui tutto ci sembra limpido e chiaro, mentre la Verità spesso si nasconde ai nostri occhi. Solo la fede in Lui può farci sentire “come figli della luce” e vedere per davvero.